Sabato siamo intervenuti, come Comitato nazionale “Rompiamo il silenzio La tortura è di Stato!”, al convegno organizzato dal movimento No Tav a Bussoleno. Ancora una volta, non possiamo non rilevare la capacità della lotta della val di Susa di esercitare una egemonia concreta in quei territori, un’egemonia politica e non semplicemente sociale o “di scopo”. Un convegno importante, lungo quasi otto ore, e partecipato da circa trecento (300) persone. A di là di qualche decina di compagni, una partecipazione realmente popolare, di massa, di un pezzo di società in continua mobilitazione, per una lotta che ha tracimato da tempo la mera difesa del territorio trasformandosi in lotta a un modello di sviluppo rifiutato radicalmente. La capacità di creare consenso attorno al conflitto di massa, di rendere concreta e determinante una partecipazione non solamente artificiale o che si attiva nei singoli momenti di mobilitazione, sono alcuni dei nodi centrali per cui oggi quella lotta è un laboratorio politico che insegna a tutto il resto del movimento. Cosa che d’altronde notiamo da tempo, ma che ci stupisce ogni volta che torniamo in valle. Ci stupisce questa forza che dura nel tempo, che accumula risorse anche nei momenti di minor mobilitazione, di maggior repressione, di completa criminalizzazione. Una forza che diviene maggioranza, che esercita un’egemonia concreta, e la esercita sia nei momenti di dibattito politico come in quelli conflittuali, sia nella partecipazione pacifica che nello scontro politico. In conclusione, riportiamo qui sotto la traccia dell’intervento prodotto per questo convegno, sperando di aver dato un piccolo contributo a questa lotta, coscienti che in questo caso siamo noi a dover “imparare come si fa”, e non il contrario.
Crediamo sia necessario porre in relazione il movimento di classe con un suo continuum storico, dargli quella prospettiva che in questi anni troppe volte è stata volutamente negata. Negare il proprio passato, produrre una rottura netta con tutto ciò che è stato prima, definirsi in opposizione al movimento di classe in senso storico, ha generato in questi anni diversi errori. Uno dei quali, l’incapacità di storicizzare il proprio ruolo, imparare dagli errori di chi, nel passato, si poneva sul nostro stesso piano, fare tesoro dell’esperienza di classe. Si è voluto, in sintesi, rompere con un intero patrimonio di lotte, e rompendo quel continuum politico si è andata perdendo l’esperienza che quelle lotte, strada facendo, avevano accumulato. La caparbia volontà politica di rompere col Novecento – senza metabolizzarlo – ci ha lasciato in dote un’assenza di strumenti politici con cui ripensare il nostro ruolo e le nostre soggettività organizzate alla luce delle continue trasformazioni sociali e politiche. Ci siamo volutamente privati di quell’esperienza, abbiamo attraversato questo inizio di secolo vergini, ricominciando dalle nostre lotte ma da un gradino più basso. Esattamente all’opposto, lo Stato, cosciente del proprio ruolo storico-esperienziale sedimentato attraverso il suo apparato istituzionale, si è trovato in questi decenni notevolmente avvantaggiato, sia sotto il profilo meramente repressivo che sotto quello politico-ideologico.
Questa riflessione è la base ideale da cui siamo partiti occupandoci del cosiddetto caso Triaca. Enrico Triaca, militante delle Brigate Rosse, venne catturato nel maggio 1978 e sottoposto a tortura dalla famigerata squadra de Tormentis, gruppetto di torturatori emanazione della volontà politica dello Stato di estorcere informazioni dai militanti politici anche con mezzi “poco ortodossi”. Torturato prima e condannato poi per calunnia, dopo aver cercato di portare in tribunale i suoi aguzzini, il suo processo è stato riaperto dal tribunale di Perugia nel giugno di quest’anno grazie alle rivelazioni contenute in un libro di Nicola Rao, nonché di alcune interviste del commissario di polizia Salvatore Genova, appartenente alla squadretta di torturatori guidata da Nicola Ciocia, che confermavano apertamente la versione data da Triaca nel 1978. Il tribunale di Perugia, il 15 ottobre scorso, riconoscendo la sincerità delle testimonianze, assolveva Triaca dall’accusa di calunnia. Sancendo, per la seconda volta nella storia politica di questo paese (la prima riguardò sempre un compagno, Cesare di Lenardo, torturato sempre dalla stessa squadra de Tormentis e sempre dagli stessi uomini), che lo Stato aveva effettivamente torturato, e in maniera sistematica, non attraverso il comportamento individuale di qualche suo sottoposto, ma attraverso una sua emanazione organizzata e secondo una precisa volontà politica.
Il legame fra questa esperienza particolare e l’introduzione generale è presto detto. Il nostro tentativo è quello di storicizzare quegli eventi, coglierne le sfumature politiche, per poter fare politica oggi. La vittoria dello Stato negli anni Settanta ha poggiato, e ancora oggi poggia, su una retorica etica che nei fatti è smentita, sia in senso storico-politico che, come abbiamo appena visto, in senso giuridico. Cosa afferma infatti l’ideologia statale? Che, al di là del merito politico, lo Stato esprimeva le istanze di legalità, di pace sociale, di diritto, contro tutte quelle ipotesi politiche che utilizzavano la violenza, l’omicidio, lo scontro, come strumenti per portare avanti le proprie ragioni. Alla violenza politica è stata opposta una presunta “superiorità etica” che doveva essere affermata, al di là dei torti e delle ragioni dei contendenti.
La vicenda Triaca ci insegna l’esatto opposto. Appena l’apparato statale si è trovato di fronte a un conflitto non più gestibile, tracimante i livelli fisiologici della compatibilità, questi non ha avuto remore ad utilizzare proprio quei metodi illegali che condannava ad altri. La presunta “superiorità etica” non c’è mai stata, e appena si è visto in discussione, questi ha agito esattamente come, se non peggio, quei gruppi rivoluzionari che diceva di combattere. Torture, legislazioni speciali, carcerazioni di massa; e poi ancora, strategie delle tensione, terrorismi, attacco ideologico a 360 gradi. Tolti alcuni degli aspetti più macabri o illegali delle vicende repressive degli anni Settanta, lo stesso insieme di strumenti che si stanno adoperando oggi nel contenere la lotta della val di Susa contro l’alta velocità.
Nel dire questo, allora, affermiamo sinteticamente alcune cose:
1) La repressione statale, soprattutto se volta al contenimento della conflittualità sociale, non poggia mai sul sadismo individuale di qualche “scheggia impazzita”, “mela marcia” o come si è soliti definire tali comportamenti, ma su una precisa scelta politica dell’apparato, quella cioè di adeguare il proprio livello repressivo alle mobilitazioni sociali e politiche. Ad ogni cedimento del rapporto di forza instaurato dallo Stato corrisponde un innalzamento del livello repressivo, al di là di ogni mera retorica su legalità e stato di diritto. Peraltro, notiamo come in questi anni si sia affermato un cosiddetto “stato d’eccezione” permanente fondato sulla continua retorica dell’”emergenzialità”. Una scritta su un muro si trasforma in atto vandalico prodotto e sintomo di “degenerazione politica”; l’imbrattamento di una targa del PD si trasforma in aggressione al Partito; il lancio di un sasso per contrastare la violenza delle forze dell’ordine viene associato a forma d’espressione (proto) terroristica; il lancio di un estintore viene punito con dieci anni di carcere; qualsiasi momento di protesta viene gestito esclusivamente in termini di ordine pubblico e sottoposto ad una legislazione d’emergenza che porta ogni espressione conflittuale ad essere perseguita tramite reati originariamente pensati per altri contesti, quali “devastazione e saccheggio”, “sommossa”, “associazione sovversiva”, ecc…
2) L’uso della forza espresso dai movimenti degli anni Settanta (come da ogni movimento di classe nel corso del Novecento), è sempre stato oggetto di rimozione ideologica, di negazione all’origine. Nel corso del suo sviluppo, ogni movimento, accrescendo la propria forza, aumenta il proprio livello di conflittualità. Capire come è stato gestito questo livello dal ciclo di lotte più vicino temporalmente a noi, e quali sono state le risposte messe in piedi dalla controparte statale, ci può dotare di alcuni strumenti utili per portare avanti le nostre lotte. Non è un caso, ad esempio, che lentamente ma inesorabilmente la lotta statale contro il movimento no Tav sia equiparata alla lotta al terrorismo. E questo sia in senso giuridico, con l’organizzazione di apposite commissioni anti-terrorismo e l’instaurazione di precisi reati ad esso collegati; sia in senso politico-ideologico, con la criminalizzazione della lotta in corso che mira a privarla della dignità di lotta sociale per degradarla a prodromo o attuazione di istanze terroristiche. E’ un film già visto, e che però appare “nuovo” proprio perché la contestuale rimozione politica di quegli anni ci ha privato di alcune chiavi di lettura che in questa fase potrebbero tornarci utili.
3) Nella criminalizzazione politica delle istanze dei movimenti, i primi a muoversi e ad aprire la breccia, per così dire, sono sempre quelle parti politiche apparentemente vicine agli interessi di classe. Non è un caso che in questi giorni gli attacchi più duri alle lotte sociali della val di Susa e delle manifestazioni di Roma siano avvenute da Gad Lerner e dal Manifesto, così come in genere avvengono da Repubblica. Entrambi riproducendo un altro schema classico dell’attacco politico ai movimenti, quello della distinzione fra “buoni” e “cattivi”, dove per cattivi si deve intendere “violenti”. Il tentativo di dividere il movimento, non rilevando come il momento “partecipato” e “comunicativo” può esistere solo insieme al momento “conflittuale”, che entrambi i momenti si innervano a vicenda portando avanti la propria vertenza, è tipico di chi vuole ridurre le ragioni della lotta a mero movimento d’opinione, intellettualistico, umanitario, al limite prettamente vertenziale. Quello che cioè lo Stato vuole evitare è la fusione del momento vertenziale con quello politico, cioè la tracimazione della vicenda particolare (la singola lotta) a vicenda generale (l’unione fra le lotte).
Concludiamo affermando che gli anni Settanta hanno ancora molto da insegnarci, metabolizzando politicamente alcune vicende storiche che, nel corso delle lotte di classe, si riproducono storicamente. La resistenza alla repressione statale non è dunque un solo fatto giuridico, ma soprattutto un fatto politico, ed è un fatto politico costante, che cioè si riproduce ogniqualvolta i movimenti crescono di forza. La risposta non va cioè articolata nel modo più intelligente di sfuggire alla repressione, ma di porre quelle basi politiche che dovrebbero far venir meno il contesto ideologico in cui si afferma tale repressione. Oggi quel terreno è l’utilizzo intelligente della forza e della conflittualità, aggregando attorno a questo tema quel consenso necessario tale da impedire ogni discorso criminalizzante. L’esempio della lotta no Tav, in questo senso, è quanto di più riuscito ci possa essere, ed è proprio uno di quegli aspetti che dovrebbe essere generalizzato in ogni luogo e in ogni lotta.