Genova. La manifestazione contro la guerra indetta dal Comitato autonomo dei lavoratori portuali si snoda, imponente, lungo le vie del porto . E’ un momento importante anche simbolicamente: per la prima volta si infrangono divieti che impediscono l’ingresso di cortei nelle zone dei Terminal.
Superati i cancelli del varco Etiopia ora siamo dentro, in migliaia, con bandiere, striscioni, cartelli, megafoni. Il furgone che apre il corteo spara musiche, contestazione.
Tante le bandiere : quelle dei sindacati di base che hanno proclamato lo sciopero, i drappi rossi delle realtà sociali e politiche antagoniste, quelli delle lotte antimilitariste e ambientali. Un grande striscione ci ricorda che Alfredo sta morendo di 41 bis.
Ci sono anche le nostre bandiere NO TAV, scese dalla Valle contro il treno della guerra e della morte.
E’ bello ritrovarci, riscoprirci nei volti cari dei tanti con cui, in Valle e in tutto il Paese, abbiamo condiviso lotte e istanze di liberazione.
Avanziamo in mezzo a muri di container, gru e mezzi-movimento immobili, come abbandonati: lo sciopero è totale, i lavoratori del porto sono con noi, in prima fila, ad aprire la manifestazione dietro lo striscione “STOP AL TRAFFICO DI ARMI NEI PORTI”. Il loro NO alla guerra ha la materialità dell’azione reale, quella che servirebbe davvero sui posti di lavoro, sui territori, nei luoghi in cui ,giorno dopo giorno, la vita ci viene negata dal sistema assassino.
Arriviamo ai piedi della Lanterna, l’antico faro, simbolo di Genova. Si erge, snella ed elegante, sopra uno zoccolo di roccia e arbusti, anomala tra tanto ferro e asfalto, e ci parla di un mare vicino eppure invisibile, inodore.
L’ uscita dal porto è nei pressi delle grandi navi da crociera che emergono in fondo a piazzali intasati di auto. Qui il mare è poco più che un bacino di palude, ma la brezza carica di salmastro ci porta il messaggio degli aperti orizzonti.
Quello che il porto oggi racconta, attraverso le voci dei portuali di Genova, Livorno, Trieste, Venezia, sono i carichi d’armi, verso tutte le guerre del Nord del mondo, sotto l’egida della NATO e del Patto Atlantico, per esportare una “democrazia” a suon di bombe ed importare enormi profitti per i padroni di sempre.
E il mare ci parla delle vittime: i poveri di quel Sud sfruttato dai colonialismi vecchi e nuovi, donne e uomini di tutte le età n fuga dalla fame e dalla guerra su imbarcazioni di fortuna, intere famiglie inghiottite dalle onde dei naufragi. Di loro, sulle spiagge del mondo da cui speravano accoglienza, arrivano i poveri resti, insieme ai relitti delle loro vite, bagagli, peluche dei bambini, indumenti, qualche documento che ci riporta un volto, un nome, un luogo di provenienza, il punto di partenza di una speranza negata…
Nella manifestazione che dal porto sale verso la città si alzano le voci che, insieme alla necessità di sabotare concretamente la guerra esterna, raccontano storie di ingiustizie e di sfruttamento: sono i lineamenti orridi di una guerra interna che si fa precarietà, negazione dei diritti, sfruttamento, morti sul lavoro, devastazioni sociali e ambientali.
Domani i mass media di regime, supini alle veline ufficiali che esaltano la partecipazione italiana alla “guerra umanitaria”, taceranno su di queste donne e questi uomini che non si adeguano alle menzogne ufficiali e riprendono voce e azione in una ricomposizione di lotte concrete.
La manifestazione si conclude in piazza De Ferrari. Sono i compagni portuali a concludere con un saluto che non è un congedo, ma l’appuntamento alla lotta comune e senza deleghe, la sola, vera possibilità di salvare un futuro vivibile per tutti.
Le parole Di Rosa, assassinata dalla guerra, risuonano più che mai attuali e profetiche:
“Il militarismo che nel suo complesso rappresenta uno sperpero di forze produttive economicamente pienamente assurdo, che per la classe operaia significa una riduzione del suo livello di vita economico ai fini del suo asservimento sociale, costituisce per la classe capitalistica economicamente il più splendido, insostituibile tipo di investimento come socialmente e politicamente il migliore sostegno del proprio dominio di classe”.