da lospiffero.com, una testata che non si è sicuramente contraddistinta per la sua imparzialità sul tema tav Torino Lione, molto vicina ai salotti della sinistra torinese che con questa indagine e pubblicazione un po’ ci stupisce. Non possiamo però che condividere l’analisi di fondo qui pubblicata ed espressa come sottolineato non da un black block ma da un liberale, da chi insomma ai mercati tende sempre a sorridere. “Ma se la Torino Lione tav serve così tanto perchè i soldi non ce li mettono i privati?”
Costi altissimi e partner europei sempre più scettici. E poi le previsioni di vent’anni fa si sono rivelate fallaci. I liberisti dell’istituto Leoni contro l’alta velocità in Valsusa: “Se c’è tutta questa domanda, investano i privati”. Ipotizzare una sospensione
C’è chi dice no. E non sono i black bloc che accorrono in Valsusa per sfogarsi e giocare a fare i guerrigieri, o i residenti, in larga parte preda della sindrome Nimby, o ancora i seguaci della decrescita felice pronti a salire sul cucuzzolo di una montagna per vivere – a parole – da eremiti contro l’incalzare del progresso. A manifestare perplessità sempre crescenti verso la Tav da tempo ci sono tecnici e studiosi d’ispirazione liberale, ingegneri ed economisti che, al netto delle ovvie quanto doverose condanne dei violenti ora si chiedono se la Torino-Lione sia ancora un’opera strategica per il Paese e in particolare il Piemonte. Tra questi, ci sono gli studiosi dell’istituto Bruno Leoni, think tank liberista guidato da Alberto Mingardi che sostiene senza riserve tanto l’inutilità dell’opera quanto il rischio che il gioco non valga la candela. E’ vero, in questi ultimi anni la spesa complessiva per l’alta velocità è stata ridotta notevolmente, passando dai 23 miliardi previsti dal progetto iniziale, agli 8,5 attuali, riducendo l’opera alla sola galleria di base per le merci. L’Italia ne dovrà pagare 2,8. Ma non si tratta comunque di un lusso che non possiamo permetterci? Soprattutto a fronte di previsioni, vecchie di un decennio, e già smentite dai fatti? Interrogativi, peraltro, già posti, proprio sulle colonne dello Spiffero, dall’economista torinese Enrico Colombatto.
L’ingegnere dei trasporti Francesco Ramella (foto) non ha dubbi: «Le risorse pubbliche per la Torino-Lione potrebbero essere spese per altre infrastrutture, o lasciate nelle tasche dei cittadini, che contribuiranno alla nuova linea per mille euro ogni famiglia di quattro persone». C’è poi la questione ambientale, più volte sbandierata. E cioè la necessità di spostare il transito delle merci dalla gomma alle rotaie: «Un altro finto problema – prosegue Ramella -. Oggi su quella tratta viaggiano circa 2mila tir al giorno, una percentuale decisamente limitata rispetto al resto del Piemonte. E poi per utilizzare l’Interporto di Orbassano l’ultimo tratto comunque va fatto su gomma ed è quello solitamente più congestionato».
Motivazioni, da quella economica a quella ambientale, che hanno fatto scendere l’opera dalla scala delle priorità anche tra i cugini francesi, che dopo le perplessità avanzate dalla Corte dei Conti, hanno deciso di procrastinarla al 2030. Insomma a babbo morto. Se a ciò si aggiunge che il leggendario corridoio da Kiev a Lisbona si è ormai dissolto, dopo il passo indietro del Portogallo, le riserve di molti tecnici sono sempre più forti. Non è tutto. Come noto, quella della Tav è una vicenda nata negli anni Novanta del secolo scorso, quando – per sostenere la necessità dell’alta velocità – vennero pubblicati degli studi sull’incremento del traffico di merci in quella tratta, rendendo conseguente la necessità di realizzare una linea ferroviaria capace di sostenerlo. Quelle proiezioni a venti o trent’anni, oggi, sono facilmente verificabili e chiaramente si può affermare che sono rimaste a debita distanza da quanto realmente accaduto.
Come ha spiegato sempre Ramella in un recente articolo, «lungo il settore occidentale delle Alpi, il traffico merci complessivo è cresciuto da circa 20 milioni di tonnellate a metà anni ’80 fino a raggiungere un massimo di 35 milioni a cavallo del secolo. Nell’ultimo decennio, a differenza di quanto accado sul versante austriaco e su quello svizzero che hanno visto proseguire il trend di crescita dei flussi, si è registrata una netta inversione di tendenza che ha riportato nel 2009 i traffici ad un livello pressoché identico a quello di partenza. Si è quindi modificata radicalmente la distribuzione territoriale del commercio estero del nostro Paese con una progressiva crescita degli interscambi in direzioni nord ed est ed una contrazione di quelli verso nord-ovest. Tale andamento è stato solo marginalmente influenzato dai lavori sulla linea storica: la contrazione dei flussi sul versante nord-occidentale è comune a strada e ferrovia ed è altresì precedente all’attuale fase di recessione economica. Tale realtà sembra essere stata ignorata dagli autori dello studio i quali, sullo stesso segmento alpino che ha visto i flussi quasi dimezzati nel nuovo secolo, ipotizzano si passi dai 20 milioni di t del 2009 a 60 milioni nel 2035 e a poco meno di 100 milioni a metà secolo nel caso non venisse realizzata la nuova linea ferroviaria (110 nello scenario di progetto)».
Insomma, c’è chi, anche tra gli studiosi più liberali e tutt’altro legati a ideologie quali decrescite felici o ai miti del selvaggio felice che ormai sostengono apertamente che il gioco non vale la candela. «Se è una opportunità irrinunciabile come il Governo e le istituzioni sono convinti, perché non si trovano degli investitori privati, come accadde per l’Eurotunnel? Mi rincuorerebbe vedere qualcuno rischiare con i propri soldi, ma purtroppo le aziende se ne guardano bene». E allora, come uscirne? «Non sono un giurista, dico solo che in questi 20 anni abbiamo firmato con la Francia almeno una decina di “accordi definitivi”». Magari basterà non sottoscrivere il prossimo.