da Torino Oggi (Andrea Parisotto). “Da 7 anni varchiamo un confine di Stato per andare a lavorare”: tra controlli e lacrimogeni, incontriamo i produttori della val di Susa che non si arrendono
“La montagna, pur con tutte le difficoltà che incontra, non si vuole arrendere”. Li chiamano viticoltori eroici, perché ogni giorno sfidano la pendenza della montagna per raccogliere l’uva e produrre uno straordinario prodotto della loro terra. Il vino. Ed eroi, i viticoltori della val di Susa, di fatto lo sono davvero, visto che da sette anni, oltre alle difficoltà di un terreno impervio, convivono con una delle grandi opere più impattanti e discusse del nostro paese: il cantiere del Tav.
La parola “resistenza” sembra coniata su di loro. Una resistenza pacifica, che trasuda dignità da tutti i pori. I viticoltori della zona rossa, da Giaglione a Chiomonte stoicamente cercano di andare avanti nonostante le mille difficoltà. Lo fanno con sudore, passione e amore per la loro terra. Eppure, su queste montagne, la vita quotidiana è più complicata rispetto a qualsiasi altro terreno agricolo del Piemonte.
A poche centinaia di metri dagli ettari in cui sono presenti i vigneti infatti, c’è il cantiere dell’Alta Velocità. L’area è militarizzata: controlli ovunque, presidi, posti di blocco e cancelli. Entrare nella zona rossa è difficile per chiunque, anche per loro che pur transitandoci ogni giorno devono presentare i documenti e attendere pazienti di poter varcare gli accessi controllati da carabinieri e militari per andare a lavorare. L’attesa, molto spesso, dura più di 20 minuti. Una prassi che vale per tutti: proprietari delle vigne, dipendenti, residenti e qualsiasi persona decida di passare di lì.
La strada è “aperta” e “percorribile” dalle 8 del mattino sino alle 19. Poi, in base a una precisa ordinanza comunale, scatta il coprifuoco: i militari chiudono il cancello, i lavoratori sono obbligati a uscire e nessuno può più transitare in quei sentieri asfaltati e battuti dalla terra che collegano Giaglione a Chiomonte. Il disagio è evidente.
Eppure, da sette lunghissimi anni, i viticoltori non mollano. Ogni giorno si recano nelle loro vigne e lavorano incessantemente. Giancarlo Martina, produttore locale, spiega quanto sia difficile vivere a stretto contatto con un cantiere del genere, enorme: “Da sette anni varchiamo un confine di Stato per andare a lavorare. Dobbiamo ricordarci di avere i documenti appresso e mettere in conto di perdere 20 minuti per entrare. Sembra di stare isolati, su un’isola”. In tanti, inoltre, a causa dei tanti lacrimogeni sparati durante gli scontri con i No Tav, hanno messo in dubbio la qualità dell’uva coltivata: “C’è stato un giocare sui viticoltori locali. Qualcuno ha detto che facevamo un video al CS, quello è stato devastante per le nostre produzioni. Abbiamo effettuato le analisi per dimostrare la qualità delle nostre uve, l’abbiamo fatto a spese nostre e senza alcun aiuto”.
Tutti problemi che si aggiungono alle normali difficoltà, quelle di lavorare in montagna: “La nostra azienda ha un ettaro di superficie terrazzata, dove lavoriamo tutto a mano. Ci si mette il triplo del tempo, è più difficile. Nell’altro ettaro, nonostante le forti pendenze, ci si muove invece con il trattore cingolato”. Gli sforzi di tutti i giorni hanno permesso a Martina di rivalutare le varietà autoctone: l’Avanà, il Becuét, il moscato di Giaglione e la Grisa Rusa. Solo varietà locali. Con il tempo il viticoltore ha voluto sperimentare qualche vitigno internazionale adatto alla montagna, a questo terreno: Pinot nero, Chardonnay, Traminer aromatico. Nove tipologie di vino per 13.000 bottiglie, vendute principalmente nell’alta val di Susa.
Ecco perché, tra cantiere Tav e posti di blocco, tra alture da scalare e coltivare, nonostante una vita difficile il messaggio che si vuole lanciare diventa un inno alla resistenza. Alla speranza. “Chi ci sceglie acquista un prodotto di montagna, con caratteristiche specifiche. Soprattutto un prodotto che vuole parlare al consumatore dicendo che la montagna, pur con tutte le difficoltà che incontra, non si vuole arrendere”. Dai vigneti della zona rossa del cantiere Tav a Torino, spira un forte vento d’orgoglio valsusino.
La parola “resistenza” sembra coniata su di loro. Una resistenza pacifica, che trasuda dignità da tutti i pori. I viticoltori della zona rossa, da Giaglione a Chiomonte stoicamente cercano di andare avanti nonostante le mille difficoltà. Lo fanno con sudore, passione e amore per la loro terra. Eppure, su queste montagne, la vita quotidiana è più complicata rispetto a qualsiasi altro terreno agricolo del Piemonte.
A poche centinaia di metri dagli ettari in cui sono presenti i vigneti infatti, c’è il cantiere dell’Alta Velocità. L’area è militarizzata: controlli ovunque, presidi, posti di blocco e cancelli. Entrare nella zona rossa è difficile per chiunque, anche per loro che pur transitandoci ogni giorno devono presentare i documenti e attendere pazienti di poter varcare gli accessi controllati da carabinieri e militari per andare a lavorare. L’attesa, molto spesso, dura più di 20 minuti. Una prassi che vale per tutti: proprietari delle vigne, dipendenti, residenti e qualsiasi persona decida di passare di lì.
La strada è “aperta” e “percorribile” dalle 8 del mattino sino alle 19. Poi, in base a una precisa ordinanza comunale, scatta il coprifuoco: i militari chiudono il cancello, i lavoratori sono obbligati a uscire e nessuno può più transitare in quei sentieri asfaltati e battuti dalla terra che collegano Giaglione a Chiomonte. Il disagio è evidente.
Eppure, da sette lunghissimi anni, i viticoltori non mollano. Ogni giorno si recano nelle loro vigne e lavorano incessantemente. Giancarlo Martina, produttore locale, spiega quanto sia difficile vivere a stretto contatto con un cantiere del genere, enorme: “Da sette anni varchiamo un confine di Stato per andare a lavorare. Dobbiamo ricordarci di avere i documenti appresso e mettere in conto di perdere 20 minuti per entrare. Sembra di stare isolati, su un’isola”. In tanti, inoltre, a causa dei tanti lacrimogeni sparati durante gli scontri con i No Tav, hanno messo in dubbio la qualità dell’uva coltivata: “C’è stato un giocare sui viticoltori locali. Qualcuno ha detto che facevamo un video al CS, quello è stato devastante per le nostre produzioni. Abbiamo effettuato le analisi per dimostrare la qualità delle nostre uve, l’abbiamo fatto a spese nostre e senza alcun aiuto”.
Tutti problemi che si aggiungono alle normali difficoltà, quelle di lavorare in montagna: “La nostra azienda ha un ettaro di superficie terrazzata, dove lavoriamo tutto a mano. Ci si mette il triplo del tempo, è più difficile. Nell’altro ettaro, nonostante le forti pendenze, ci si muove invece con il trattore cingolato”. Gli sforzi di tutti i giorni hanno permesso a Martina di rivalutare le varietà autoctone: l’Avanà, il Becuét, il moscato di Giaglione e la Grisa Rusa. Solo varietà locali. Con il tempo il viticoltore ha voluto sperimentare qualche vitigno internazionale adatto alla montagna, a questo terreno: Pinot nero, Chardonnay, Traminer aromatico. Nove tipologie di vino per 13.000 bottiglie, vendute principalmente nell’alta val di Susa.
Ecco perché, tra cantiere Tav e posti di blocco, tra alture da scalare e coltivare, nonostante una vita difficile il messaggio che si vuole lanciare diventa un inno alla resistenza. Alla speranza. “Chi ci sceglie acquista un prodotto di montagna, con caratteristiche specifiche. Soprattutto un prodotto che vuole parlare al consumatore dicendo che la montagna, pur con tutte le difficoltà che incontra, non si vuole arrendere”. Dai vigneti della zona rossa del cantiere Tav a Torino, spira un forte vento d’orgoglio valsusino.