di Guido Viale
Lo stato greco – ormai lo ammettono tutti – è fallito. Non avrà più la possibilità di “crescere” per fare fronte ai suoi debiti. Ma prima di dichiararlo tale, verrà raschiato il fondo del barile per succhiare ai suoi cittadini tutto quello che ancora si può. La decisione che l’Unione europea non riesce a prendere è se caricare sui redditi dei contribuenti tedeschi, ma non solo loro, i costi diretti di quell’insolvenza, per salvare le banche cariche di bond greci; oppure se rischiare l’insolvenza delle banche che hanno comprato quei bond. Intanto il “contagio” si è trasmesso agli altri paesi dell’Unione che erano già in bilico. Fermarlo adesso è più difficile e più costoso. Soprattutto perché il contesto globale è sempre più turbolento. Anche gli Stati Uniti sono sull’orlo del default. E né Cina né India se la passano più come un tempo.
Insomma, in Italia come in Grecia, e anche altrove, il problema è per ora quello di passare all’incasso di quanto si è già ottenuto o si sta esigendo spennando i lavoratori con le ultime “manovre”. Ma quella appena approvata dal nostro Parlamento non metterà affatto “al sicuro” i conti dello stato italiano, come non erano “al sicuro” quando il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ce lo assicurava una settimana, un mese, un anno o dieci anni fa. L’emergenza può ripresentarsi da un momento all’altro. Ma se il punto di approdo di questa deriva è comunque il default – in un contesto internazionale in cui non saremmo certo i soli – tanto vale arrivarci subito. Oppure…
Sicuramente la minaccia di farlo potrebbe costringere l’Unione europea a cambiare rotta, almeno per un po’: assumendo o garantendo il debito di tutti i paesi membri e dando loro un po’ di respiro. Ma per fare che? Il problema vero non è il debito, ma un meccanismo di “crescita” bloccato; che non riprenderà certo se banche e stati europei avranno la possibilità di mettere sul mercato qualche decina di miliardi in più. Perché quei mercati sono saturi e quelle produzioni e quegli investimenti non fanno “sviluppo” né occupazione, ma solo danni. Valga per tutti il Tav Torino-Lione, che è ormai chiaro essere niente altro che una truffa all’Unione europea: tutti sanno che non verrà mai portato a termine; serve solo per tenere in vita per qualche anno alcuni costruttori e i loro sponsor politici. Ma sono forse diversi il piano “Fabbrica Italia” di Marchionne, o i programmi di incenerimento dei rifiuti in mezza Italia, o i progetti edilizi con cui riempire l’area dell’Expo 2015?
Certo, le cose giuste da fare non mancherebbero: dalla conversione energetica (efficienza e fonti rinnovabili) a quella agricola; dalla mobilità sostenibile di persone e merci alla salvaguardia del territorio; dal potenziamento della ricerca – mirata ai temi della conversione ecologica – e dell’istruzione al potenziamento dei servizi pubblici locali come volano di un’economia centrata sui territori. E altro ancora. Ma chi può fare tutto ciò? Per ora nessuno. Ma è nella risposta di massa di tutti gli indignati d’Europa, se e nella misura in cui si svilupperà e riuscirà a imporsi, che si potranno creare gli embrioni di organizzazioni e di progetti di gestione alternativi a quelle esistenti; in grado di imporre all’agenda politica europea gli obiettivi di una conversione economica e produttiva che ci risollevi dal mondo di macerie in cui l’attuale governance ci sta precipitando.