Un treno fantasma, una regione in ginocchio e una valle alpina su cui incombe la minaccia della mafia. Il futuro del nord-ovest appeso all’alta velocità Torino-Lione, la più grande infrastruttura mai progettata in Italia? «Quando si parla della Torino-Lione si pensa a questioni locali», la piccola valle di Susa contro il potere centrale. «Invece la linea costerà 5 miliardi di euro più del tunnel sotto la Manica e quattro volte tanto il faraonico ponte sullo Stretto di Messina». Soldi nostri: «Capire se li stiamo investendo nel modo giusto è fondamentale per il futuro dell’economia italiana».
E’ Ilaria D’Amico a chiudere, in studio, il grande reportage firmato per “Exit” dall’ex “iena” Alessandro Sortino, in prima serata su “La7” il 16 aprile scorso. Un esempio rarissimo di giornalismo-verità sugli schermi italiani. Spazio a tutti, dalla protesta della valle di Susa ai politici. La Torino-Lione? L’unica speranza per salvare Torino, trasformando il Piemonte in una piattaforma logistica, smistando a Novara le merci del porto di Genova: in parte verso Rotterdam, in parte sulla direttrice est-ovest. Oppure, dicono oppositori e tecnici indipendenti, il mega-progetto è l’equivoco del secolo: perché il “corridoio 5” Kiev-Lisbona resterà sulla carta, visto che il traffico merci Italia-Francia sta ormai crollando.
La Torino-Lione non sembra avere nessuna speranza di rivelarsi strategica, se non per i miliardi che andranno a chi la costruirà. E attenzione: in pole position, denunciano i No-Tav, c’è la mafia calabrese: con le sue imprese che ormai presidiano la valle di Susa per gettarsi sui maxi-appalti del grande affare ferroviario. Se la rotta occidentale Italia-Francia è ormai disertata dal traffico europeo, che predilige la direttrice nord-sud, la ferrovia più costosa del mondo non servirà a nessuno, se non ai signori dei cantieri.
Un’opera faraonica, la più grande mai progettata nel nostro paese. Un tunnel di 54 chilometri, una torta da 20 miliardi. Le immagini mostrano l’inaugurazione torinese dell’alta velocità padana: l’arcivescovo Poletto, Berlusconi, Bossi, Chiamparino. «Istituzioni molto compatte», dice Sortino, di fronte al varo dell’ultimo tratto della Torino-Milano-Napoli: «Una vera benedizione per i costruttori, visto che è costata quattro volte di più rispetto al resto d’Europa». Per Mario Virano dell’Osservatorio Tav, la Torino-Lione sarà solo una «normale, moderna linea ferroviaria», promossa anche da Confindustria perché «la ragione è dalla parte dell’opera». Davvero?
Non la pensa così Beppe Grillo: «Tutti i parametri sono finti, il flusso di merci sta calando dal 2000: i dati su cui si presuppone fare questi lavori sono fasulli». I militanti valsusini confermano: prima si parlava di “alta velocità”, ma poi i voli low-cost hanno archiviato il treno, i passeggeri sono spariti e così non resta che ripiegare sulle merci. Visto da fuori sembra uno scontro fra territorio e interesse nazionale, invece non è così: a confrontarsi sono due opposte visioni del futuro. Da una parte i politici, che scommettono sul ruolo logistico del Piemonte grazie al nodo di Novara (nord-sud e est-ovest, se si farà la Torino-Lione), e dall’altra i No-Tav e i tecnici indipendenti, che giurano che l’asse Kiev-Lisbona è ormai una fiaba.
Fra sette anni, dice Mercedes Bresso, Pd, si aprirà il Gottardo: «Se non ci attrezziamo, il Piemonte non potrà essere la piattaforma logistica del sud Europa». Fa eco il leghista Roberto Cota: «Se non facciamo la Tav, il traffico merci taglierà fuori il Piemonte, il nord e tutto il nostro paese». Ma il trasporto Italia-Francia non è già crollato? «C’è un calo del trasporto – ammette la Bresso – ma siamo in un momento di crisi: noi non lavoriamo per la contingenza, lavoriamo per il futuro». Puntando anche sulle infrastrutture, aggiunge Cota, che sono importanti «perché creano lavoro».
Si scrive Tav ma si legge Treno del Commercio Globale, sul quale bisogna salire «per salvarsi dalla crisi». Una linea strategica, su cui passerebbe un’incredibile quantità di merci. In arrivo da dove? Dal porto di Genova, dove si accumulano i conteiner delle gigantesche importazioni da Cina e India. Piattaforme galleggianti: «A Genova stanno riempiendo il mare», perché sulla terraferma manca lo spazio. A breve, l’entroterra di Rivalta Scrivia fungerà da maxi-scalo di smistamento. «In Italia smistiamo le merci, le etichettiamo, ma abbiamo smesso di produrle».
La crisi è nera e sta mettendo in ginocchio la stessa valle di Susa: addio indotto Fiat, fabbriche chiuse, cassa integrazione. La stretta, epocale, travolge anche gli operai della cintura di Torino: dismissioni, delocalizzazioni, fuga delle industrie all’estero. Il vero volto della globalizzazione: «Siamo i più penalizzati, abbiamo perso qualunque lavoro». Idem per gli imprenditori, costretti a trasferirsi in Svizzera o in Marocco: zero tasse, incentivi, manodopera a minor costo. E La Torino-Lione? «Se il manifatturiero in Italia muore, cosa trasportiamo?». Treni Kiev-Lisbona? Forse, ma con merci degli altri: «Noi non ci saliremo mai, sul Tav».
E allora che merci saranno trasportate? Prodotti made in China, ovviamente. Secondo Mino Giachino, stratega governativo dei trasporti, la Kiev-Lisbona coronerebbe dopo 200 anni il sogno di Cavour: Europa unita dall’Atlantico agli Urali. Il futuro? Energia, turismo e, appunto, infrastrutture. Con la Torino-Lione, «la parte solida della ricchezza, cioè le merci, passa tutta dalla pianura padana». La direttrice est-ovest, Kiev-Lisbona, incrocerebbe a Novara la Genova-Rotterdam. Novara sarebbe «il punto di logistica più importante d’Europa», dice il premier Berlusconi. E le operazioni di smistamento, assicura Giachino, «creano tanti posti di lavoro».
«Tutta questa strategia – osserva Sortino nel suo reportage – si fonda però su una scommessa: che sull’asse Torino-Lione, Italia-Francia, viaggino così tante merci da giustificare la costruzione della nuova, costosissima infrastruttura che dovrà trasportarle». Dai camionisti incrociati all’autoporto di Susa, pessime notizie: l’autostrada del Fréjus è sempre più deserta. Allarme confermato dalla Sitaf, società autostradale, che parla di «rilevante riduzione dei passaggi di mezzi pesanti». Dal 1998, i transiti ai trafori del Fréjus e del Bianco sono in costante diminuzione. Le merci preferiscono altre destinazioni: Svizzera e Austria.
«Chi deve andare verso nord perché mai dovrebbe passare per Lione?», si domanda Andrea Boitani, economista dell’università Cattolica di Milano. Se la direzione dei traffici è verso il nord Europa, «da Milano o Novara è molto più breve passare per il Loeschberg-Gottardo che non andare verso il Fréjus». E la speranza di trasfomare il Piemonte in una piattaforma logistica, grazie alla Torino-Lione? «Per essere un punto di attrazione logistica bisogna attrarre le merci che provengono via mare dalla Cina, facendo funzionare i porti», da cui poi smistare i prodotti via treno e sui camion: verso nord, ovviamente, e non verso Lione.
Le telecamere di “Exit” tornano impietosamente a inquadrare gli scali di Genova-Voltri. «Il collegamento ferroviario non funziona», accusa Vincenzo Messina, sindacalista dei ferrovieri. «E’ un discorso di costi. Si preferisce indirizzare il traffico via camion». Treni fermi nei parchi merci: «La tradizione ferroviaria è stata abbandonata, perché si dice che trasportare le merci sui treni non è remunerativo». Tra Italia e Francia, sempre in valle di Susa, una ferrovia c’è già. Collega Torino a Modane, ma è utilizzata solo al 30% della sua capacità. Eppure, invece di sostenere il traffico merci sui treni, lo Stato investe sui Tir: 700 milioni regalati agli autotrasportatori solo nel 2010. E i 20 miliardi per la Torino-Lione? Avranno almeno un ritorno economico?
«Rapporto costi-benefici? Lo si farà, ma dopo». Angelo Tartaglia, del Politecnico di Torino, è sconsolato: non è dato sapere se il gioco vale la candela, malgrado siano in ballo miliardi. «Cifre enormi, che per di più non ci sono e che prendiamo a prestito dalla generazione successiva: debito pubblico, si chiama, in concreto». Ma allora, insiste Sortino, qual è «la razionalità» che sta sotto la Torino-Lione? Semplice, risponde Tartaglia: soldi, nient’altro. «Se io fossi uno che scava tunnel, un cantiere che nominalmente vale alcuni miliardi di euro è un’assicurazione per la vita. Il problema è controllare il rubinetto: se c’è un flusso del genere, è una fonte di potere immenso».
Se è così, allora, la protesta della valle di Susa non è solo una difesa del territorio: «No, infatti. La valle di Susa sta difendendo l’interesse generale, quello della nazione». Mentre le istituzioni, che in teoria rappresentano l’interesse generale, «stanno facendo interessi particolari e a corto raggio», aggiunge Tartaglia. Questo è il problema: se la valle di Susa s’è incendiata di polemiche e tensioni elettorali, risultando poi decisiva per la sconfitta di Mercedes Bresso grazie al voto confluito su Grillo, il disagio che esprime riguarda l’Italia, non solo le Alpi.
Un guaio, per tutto il paese: «E’ questo che è importante che gli italiani capiscano: il nostro è un inizio di resistenza», dice un anziano No-Tav. «E’ un tentativo di iniziare a cambiare il sistema politico», visto che il futuro logistico del Piemonte, che si vorrebbe miracolato dalla Torino-Lione, in realtà potrebbe non esistere proprio: perché le merci, dicono tutti gli esperti universitari interpellati, non hanno alcuna intenzione di passare per Torino.
(tratto da www.libree.org)