La Torino-Lione? Pura follia inutile. Quel che resta di un vecchio disegno europeo completamente tramontato: perché mancano soldi, perché non serve a nessuno, e perché – in concreto, tecnicamente – non è neppure realizzabile. Il chiasso della propaganda ha finora nascosto un tabù colossale, un problema grande come Torino: l’acqua potabile e i rubinetti dei torinesi. Alle porte della metropoli, spiega un ingegnere della Regione Piemonte, il progetto prevede un tunnel profondo 40 metri, che «si infila né più né meno che nella falda idropotabile della città». Attenzione: non in quella irrigua, ma «proprio nell’acqua che va nelle case dei torinesi». L’ingegnere non ha dubbi: operazione «impensabile e illegale». Un milione di abitanti all’asciutto, senza più acqua bevibile: «Progetto impossibile, a meno che non si pensi a un golpe», dice lo scrittore Luca Rastello, autore del dirompente reportage “Corridoio 5, binario morto”, pubblicato il 20 maggio da “Repubblica”.
«Mi sono accorto che, in tutti questi anni, nessuno l’aveva mai davvero percorso, quel famoso itinerario ormai divenuto cruciale nell’agenda politica italiana, data la resistenza popolare della valle di Susa che si oppone al segmento alpino». Autore di romanzi come “Piove all’insù”, già reporter di “Diario” e attivissimo sul terreno dei diritti civili, Luca Rastello è una voce apprezzata da scrittori come Roberto Saviano. Un indagatore in trincea: prima il libro-denuncia “La guerra in casa”, sul genocidio dell’ex Jugoslavia, poi il reportage “Io sono il mercato” (Chiarelettere) sul business del narcotraffico, e infine “La frontiera addosso – così si deportano i diritti umani”, drammatica fotografia sull’orrore dei “respingimenti” (Laterza, 2010). E adesso, la Torino-Lione. Partendo dal suo cuore dolente, la valle di Susa: «Ci sono cresciuto d’estate, ci ho passato le mie vacanze da bambino e poi da ragazzo», racconta Rastello al regista Daniele Gaglianone, che sulla valle “ribelle” sta preparando un documentario. «Ho proposto a “Repubblica” il reportage – spiega Luca – e il giornale ha accettato: così ho percorso l’intera tratta, partendo da Lisbona».
Una sorpresa dopo l’altra, lungo quello che è già un binario fantasma: ad ovest il Portogallo si è ritirato e la Spagna ha deciso che le sue merci viaggeranno lentamente. Ad est, il capolinea ucraino non è mai stato altro che una boutade, mentre l’Ungheria ha bocciato l’alta velocità ferroviaria. Se la Francia dispone già della sua rete veloce (per i passeggeri), le poche merci verso l’Italia possono utilizzare lo storico traforo del Fréjus appena rimodernato, ora attrezzato anche per treni con a bordo i Tir. Il vecchio e suggestivo “Corridoio 5”, destinato a collegare l’Atlantico agli Urali, è ormai solo un ricordo sbiadito, mai finanziato dall’Unione Europea che l’ha di fatto abbandonato, riconfigurando il trasporto continentale con una rete di segmenti molto più brevi. Sul tappeto resta solo il nodo della valle di Susa, ovvero la connessione alpina occidentale lungo la tratta Lione-Lubiana. Ma se nella valle in rivolta non c’è ancora l’ombra di un cantiere, i problemi ricominciano a Milano: nessun progetto verso Venezia. Notte fonda, poi, in Friuli: bocciata l’idea di una linea litoranea, così come l’ipotesi surreale di traforare il Carso, insidioso altopiano-colabrodo. Per non parlare dell’ultima spina: l’opposizione della Slovenia, dopo che l’Italia ha posto il veto sul finanziamento dello sviluppo intermodale del porto di Capodistria, che avrebbe fatto concorrenza agli scali marittimi italiani sull’Adriatico.
L’asse Lisbona-Kiev, scrive Luca Rastello, doveva unire l’Europa dall’Atlantico alle steppe con il miracolo delle grandi opere e dell’alta velocità. Progetto-miraggio, disegnato sulla carta nelle conferenze di Creta e Helsinki a metà degli anni ’90, ora «perde le ali e anche pezzi del suo ventre e del suo cuore», rimanendo quel che è sempre stato: un mistero. Mentre l’Ucraina «non si sa bene dove sia andata a finire», il 21 marzo scorso arriva la rinuncia ufficiale del Portogallo. Addio Atlantico: Lisbona si lascia alle spalle l’ambizioso complesso della Stazione del Mare: «Un solo treno al giorno per Madrid, undici ore, come dire che tanto vale andarci a piedi». L’Europa ripiega su una rete “a ragnatela”, chiamata “Ten-T”, con tratti di media percorrenza. Con tanti saluti al vecchio “Corridoio 5”, che ora si chiama “Corridoio Mediterraneo”. Punto di partenza: Algeciras, capolinea spagnolo, di fronte al Marocco, a un tiro di lancia da Gibilterra.
Don Carlos Fenoy, presidente della Camera di commercio della cittadina iberica, è fra i più convinti sostenitori dell’utilità del nuovo “corridoio”, solo che lo intende a modo suo: «Alta velocità per le merci? Lei è matto!». Luca Rastello prende nota: «Il consumo energetico e l’usura dei carri oltre gli 80 chilometri orari aumentano esponenzialmente i costi», spiega lo spagnolo. E poi: a che serve correre, se poi mancano snodi logistici? «Significa intasamenti all’ultimo chilometro: pensi a una grande autostrada con piccoli caselli». La Spagna, del resto, sta riducendo drasticamente gli investimenti infrastrutturali: 5.400 milioni di euro in meno rispetto al 2001. E le merci del Corridoio Mediterraneo? Lungo la costa, appunto, dove corre un’unica linea. Anziché creare una nuova arteria, gli spagnoli si limiteranno ad aggiungere un terzo binario, per modificare lo scartamento: «I treni lenti correranno sullo scartamento spagnolo, quelli veloci su quello internazionale», spiega Rafael Flores, delle Ferrovie iberiche. Tutto su una sola ferrovia? «Certo. Con un buon piano di movimento, gli incroci si fanno nelle stazioni». Senza cemento, e senza investimenti colossali. Scelta confermata dal nuovo ministro per lo sviluppo, Ana Pastor: appena 1.240 milioni di euro per collegare i porti di Tarragona, Castellon, Valencia e Alicante, semplicemente aggiungendo il terzo binario per adattare lo scartamento della ferrovia storica.
Se la Francia è un “volo” rapidissimo a bordo del Tgv, che trasporta passeggeri ad alta velocità, la grande corsa si ferma a Lione: «E’ qui che inizia la storia a noi più nota e controversa», scrive Rastello: «Storia di molte lotte e pochi scavi, tutti comunque sul lato francese: tre tunnel esplorativi paralleli al tracciato che dovrebbe collegare St. Jean de Maurienne a Venaus in val Susa». In Italia, ancora niente: «A Chiomonte si combatte intorno a uno steccato perché, in mancanza di progetto esecutivo, non si può scavare nemmeno un centimetro cubo». Poco sotto St. Jean, il terminal intermodale che fa da capolinea ad un altro fantasma: l’Afa, l’“autostrada ferroviaria alpina” collegata con lo scalo di Orbassano, alle porte di Torino. Tir caricati sui treni? «Il progetto che aveva suscitato tante speranze al suo varo, sette anni fa – scrive il reportage di “Repubblica” – è sopravvissuto finora grazie a pesanti sovvenzioni pubbliche: circa 900 euro per ogni mezzo trasportato, oltre cento milioni di euro in contributi statali». Convogli? Pochissimi, perché il traffico merci Italia-Francia è in declino e, oltretutto, il trasporto resta troppo costoso.
Michel Chaumatte, direttore dell’Afa, non rinuncia all’ottimismo: l’ampliamento del tunnel storico del Fréjus ha risolto il problema della sagomatura della galleria, che limitava il transito ai soli camion-cisterna caricati sui treni. Ora, il Fréjus potrà davvero fare spazio all’autostrada ferroviaria. Ma a quel punto, a cosa servirebbe il nuovo super-tunnel Tav? Diminuendo la pendenza, dice Chaumatte, in teoria si risparmia sui costi di trazione: per trascinare treni merci fino a 1200 metri di quota servono due locomotori. Comunque, vecchia o nuova linea, non si può andare veloci: oltre gli 80 chilometri orari, trasportare merci non è neppure prudente. Senza contare, naturalmente, l’enorme dispendio energetico per la costruzione e la manutenzione di un tunnel lungo 50 chilometri. L’alta velocità? E’ fatta per i soli passeggeri. Che però, nel frattempo, sono scomparsi, facendo crollare il collegamento Torino-Lione. Idem le merci: meno 30% nel decennio scorso, con un ritorno ai volumi del 1993. Anche i calcoli finanziari stridono, continua Rastello: la nuova rete europea “Ten-T” costerebbe 500 miliardi di euro, ma la Commissione Europea ne stanzierebbe solo 31,7, di cui solo un decimo per il Corridoio Mediterraneo. E la Torino-Lione? Da Bruxelles forse 300 milioni, a fronte di una spesa prevista di 17 miliardi. Possiamo permettercelo? «In effetti – commenta un esponente di Confindustria Piemonte – i vantaggi veri sono solo sulla prospettiva occupazionale locale e a breve: la Torino-Lione in realtà è un caso Jimby: Just in my backyard!».
Se la valle di Susa resta il fronte caldo dove si resiste alla minaccia della Grande Opera Inutile, disastrosa per l’ambiente e soprattutto per le dissanguate finanze italiane, il problema finora più inesplorato resta quello all’imbocco della valle, verso il capoluogo piemontese: il tratto “nazionale” della Torino-Lione devia sotto la collina morenica di Rivoli verso l’interporto di Orbassano, per poi riconnettersi alla Tav per Milano attraverso la “gronda nord”. Pazza idea: semplicemente, «non si farà mai», assicura un tecnico della commissione per la valutazione di impatto ambientale della Regione Piemonte. Quel progetto, che prevede un percorso interrato a 40 metri di profondità, taglierebbe i rifornimenti idrici dell’intera area metropolitana di Torino, privando la grande città delle necessarie risorse di acqua potabile. Una prospettiva delirante, mai neppure affrontata visto che la “frontiera” dei possibili cantieri è ancora molto lontana, sulle Alpi, fra gli slogan dei No-Tav e i lacrimogeni dei reparti antisommossa.
E l’ipotetico Corridoio Mediterraneo, continua il reportage di Rastello, si incaglia nuovamente dove meno te l’aspetti, tra Brescia e Padova. Nella piattissima pianura padana «l’alta velocità si farà attendere ancora molto: il progetto è in fase preliminare e Rfi (Rete ferroviaria italiana) nega il proprio contributo, anche se il tratto padano doveva essere completato entro il 2010». Dal 2008 è pronto un segmento di 28 chilometri tra Padova e Mestre, «ma non fai in tempo ad aprire la falcata che sei di nuovo in una palude, fra Venezia e Trieste». Qui, «per non perdere i soliti fondi spesi in studi di progettazione, a dicembre 2010 fu presentato in fretta e furia un progetto preliminare purchessia: era la “Tav balneare”, che doveva portare bagnanti alle spiagge della “grande Jesolo”, poi bucare le friabili doline del Carso, sfiorare Monfalcone dove Unicredit intendeva finanziare la triplicazione del porto, superare Trieste in galleria ed entrare in Slovenia». Ma a frenare è stato l’ad di Trenitalia, Mauro Moretti: «Fece notare che la Tav serve le grandi città e non gli jesolotti». Inoltre, «i sindaci locali documentarono il disastro ambientale in vista», e per giunta «la città di Trieste rifiutò l’interramento: una Caporetto».
Peggio ancora oltre Trieste: la crisi diplomatica fra Italia e Slovenia per il finanziamento europeo delle infrastrutture adriatiche ha innalzato una sorta di “Muro di Lubiana”. La frontiera ormai la si attraversa solo in pullman, per raggiungere il porto di Koper (Capodistria) e lo snodo di Divaca, «che nessuna ferrovia collegherà mai all’Italia». Proprio lì, sul Quarnaro, «si apre la ferita mortale all’idea platonica di Corridoio: l’ultimo treno dall’Italia verso Lubiana è partito nel dicembre 2011». Dispetti, priorità, ripicche e rappresaglie: «Fra i litigi italo-sloveni, le piume nazionaliste che si gonfiano sul petto del governo ungherese, la distrazione ucraina in vista degli Europei di calcio», anche il nuovo asse mediterraneo sembra destinato a restare un sogno (o un incubo) relegato al mondo astratto degli incartamenti. «Sono in molti, oggi, a pensare che il Corridoio più redditizio non sia sull’asse est-ovest ma su quello baltico-adriatico che unisce il Mediterraneo alle grandi economie dell’Europa centrale e settentrionale». Sbocco marittimo nostrano: i porti friulani, veneti e di Ravenna. «La richiesta slovena di una bretella che vi agganciasse Koper è stata rigettata su insistenza del governo italiano, sotto la pressione del governatore veneto Zaia. Rappresaglia da Lubiana: nessun collegamento fra Trieste e i mercati orientali».
Il viaggio di Luca Rastello si fa ulteriormente surreale tra le colline ungheresi, dove l’ipotetica rete europea “Ten-T” disegna sulla carta gli snodi “cruciali” di Zalalovo e Boba: «Chioschi persi nel paesaggio rurale». Cicogne e boschi, come nel sud della Spagna. «La nostra priorità – dichiara un portavoce del ministero dei trasporti di Budapest – non è la ferrovia: i finanziamenti Ue andranno sulle autostrade, in primo luogo il raccordo anulare della capitale». Interpretazione legittima, ammette Rastello: «Il Corridoio, nelle intenzioni, è un sistema intermodale che prevede grandi investimenti sull’asfalto, con buona pace di chi ama l’argomento del trasferimento su rotaia». Inoltre, più che la rotta dell’ovest, agli ungheresi interessa il nord: meglio il collegamento con l’Austria, via Gyor. E se l’Ungheria non crede all’ex “Corridoio 5”, il vecchio fantasma con cui l’Italia tormenta la valle di Susa, l’oblio europeo diventa assoluto nel “profondo est” ucraino, che «si raggomitola fra le valli dei Carpazi, villaggi di legno e foreste piene di mostri e leggende», fino ai trenini obsoleti di Leopoli, a trecento chilometri da Kiev, dove «nessuno ha mai sentito parlare di “corridoi”». Missione compiuta, scrive Rastello: «Possiamo tornare indietro dopo 3.200 chilometri percorsi lungo un corridoio che non c’è».