di Marco Ponti –L’aumento del prezzo dei carburanti è di gran lunga l’aspetto più immediato e percepibile dell’intervento del governo Monti nei trasporti, anche se bisogna certo dare un po’ più di tempo per esprimere delle politiche organiche per il settore. Ma alcune dichiarazioni e azioni fatte finora non consentono molto ottimismo.
L’aumento delle tasse, già altissime, sulla benzina e il gasolio (il terzo aumento nell’anno!) appare un intervento con un forte e sicuro impatto inflazionistico (colpisce tutti i prezzi), e non equo. Una delle motivazioni dell’aumento è quella di trovare risorse per i sussidi ai trasporti locali. Ma non si può ignorare che abbiamo le più basse tariffe europee per questi servizi, che per di più sono prodotti in regime di monopolio, e quindi con poca efficienza. Alti costi di produzione collegati a basse tariffe, entrambe conseguenze di scelte politiche degli enti locali, richiedono ovviamente altissimi sussidi pubblici. Non era il caso di intervenire con più decisione sulle cause del fenomeno, invece che “premiare” indistintamente queste costose politiche passate? Infine occorre ricordare che la maggioranza dei pendolari si sposta in automobile, e non certo per libera scelta, ma a causa del fatto che quelli a più basso reddito abitano e lavorano in aree disperse, e non servibili con i mezzi pubblici. Loro dovranno pagare (con 70 centesimi di tasse al litro) per consentire agli enti locali le loro irresponsabili politiche di spesa.
La costituzione di un’autorità indipendente di regolazione per il settore appare ottima cosa, ma l’idea di frazionarne le competenze e connetterne i “pezzi” ad altre autorità fa apparire da subito debole il progetto. L’esclusione delle concessioni autostradali da questa regolazione poi è un segnale pessimo: gli altri concessionari avrebbero un precedente a cui attaccarsi per aumentare le loro resistenze al ruolo della nuova Autorità, che, non dimentichiamolo, è quello di difendere utenti e contribuenti, rispettivamente dai profitti eccessivi dei concessionari privati, o dalle inefficienze dei concessionari pubblici (ferrovie in particolare).
Pessima appare anche la mancata liberalizzazione dei taxi, non tanto nel merito quanto nel metodo. Nessuna liberalizzazione infatti può essere indiscriminata, e richiede fasi delicate di transizione (per esempio, sulla gestione della perdita di valore delle licenze attuali comprate a caro prezzo dai tassisti). Ma ritirare il provvedimento alla prima protesta, costituisce un segnale di debolezza di fronte agli interessi costituiti, e anche in questo caso un precedente pericoloso per altre liberalizzazioni.
I primi segnali per la politica infrastrutturale sembrerebbero poi confermare la linea del governo precedente, con la logica delle “grandi opere”: costi stratosferici per i contribuenti, di cui nessuno in questi anni ha assunto la responsabilità, poche scelte funzionalmente efficaci (la linea AV Milano-Roma), altre di dubbia utilità (la linea AV Roma-Napoli), e altre ancora catastrofiche (la linea AV Milano-Torino sopra tutte). Ma erano comunque altri tempi. Ora gli aspetti finanziari (cioè quanto bisogna pagare con le tasse e quanto pagano gli utenti), e quelli in favore della crescita economica sono dominanti. E le grandi opere finanziate dall’ultimo Cipe sono le peggiori possibili da entrambi questi punti di vista. Si tratta infatti principalmente di nuove tratte ferroviarie di alta velocità (la Milano-Genova e la Napoli-Bari), costosissime, e probabilmente tutte a carico dei contribuenti (“probabilmente” perché neppure è dato conoscerne i piani finanziari, cioè il rapporto costi-ricavi). Anche gli effetti anti-crisi sono inesistenti: si tratta di opere “ad alta intensità di capitale”, e con periodi di completamento molto lunghi ed incerti. Esattamente il contrario di quello che serve oggi per la crescita dell’occupazione e dei consumi, che sono le opere che occupano da subito molta gente, come le manutenzioni e i miglioramenti dell’esistente.
Ma anche investire in opere che gli utenti non sono disposti a pagare, come quelle ferroviarie per le relazioni di lunga distanza (vedi sopra), dovrebbe far riflettere sulla loro priorità rispetto ad altre, meno vistose ma certo più urgenti. Vengono spesso addotti motivi ambientali per queste scelte. Tuttavia studi recenti hanno evidenziato che le emissioni di gas serra nella fase di costruzione di grandi opere ferroviarie vanificano di fatto ogni possibile beneficio ambientale, per moltissimi anni. Come si è già detto, appare urgente una revisione delle scelte di spesa in questo campo, che segnali una forte discontinuità con le logiche poco meditate, e ancor meno valutate, dal governo Berlusconi. C’è altrimenti il rischio che i pendolari, i pensionati, e le imprese, con le tasse sui carburanti e le loro conseguenze inflattive, paghino per opere politicamente “visibili” ma di assai incerta utilità, mentre per quelle esistenti e molto usate continui il degrado.
di Marco Ponti -Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2011