Vogliamo introdurre questo servizio di Guido Crosetti con una semplice analisi. Proviamo a paragonare il lavoro di questo cronista che per un giorno ha scelto di stare nella mobilitazione no tav a tutti i reportage che sulla giornata di domenica sono stati scritti.
Si scappa, si tossisce, si piange, si vomita. Ma non si retrocede di un metro. Forse è il ritratto della Val Susa
di Maurizio Crosetti per Repubblica
E’ la replica del solito, orribile film. Ma stavolta i lacrimogeni arrivano fin dentro quello che chiamano “il campeggio”, anche se qui davanti alla centrale elettrica nessuno è venuto a fare vacanza. Tra le tende del presidio No Tav, il gas si diffonde alle otto di sera, annunciato da un giorno almeno, dall’attesa di altri inevitabili scontri dopo la battaglia notturna nei boschi.
Non è come il 3 luglio, ma solo per una questione di numeri e dimensioni. Quella volta, però, i bambini e gli anziani li avevano portati via prima, invece ieri sera si sono trovati anche loro al centro del caos, nel cuore di un altro giorno sbagliato.
Si battono le pietre e i bastoni sui guard-rail, dove finiscono gli alberi e comincia il ponticello. E’ un suono ritmico e andrà avanti per tutto il pomeriggio, finché non gli farà da controcanto il rotore del’elicottero della polizia. Sembrano tamburi tribali, è invece il sottofondo degli opposti schieramenti. Pareva un giorno più tranquillo, rispetto agli ultimi. Non è andata così.
Alle tre del pomeriggio ci sono già tre o quattrocento persone in attesa degli alpini, cioè quelli che hanno deciso di contestare gli alpini veri, i militari che stanno presidiando il cantiere insieme alle forze dell’ordine. Anche se l’Ana li aveva diffidati dal portare il cappello con la penna nera, perché loro non devono fare politica, in molti ‘hanno indossato ugualmente e con orgoglio. “Gli alpini veri siamo noi, non quei mercenari là dentro. Il cappello me lo sono sudato durante la naja, è un simbolo di pace, non me lo tolgo certo adesso”, racconta un ex artigliere arrivato da Condove. E come lui ce ne sono proprio tanti, di tutte le età, la maggior parte tra i quaranta e i cinquanta, però ci sono pure i più anziani e le donne, anche loro con la penna nera. Verso le cinque si mettono tutti in marcia e salgono al cantiere della Maddalena, dove canteranno e protesteranno. Dietro di loro, una lunga coda di No Tav senza cappello, ma con più di una ragione per protestare.
Non è una manifestazione ufficiale, non ci sono autorità in servizio, qualche sindaco e qualche assessore però sono venuti lo stesso. Alle 18 parleranno i genitori di Carlo Giuliani, il ragazzo morto al G8 di Genova dieci anni fa. Ed è a quell’ora che la gente si sposta al campeggio, tra le tende e i tavoli dove si mangiano frutta e panini, bevendo il vino No Tav e acquistando le magliette alla bancarella delle anziane signore, tutte con il foulard bianco e la croce sul treno. Anche se nell’aria c’è l’attesa degli scontri, o forse solo il timore, l’atmosfera è ancora quella della scampagnata. Molti anziani, bambini, cani al guinzaglio. Ci sono disabili sulle carrozzelle e un notevole ingorgo di auto nella discesa che porta alla borgata Ramats, il cuore degli scontri di venti giorni fa.
La mamma di Carlo Giuliani, Haidi, è la prima a prendere la parola. ?”Il G8 di Genova, oggi è alla Maddalena. E’ qui la violenza dello Stato. Carlo era piccolo, però era sveglio e aveva capito tutto: venne lui per primo a protestare a Torino, quando morirono Sole e Baleno. In dieci anni sono state raccontate molte cose false su mio figlio e oggi, se fosse vivo, sarebbe certamente qui. Guardo queste montagne e penso: ma come si permettono? Come possono pensare di rovinarle? Penso anche alla mia nipotina di tre anni, e mi sento in colpa perché le lasceremo un mondo diverso da quello che avevamo sperato”. Il marito Giuliano annuisce, tra gli applausi, poi prende la parola. “Oggi il mercato globale è una cosa molto complessa, ognuno deve stare attento ai propri gesti, anche quelli piccoli, tutti significativi. Carlo non andava in giro a spaccare le vetrine di McDonald’s: il suo modo di protestare, semmai, era non averci mai messo piede”.
Intanto, davanti al cancello della centrale elettrica c’è chi scava al ritmo dei bastoni, provando a scalfire le fondamenta. Viene issata una bandiera tricolore, e poi quella No Tav. Vengono legate corde alla griglia di rinforzo alla cancellata, finché questa non è divelta tra gli applausi. Ragazzi incappucciati si preparano alla battaglia, è chiaro che ormai manca poco. Dagli zainetti escono le mascherine, i limoni, i fazzoletti, le bottiglie di Maalox. I più attrezzati hanno pure la maschera antigas. A occhio, però, non ci sono i black bloc dell’altra volta, anche se la protesta più dura non è limitata a qualche decina di arrabbiati. Sono molti di più, invece, e sorprende che il resto della popolazione resti a battere le mani, a cantare cori e frasi durissime contro polizia e carabinieri, senza cedere o scoraggiarsi. Neppure quando le forze dell’ordine cominciano a indossare i caschi, segnale della battaglia imminente.
Alle otto di sera, gli alpini “contestatori” sono ormai tornati dalla Maddalena, per unirsi nuovamente al popolo No Tav. Le donne annunciano “un sabba, una performance” davanti al cancello “quando farà buio”. Ma non c’è bisogno della notte per vedere la scia dei primi lacrimogeni alzarsi a parabola, e ricadere in mezzo alle persone. Si scappa, si tossisce, si piange, si vomita. Ma non si retrocede di un metro. Forse è il ritratto della Val Susa.