Il mattino a Diyarbakir ci accoglie con un sole terso ma fresco. L’appuntamento e’ per le ore 10.00 al tribunale, che fortunatamente all’albergo e puo’ essere raggiunto a piedi. E’ difficile per noi distinguere in questa citta’ alle porte dell’Asia centrale i palazzi istituzionali da quelli dirigenziali privati. Sono le recinzioni metalliche, i fucili automatici, gli schieramenti di polizia a ricordarci come, ovunque vengano soppresse legittime istanze di liberta’ e giustizia, il linguaggio assuma una forma drammaticamente universale. Lo scenario, pur nelle differenti dimensioni, non puo’ non evocare in noi Valsusini, immagini di reti, scarponi, e filo spinato fin troppo simili. Un mezzo della Polis, munito di idrante, ci accoglie a motore acceso, a volerci ricordare che pur in un teatro ufficiale ed istituzionale la tensione e’ elevata e concreta. Nel fine settimana che ha preceduto il nostro arrivo un ragazzo ha pagato con la propria vita il proprio tributo alla protesta. Che non si trattasse di un viaggio di piacere d’altra parte l’ha reso chiaro l’espulsione immediata, all’aeroporto di Istanbul, di uno dei membri della delegazione, l’avv. Arturo Salerni, reo di aver assistito Ocalan in occasione della richiesta di asilo politico in Italia. Con onesta’ in effetti occorre ammettere che le analogie con la Maddalena si esauriscono contro il brunito metallo delle armi: i manganelli qui sono sostituiti da robusti mitragliatori dai quali, evidentemente, e’ atteso un effetto ben più’ che dissuasivo. Nei pressi del tribunale gli amici dell’associazione “Verso il Kurdistan” srotolano orgogliosamente il proprio striscione e si concedono un breve corteo sino al check-in di ingresso dove non mancano passamontagna e blindati, ma per fortuna anche fotografi e giornalisti pronti per le interviste. La delegazione di avvocati, tra cui cinque componenti del Team Legale NOTAV, sono tra i primi a poter superare il recinto della zona rossa. La qualifica non e’ sufficiente l’accesso agli uffici forensi ed insieme a parlamentari baschi e svedesi, pure presenti, i legali sono impegnati in una serrata trattativa: ne approfittiamo per catturare qualche scatto con la bandiera NOTAV spiegata contro i mezzi militari, a ribadire il fatto che “la Valsusa paura non ne ha” in alcuna parte del mondo. Alla fine l’ingresso e’ concesso a chiunque: a pochi metri dall’ingresso la calca e’ notevole e i tratti somatici della popolazione locale spiccano nettamente nel confronto con i lineamenti degli europei, a cui e’ concesso il privilegio di entrare per primi scortati dai sorrisi dei curdi, a testimonianza del valore della nostra presenza, in questo frangente, per queste persone. Le maglie del potere sono tuttavia perennemente pronte a stringersi per comprimere la fratellanza tra i soggetti in lotta. Pur dopo la scansione al metal detector, non a tutti e’ permesso accedere all’aula in cui si celebra il processo: uova, costudie per occhiali, pile, alimenti confezionati, tutto e’ considerato potenzialmente pericoloso, ma prime su tutto le bandiere che i vari attivisti ovunque portano con se’. Per chi scrive la pietra dello scandalo e’ la nostra bandiera NOTAV, d’incompreso significato, scrutata e liquidata con un misero (ma incredibilmente comprensibile) “communist” a riprova che gli idioti e gli oppressori di tutto il mondo, poveri di fantasia, evocano ovunque i medesimi e sciupati spauracchi. In preda alla delusione ci risolviamo ad abbandonare l’edificio: ci confortano gli occhi e i sorrisi colmi di gratitudine dei curdi e il più’ esplicito cenno di ringraziamento con la mano portata al capo, gesto che impariamo immediatamente a dimostrazione dell’universalita’ del sentimento di riconoscenza che lega chi lotta per la liberta’. Saranno gli avvocati a descriverci il clima e l’esito dell’udienza a cui hanno potuto assistere.
Daniele Forte Laboratorio Civico di Almese (val di Susa)