Sono state appena pubblicate le motivazioni della sentenza della cassazione che ha clamorosamente ribaltato, almeno in parte, le conclusioni del tribunale di Torino sul corteo del 3 luglio.
I fatti risalgono al 2011 quando decine di migliaia di persone reagirono al violento sgombero della Madalena di Chiomonte. Il sito, dove era previsto lo scavo del tunnel geognostico propedeutico alla costruzione della nuova Torino-Lione, era stato occupato pacificamente da migliaia di persone per settimane prima di essere invaso da militari, polizia e carabinieri in assetto di guerra. Allo sgombero aveva fatto seguito un imponente corteo di protesta, valsusini e notav giunti in solidarietà da tutta Italia tentarono di riprendere alle truppe di occupazione il sito del futuro cantiere, assediandolo per diverse ore. Sei mesi dopo il gip di Torino aveva emesso 41 misure cautelari che portarono a 38 condanne in secondo grado nei confronti di No Tav dai 18 ai 70 anni che saranno condannati fino a 4 anni e mezzo di prigione (celebre il caso del barbiere di Bussoleno, anche lui tra i condannati). Il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, riferendosi alla manifestazione, parlò di rischio di “avvicinarsi pericolosamente ai livelli delle FARC”.
Nell’aprile dell’anno scorso era però arrivata la sentenza della cassazione che aveva annullato le condanne. Le motivazioni, a quanto si apprende oggi, sono dovute al fatto che i giudici torinesi non si sono soffermati in alcun modo sulle violenze delle forze dell’ordine né sul contesto sociale nel quale prendeva luogo la manifestazione. Si tratta quindi di una smentita di tutto l’impianto accusatorio della procura che, all’indomani della sentenza di secondo grado, aveva dichiarato alla stampa che “è stata riconosciuta la legittimità dell’operato delle forze dell’ordine in occasione degli scontri in Valle di Susa e, soprattutto, non è stata riconosciuta agli imputati l’attenuante di avere agito per particolari motivi di valore sociale, contro la quale la procura si è duramente battuta”. Per i giudici della cassazione, invece, i manifestanti potrebbero aver agito “per suggestione di una folla in tumulto” e “in stato d’ira determinata da un fatto ingiusto”. Inoltre, per gli ermellini, non si può partire dal presupposto che se in una manifestazione ci sono violenze tutti i manifestanti che vi partecipano sono violenti.
Niente di incredibile insomma, solo il ristabilimento di uno dei principi cardine del diritto occidentale (la responsabilità penale è individuale). Tuttavia la sentenza è particolarmente significativa perché si muove in tutt’altra direzione rispetto ad altri precedenti giurisprudenziali che, per le manifestazioni di piazza in Val Susa, dove lo stato di eccezione è diventato norma, hanno usato e abusato l’obbrobrio giuridico del “concorso morale”, fattispecie direttamente derivata dal codice Rocco, il codice penale in vigore durante il fascismo, che è stata poi mantenuta anche nell’ordinamento “democratico” della repubblica italiana. Con questo psicoreato, già usato in altri processi contro i notav, anche per la semplice presenza a una manifestazione in cui ci sono tensioni e senza che l’imputato abbia preso effettivamente parte a nessuna azione delittuosa, si viene condannati come partecipanti alle violenze.
Il “processone notav” torna ora quindi alla corte d’appello di Torino che dovrà valutare il comportamento delle forze dell’ordine. C’è però da dubitare seriamente che ci sia la volontà di agire in tal senso a Torino. Sulle varie violenze degli agenti durante la manifestazione, in effetti, già nel 2011 la magistratura reputò di non dover indagare in alcun modo al punto che fu il movimento notav ad organizzare una contro-inchiesta che aveva portato prove fotografiche inconfutabili di agenti che prendono a sassate i manifestanti, pestaggi contro gli attivisti, lacrimogeni sparati dai cavalcavia per ferire le persone (poi raccolte nel dossier “Operazione hunter: isoliamo i violenti” scaricabile a questo LINK). La sistematica archiviazione dei procedimenti contro le forze dell’ordine è stata poi anche oggetto di un documentario dal titolo Archiviato: dell’obbligatorietà dell’azione penale in Val di Susa.