Pubblichiamo un’analisi dei fenomeni valsusini fatta da Gad Lerner in un articolo apparso su Vanity Fair. Analisi fatta con un metro vecchio riguardo la composizione sociale della lotta no tav e da chi evidentemente in val di Susa non viene molto ma che ha la capacità di individuare delle criticità nell’assetto di chi vorrebbe imporre e costruire la tav a suon di manganelli.
Perché i sessantamila abitanti della Val di Susa, in netta maggioranza contrari, e per ottimi motivi, all’enorme cantiere dell’Alta Velocità, si sono ritrovati di fianco gli alleati peggiori, cioè i violenti militarizzati decisi allo scontro con le forze di polizia?
Risposta: perché da 22 (ventidue) anni le forze politiche nazionali derubricano a «fastidi limitati» l’impatto che l’ennesima perforazione della montagna comporterà sulla popolazione locale. Non solo per deturpazione ambientale e stravolgimento delle abitudini di vita, ma anche per incremento (già tristemente verificatosi) delle malattie tumorali; in una zona che ha già pagato, con i tunnel ferroviari e autostradali del Frejus, un prezzo altissimo al cosiddetto progresso, senza riceverne contropartite adeguate.
Il risultato è che i No-Tav autoctoni, quelli per cui in molti proviamo simpatia, guidati dai sindaci e dai parroci, con leader pacifici e naïf, da 22 (ventidue) anni hanno trovato interlocutori (quasi) solo nel mondo dell’antagonismo sociale. Sì, proprio i temutissimi cattivoni dei centri sociali, in testa il famigerato Askatasuna di Torino. Che attraverso la loro rete hanno convocato militanti da tutta Italia e perfino da oltreconfine per trasformare una domenica di protesta pacifica e disobbedienza civile in un assalto di guerriglia campestre.
Cerco di capire quel che è successo. Non mi basta arrivare ultimo nella condanna dei violenti e nella solidarietà ai poliziotti feriti. Anche per rispetto del loro lavoro, a noi tocca sforzarci di spiegare quale cortocircuito dia la scossa alla Val di Susa, che non è la patria degli energumeni.
E allora non giriamoci intorno: ai valligiani, prima di tutto, si chiede di sopportare disagi enormi, non bazzecole. Più precisamente, lo si chiede a gente che per decenni ne ha già sopportati di analoghi, senza riceverne compensazioni adeguate; a differenza dei vicini francesi che difatti hanno consentito pacificamente l’avvio dei lavori.
In secondo luogo, gli attivisti No-Tav della Val di Susa hanno trovato sostenitori non solo nell’antagonismo dei centri sociali (che meriteranno un discorso a parte: somigliassero davvero alla caricatura fattane da chi li demonizza, sarebbero scomparsi da un pezzo). Ci sono fior di economisti e studiosi del flusso dei trasporti che manifestano perplessità crescenti sulla pianificazione dell’Alta Velocità. Sostengono che fra vent’anni, quando la Torino-Lione dovrebbe essere completata, il traffico dei Tir su questa direttrice sarebbe comunque assorbibile con la linea ferroviaria già attiva; e che le spese previste, ma solo in parte stanziate, sarebbero eccessive rispetto ai risultati.
Quei cinquanta e passa chilometri di buco nella montagna, insomma, benché decisi a livello sovranazionale e in parte finanziati dall’Unione Europea, non potevano essere liquidati come una trascurabile resistenza della comunità locale retrograda. Il cortocircuito è prima di tutto dovuto alla sordità di una politica abituata a ragionare per schemi, e alla pigrizia dei mass media che le vanno dietro. In Val di Susa c’era (e resta) un grande dilemma trascurato. Certo, ora che se ne impossessano i parassiti con le molotov, senza che il movimento pacifico sia riuscito a prevenirne l’azione criminale, confrontarsi sui dilemmi reali dell’Alta Velocità fra le rocce della Val di Susa diventa pressoché impossibile. È la maledizione tipica delle situazioni difficili, lasciate incancrenire.