di Matteo Mingazzini per il fatto quotidiano
Premessa lunga, ma necessaria: per scavalcare gli Appennini emiliano-romagnoli e arrivare a Firenze in treno ci sono due, anzi tre alternative. La prima consiste nei Regionali che partono da Faenza: 7,05 euro di biglietto per 1 ora e 49 minuti di viaggio. La seconda e la terza alternativa prevedono entrambe la partenza dal capoluogo emiliano: con la tradizionale linea, che tra Intercity e Regionali richiede dai 7,65 ai 14,50 euro (con tempi di percorrenza dai 55 minuti fino a 1 ora e 39), oppure con la nuova linea dedicata all’alta velocità, operativa ormai da un paio d’anni, al prezzo di 25 euro in seconda classe, per un viaggio di 37 minuti.
Tralasciamo le ipotesi di mezzo e prendiamo i due casi estremi, sia per prezzo, sia per tempi. Nel primo caso, all’apice del low-cost, si possono valicare gli Appennini attraverso una ferrovia non elettrificata costruita verso la fine dell’Ottocento. I più fortunati viaggeranno su un comodo e moderno Minuetto, gli altri su un’automotrice Fiat che… beh, che non merita nemmeno una battuta. Aldilà dei disservizi di questa linea, i viaggiatori godranno indistintamente di un viaggio immerso nel verde, con numerose fermate in piccole e suggestive località montane. E’ vero che servono quasi due ore, ma “con un deca” avanzano anche i soldi per la colazione. Nel secondo caso si ha a che fare con poco meno di 80 chilometri percorsi in poco più di mezz’ora. Il prezzo è alto (più del triplo rispetto alla tratta faentina), ma il fondoschiena poggia sulle poltrone dei Frecciarossa. Zero fermate, non si vedono stazioni, anzi non si vede proprio niente, dato che quasi tutto il viaggio è in galleria. Quasi.
Non voglio ricalcare le proteste contro la (le) TAV, per il semplice fatto che sugli Appennini questa infrastruttura esiste già e rimarrà per sempre, nonostante tutto. In altre parole, non voglio mettere in discussione la sua utilità. Vorrei, piuttosto, interrogarmi sulle capacità dell’uomo di costruire infrastrutture, se è vero che il progresso tecnologico dovrebbe aiutare a migliorare la qualità della vita, e quindi anche dell’ambiente (come suggeriscono a parole i governi). Nel 1888 è stata realizzata una ferrovia ancora oggi funzionante, integrata con i paesi che attraversa e quasi completamente invisibile nel suo tragitto, non più invadente dello spazio occupato dalle rotaie. Nel nuovo millennio l’Italia ha ritenuto necessario dotarsi di una nuova struttura: più grande, più veloce, più sicura.
Ora, fatevi un giro con lo Street View di Google Maps: cercate la frazione di San Pellegrino, poco a nord di Firenzuola, e godetevi il panorama offerto dalla provinciale 610. Noterete che sì, l’alta velocità corre quasi interamente in galleria, ma appena mette il naso fuori è ben visibile, grazie a colate di cemento da fare invidia a un centro commerciale: strade, piazzali e ponti di servizio, edifici di ogni forma e dimensione. E un eliporto.
Non ho chiesto – e non voglio chiedere – a cosa servano tante infrastrutture contingenti a una ferrovia, perché voglio credere che abbiano una loro utilità; voglio credere che non siano semplici residui di cantiere troppo costosi da rimuovere, e che magari siano lì per la sicurezza di qualcosa o di qualcuno. Voglio credere che abbiano un loro ruolo fondamentale nel permettere ai cronometri degli Eurostar di fermarsi a 37 minuti. Mi chiedo, piuttosto, come facessero nell’Ottocento a portare a termine una ferrovia (e a farla funzionare!) senza l’aiuto di un eliporto.