La prima volta da maggioritari. La Valle registra il nuovo status senza fare una piega, con invidiabile aplomb, mettendo in campo la moltitudine variegata e compatta di sempre. Un fiume ininterrotto di gente che riempie tutti gli otto chilometri che separano Susa da Bussoleno, la stessa impressionante folla dello scorso anno, quando se ne contarono cinquantamila. Forse di più. Ma, appunto, stesse espressioni rilassate e determinate di prima. Stessa sensazione piacevole di appartenenza. Stessa composizione multigenerazionale, con madri e figlie, nonni e nipoti, nuclei famigliari magari divisi su altro ma uniti da questo. Non la forma segmentata e gergale della mobilitazione politica, ma quella inclusiva e popolare di un’espressione di territorio. Al comizio finale, il primo intervento non è stato di un leader politico, e neppure di un amministratore (che pure sono numerosi), ma del padre di Nicolas, uno dei bambini feriti dall’esplosione di un residuato bellico. E ha parlato dell’amicizia.
Eppure lo scenario è cambiato. Politicamente. I valsusini non sono più l’isola ribelle di irriducibili, chiusi nella loro valle. Mondo alla rovescia, ridotto dentro il confine della Chiusa di San Michele. Ora la loro causa è uno dei primi punti del programma del partito di maggioranza relativa. La prova vivente della rivoluzione copernicana in corso, quasi che la loro rivoluzione locale si fosse rivelata, di colpo, stato d’animo generale. Per avere però la misura di questa svolta, è al mattino che bisogna guardare. La discontinuità radicale prodotta dal voto di febbraio sta tutta nell’immagine di Luca Abbà, che entra nel cantiere fortificato di Chiomonte scortato dalla stessa polizia che due anni or sono l’aveva inseguito su quel maledetto traliccio. E con lui entrano Lele di Askatasuna, Alberto Perino e gli altri, fino a ieri indicati come «pericoli pubblici», oggi «consulenti delle istituzioni», chiamati ufficialmente «assistenti» dei 68 deputati e senatori venuti a ispezionare il «sito strategico». Mentre Stefano Esposito, l’esponente pd pasdaran del Tav, che fino a ieri aveva monopolizzato la rappresentanza istituzionale, appare improvvisamente periferico, quasi il residuo di un cantiere avviato su un binario morto.
Ci si sarebbe potuti aspettare che, in queste circostanze, la politica divorasse il proprio popolo. Che il corteo traboccasse di bandiere cinque stelle (del partito che in valle ha stravinto le elezioni). Che fosse aperto dalla schiera di nuovi eletti. E invece niente. Il serpentone era preceduto da un delizioso trenino carico di bambini. E non trovavi una sola bandiera a cinque stelle nemmeno a cercarla col lanternino, a dimostrazione di una notevole intelligenza politica dei cosiddetti «grillini». I quali hanno evidentemente capito che un popolo, anzi una «popolazione» (al femminile), non lo si rappresenta mettendoci sopra il cappello, né marchiandolo con i propri simboli, ma lo si ascolta in silenzio. E che è molto meglio confondersi tra di esso anziché distinguersene con l’ostentazione di un’identità estranea, al contrario degli estremi residui delle formazioni vetero-comuniste, fastidiosamente chiusi nelle loro bandiere come in una corazza medievale, testimonianza di una testarda volontà di non capire.
Certo è che visto di qui, da questo «margine», lo tsunami che ha terremotato la politica italiana lo si capisce molto meglio, scaturito non da un palco da comizio, o dalla testa di un leader, e nemmeno dalla «rete», ma da una pressione tellurica di gente che non ne può più di espropriatori, monopolizzatori (interessati) della scelta e dei beni collettivi, decisori dall’alto.
Un solo slogan attraversava trasversalmente il corteo, vero comun denominatore tra generazioni, professioni, sensibilità, religioni…: «Giù le mani dalla val Susa» e, scritto sugli striscioni: «Difendiamo il nostro futuro». Sono evidentemente milioni gli elettori che vogliono che si tengano giù le mani dai «beni comuni» (a cominciare dall’habitat) e dal loro futuro. E tanto basta per spiegare un successo.