La gente della Val di Susa, domenica, ha fatto davvero un miracolo, nel senso etimologico del termine (dal latino mirari, come si dice di «cosa grande che meraviglia», o anche di «cosa grande e insperata»).
Deludendo l’intero universo politico-mediatico che aveva spasmodicamente atteso l’incidente (e in buona misura l’aveva anche preparato) per mettere, una volta per tutte, una pietra sopra la Valle e la sua resistenza. Hanno costruito un capolavoro: un corteo di migliaia e migliaia di persone di ogni età e condizione, che si snoda per sentieri di montagna (credo che sia l’unica esperienza al mondo), tra castagneti e blocchi di polizia, aggirando barriere e tagliando reticolati in un ordine assoluto, senza un gesto o una parola fuori posto, senza l’aggressività e la volgarità che invadono il mondo politico, senza neanche un petardo acceso o una pietra lanciata. Un’azione di disobbedienza civile in perfetto stile gandhiano, realizzata esattamente come le assemblee partecipatissime di valle avevano deciso nei giorni precedenti, mentre intorno strepitavano i profeti di sventura.
La ragione di questa forza è, tutto sommato, facile da spiegare, per chi abbia anche solo messo il naso in valle: perché quello della Val di Susa non è un semplice movimento, nel senso genericamente politico in cui si è soliti usare questo termine. E’ un popolo, una comunità con legami fortissimi con la propria terra e la propria storia, impegnata da almeno un paio di decenni a prendersi cura dei propri beni comuni, del proprio habitat, del proprio sistema di relazioni. Sono persone, individui, ma anche famiglie, catene generazionali, reti sociali di vicinato, culturalmente aperte, disponibili all’accoglienza, alla condivisione e alla contaminazione con gli altri, ma consapevoli della propria identità.
E’ tutto questo che non hanno capito i politici di professione e i giornalisti di passo, destinati a rompersi le corna contro questo materiale resistente, duro, coriaceo, su cui chiacchiere e manipolazioni scorrono via come acqua sulle pietre. Con realtà come questa – irriducibile ai flussi e alle retoriche proclamate dall’alto, la politica dovrà imparare a fare i conti sempre più spesso. E’ bene che si abitui all’idea.
Meno facile da spiegare è la ragione dell’accanimento con cui si cerca, con ogni mezzo, di piegare quella resistenza. Perché tanto unanimismo tra i mezzi d’informazione mainstream, disposti anche all’abuso di potere, alla violazione di ogni etica professionale, pronti a truccare le carte (e le interviste), a mentire più o meno apertamente, a occultare, a ridicolizzare, a enfatizzare episodi minimi e a tacere fatti clamorosi, perfettamente simmetrico con l’unanimismo bipartisan della politica, in lite anche furibonda su tutto, tranne che sul TAV? Il fatto è che nella questione del TAV in val di Susa, si manifesta, in un microcosmo locale delimitato, un paradigma globale esemplare. Un meccanismo che guida i processi politici ed economici a livello generale, nell’Unione Europea, di certo, e per molti aspetti nell’intero Occidente. Gli ingredienti ci sono tutti.
In primo luogo l’affermazione, tutta ideologica, di credenze dogmatiche, semplici, banali, ma indiscutibili, tali da resistere a qualsiasi confutazione razionale, a qualsiasi dato empirico, o alla semplice osservazione dei fatti. E’ il meccanismo che fa dire, ossessivamente, che il TAV va fatto (anche se ci costerà qualcosa come 20 miliardi di Euro) perché «l’Europa ce lo chiede», o «perché è un’infrastruttura» (sic!), o perché «non possiamo restare isolati dal resto del continente». Anche se basta guardare una carta per capire che una ferrovia c’è già, che da anni è ampiamente sotto-utilizzata, mentre basterebbe una elementare conoscenza dei fatti economici per capire che tra due economie mature come quelle francese e italiana i flussi di merci – tanto più se pesanti – sono destinati a stabilizzarsi o a decrescere, non certo a impennarsi. E’ lo stesso meccanismo che ha condotto le istituzioni economiche europee ad ammazzare (fisicamente) la Grecia con ricette mortali. E che, indifferenti a ogni evidenza, le estendono ad altri (in primo luogo a noi), all’insegna del dogma neo-liberista che impone di tagliare reddito, posti di lavoro e diritti, quando è evidente anche a un bambino che la crisi in corso nasce proprio dall’umiliazione del mondo del lavoro, dal crollo del suo reddito e del suo potere d’acquisto sconsideratamente compensato dalla dilatazione della finanza e del denaro virtuale.
In secondo luogo l’esistenza di una cupola degli affari e del potere – di una concentrazione di interessi – assurta a principale se non unica istanza destinata a determinare monopolisticamente le scelte strategiche, a scapito di tutto il resto, orientando le tecnocrazie e gli stessi organi rappresentativi, governando i flussi di risorse finanziarie e di determinazioni politiche, con decisioni irrevocabili, sottratte al controllo dei destinatari di quelle decisioni: di coloro che ne pagheranno il prezzo e ne sosterranno i sacrifici.
Infine la formazione di un fronte politico bipartisan, assolutisticamente bipartisan, tanto bipartisan da sopravvivere agli stessi conflitti interpartitici perché cementato da una commistione e condivisione di interessi materiali, da una rete di affari trasversale e indifferente alle linee di demarcazione politica (nel caso del TAV è significativo che gli appalti abbiano interessato tanto le cooperative emiliane quanto le società di ex ministri berlusconiani). Una rete affaristica che prevale sullo stesso rapporto di rappresentanza, travolgendolo. Rivelando la lacerazione dei rapporti tra rappresentanze istituzionali e territori, la forbice tra sordità dei governanti e solitudine dei governati.
20.000 manifestanti – ma mettiamo che fossero anche meno, 15.000… -, in una valle che conta all’incirca 40.000 abitanti (tanti sono i residenti nella media e bassa Val di Susa coinvolti nella protesta) significano metà della popolazione, almeno uno per famiglia, e anche di più. Sono un “pieno” che fa da contrappunto – e da antidoto – al vuoto delle tante bolle – mediatiche, finanziarie, politiche – che ci minacciano e ci affliggono. Nessuno può pensare di poterci passare sopra con gli scarponi chiodati. E nemmeno con i Lince dei poveri alpini reduci dall’Afghanistan. Il solo pensiero di poter militarizzare il problema della Val di Susa, concepito in modo bipartisan da alcuni parlamentari piemontesi, è sintomo di irresponsabilità. Di un inquietante deficit di razionalità, terribilmente simile a quello che ha portato i razionalissimi mercati nel caos. E che sta conducendo il mondo sull’orlo dell’abisso.