di Luca Mercalli, da il Fatto quotidiano, 7 marzo 2012
Caro presidente Monti, l’8 gennaio a Che tempo che fa le ho donato una copia del mio libro Prepariamoci e Lei, squisitamente, mi ha stretto la mano e detto “Ne abbiamo bisogno”. Un mese dopo assieme ad alcune centinaia di docenti di atenei italiani, ricercatori e professionisti (inclusi Vincenzo Balzani, Luciano Gallino, Alberto Magnaghi, Salvatore Settis) firmavo un appello per sollecitare una Sua riconsiderazione delle argomentazioni tecnico-economiche a supporto della linea ad alta capacità Torino-Lione, che da anni risultano non convincenti. A tutt’oggi non solo non è giunto un Suo cenno di considerazione, quanto piuttosto la perentoria affermazione che i dati sono definitivi e invarianti, le decisioni sono assunte, il progetto deve andare avanti anche manu militari. Non mi aspettavo una tale chiusura, ora fonte di una profonda spaccatura in una parte del mondo intellettuale e scientifico italiano.
Il dialogo, soprattutto tra rappresentanti dell’ambito della ricerca usi ad argomentare secondo il metodo scientifico, non si dovrebbe mai negare nei paesi democratici, a maggior ragione allorché la controversia assume vaste proporzioni coinvolgendo l’ordine pubblico e sollevando una quantità di dubbi, ambiguità e contraddizioni che invitano a un’ulteriore dose di prudenza e approfondito riesame. Ciò non è purtroppo avvenuto, ed è motivo di profonda frustrazione da parte di molti di noi. A nulla è servita la lucida presa di posizione di Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino, già membro dell’Osservatorio tecnico, sui vizi procedurali del processo decisionale tanto difeso come il migliore possibile, a nulla la precisazione di Monica Frassoni dei Verdi europei sulla labile politica comunitaria dei trasporti ancora tutta da consolidare e sbandierata invece come patto d’acciaio da rispettare senza se e senza ma. L’elenco di atti e studi incongruenti, unito a un insopportabile tasso di menzogne mediatiche, è così lungo che da solo basterebbe a fermare, vieppiù in questo momento di crisi, ogni decisione su questo fronte, a favore di altre priorità che non pongono dubbi di sorta: ammodernamento della rete ferroviaria esistente, cura del dissesto idrogeologico, riqualificazione energetica degli edifici, arresto del consumo di suolo, riduzione dei rifiuti, restauro del patrimonio culturale, estensione capillare della connettività Internet, garanzie di assistenza sanitaria e didattica pubblica, per perseguire le quali non si sono mai visti blindati e manganelli!
Un mito aleggia sopra quel tunnel impedendo a politici, giornalisti e cittadini di alzare il velo e chiedersi come stanno veramente le cose, anche in Francia dove i lavori non sono affatto iniziati. È forse il mito futurista della velocità sferragliante, peraltro sorpassato dall’aereo e dal bit, unito all’illusione che da quel buco, e solo tra vent’anni, defluiscano da ovest prosperità e progresso? Eppure già oggi chiunque voglia andare a Parigi o alle Maldive lo può fare quando e come desidera! Ma la mancanza di quel tunnel sotto il massiccio dell’Ambin, infrastruttura rigida e obsoleta nelle sue finalità, foriera di debiti insanabili come dimostrato dalla Corte dei Conti su progetti analoghi, vorace di energia e prodiga di emissioni climalteranti, sembra privi tutti di un talismano viscerale. Personalmente, come ricercatore e giornalista, il rifiuto a discutere l’estrema complessità di questo progetto, mi avvilisce, e mi annienta come cittadino. Faccio mia l’accurata analisi sociologica di Marco Revelli confermando che in me il patto civile con lo Stato sta andando in frantumi. La fiducia nelle istituzioni, da me sempre onorata – dal servizio militare (alpino, ovviamente!) al pagamento delle imposte – sta venendo meno e ora un grande vuoto alberga in me.
Non resta che un grido di disperazione di fronte a tanto disprezzo e a tanta arrogante violenza fisica e ancor più psicologica esercitata dalle istituzioni su una comunità. Violenza silente, della quale non si parla mai perché offuscata dalle sassaiole, ma dimostrata in questi casi dai lavori del geografo Francesco Vallerani e dagli psicologi Roberto Mazza dell’Università di Pisa e Ugo Morelli dell’ateneo bergamasco. Quel grido chiede ascolto, e ovviamente discussione argomentata e rigorosa. Invece ci si sente dire: rispettiamo chi ha posizioni contrarie, ma andiamo avanti lo stesso con le ruspe, applicando “un mix di dissuasione e repressione”. Ma allora a cosa serve esprimere posizioni contrarie se non vengono discusse le ragioni del no? Mauro Corona la chiama “democratura”. Al liceo, Silvio Geuna, medaglia d’argento al valor militare, ci diceva che alla sua età avanzata aveva solo il ruolo di plasmare i valori della futura classe dirigente. Oggi a 46 anni, noto che il mio futuro continua a essere determinato da anziani signori con idee molto diverse dalle mie e quindi dichiaro fallito l’investimento culturale e civile su di me da parte della nazione.
Peggio ancora sisentono i giovani ricercatori della generazione che mi segue che vedono sbarrate le possibilità di indirizzare il loro futuro in direzioni differenti da quelle oggi dominanti e perniciose. Come diventerà dunque la nostra società che annienta i germi di riflessione sull’avvenire proprio quando l’instabilità epocale alla quale andiamo incontro richiederebbe il massimo della cooperazione di saperi e proposte non convenzionali? Avremo quel buco, forse, tra tanti anni, ma che ne sarà del resto attorno? Il governatore Cota si è chiesto da dove prendono i soldi i No-Tav: da migliaia di ore di lavoro volontario, sottratto a svago e famiglia, si chiama partecipazione civile. Con molta amarezza rifletto dunque se sia utile impegnarsi per la difesa dei beni comuni o se sia meglio spendere la propria esistenza in occupazioni più divertenti. Se arriverò a quell’ultima conclusione, restituirò la mia qualifica di cittadino e opererò soltanto per mio bieco interesse.
(7 marzo 2012)