di Livio Pepino – Per i movimenti impegnati sul terreno dei diritti sociali e della difesa del territorio ci sono, con riferimento al referendum del 4 dicembre sulle modifiche costituzionali, due domande ricorrenti: perché andare a votare? e perché votare No? La risposta è, per me, chiara: la vittoria del No non risolverà quei problemi sociali e ambientali, ma se mai dovesse vincere il Si essi si aggraveranno e, insieme, si ridurranno gli spazi per il dissenso e il conflitto.
Lo dicono i grandi poteri finanziari, come la banca di affari J. P. Morgan che un paio di anni fa ha scritto: «Le Costituzioni e i sistemi politici dei paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione. Questi sistemi mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori, diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. Questi punti deboli sono stati rivelati dalla crisi. Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche». E lo ha detto, con brutale chiarezza, oltre un decennio fa Gianfranco Miglio, il primo politologo che ha sollecitato una riforma costituzionale di maggioranza, come quella oggi sottoposta a referendum: «È sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze».
Certo, l’impostazione libertaria e ugualitaria della Costituzione del ’48 si è, in molta parte, persa per strada. L’impoverimento diffuso, la crescita delle differenze economiche, il tramonto dell’idea stessa di piena occupazione, l’abbattimento del welfare, la sostituzione dello Stato sociale con lo Stato penale, la subordinazione della politica all’economia e ai poteri forti interni e internazionali, in una parola le trasformazioni socioeconomiche degli ultimi decenni hanno, infatti, prodotto delle prassi politiche, una regolazione dei rapporti sociali e un assetto normativo sempre più lontani dal progetto scritto nella prima parte della Costituzione. Anche sul versante delle istituzioni e della rappresentanza il cambiamento è stato radicale: si è ribaltato il rapporto tra Parlamento e Governo, con assunzione, da parte di quest’ultimo di un ruolo di supremazia; l’adozione di leggi elettorali maggioritarie e la sottrazione ai cittadini della scelta dei rappresentanti (demandata alle burocrazie dei partiti) hanno intaccato la funzione rappresentativa del Parlamento; la decretazione d’urgenza del Governo è diventata regola; il presidente della Repubblica è prepotentemente entrato, durante la lunga presidenza di Giorgio Napolitano, nel circuito di governo con ripetuti e abnormi interventi sull’indirizzo politico e sulla composizione e durata dei governi. E tutto ciò ha inciso anche sulla cultura politica e sui comportamenti individuali e collettivi determinando un’ulteriore involuzione del sistema.
Ma la riforma costituzionale sottoposta a referendum, lungi dal cambiare rotta, completa e aggrava questo percorso. In essa infatti, aldilà delle operazioni di marketing, non ci sono elementi di discontinuità rispetto alla deriva centralizzatrice e autoritaria degli ultimi anni, che viene, al contrario, confermata e rafforzata attraverso la concentrazione del potere politico nelle mani del partito più votato (anche se, potenzialmente, minoritario nel Paese), la riduzione del Parlamento a organo prevalentemente di nominati e a sede di ratifica delle decisioni del Governo, il depotenziamento delle autonomie locali e degli organi di controllo e l’indebolimento degli istituti di democrazia diretta. Nulla di nuovo, dunque. Al contrario, una sorta di accanimento terapeutico a sostegno di una impostazione che ha prodotto, negli anni, una caduta verticale di credibilità del sistema politico e delle istituzioni e, con essa, la catastrofe economica in atto e la progressiva trasformazione dello Stato sociale in Stato penale.
La necessità di un profondo cambiamento per uscire dalla situazione attuale è, a dir poco, incontestabile. Ma con le “riforme” in discussione l’esigenza di cambiamento viene dirottata – capolavoro di illusionismo – sulle regole costituzionali ed elettorali anziché sulle prassi politiche, sulla cultura di governo, sulle politiche economiche, sul riconoscimento dei diritti sociali fondamentali di tutti e via elencando. Il gioco di prestigio (più propriamente, il raggiro) sta nel fingere che una diversa politica economica, sociale e finanche estera abbia come precondizione la riscrittura del quadro costituzionale. È vero, a ben guardare, il contrario: basti ricordare che l’aumento a dismisura del debito pubblico, l’impoverimento generalizzato e l’esplosione delle disuguaglianze sociali si sono dilatati a partire dagli anni Novanta, contemporaneamente all’affermarsi di una diversa costituzione materiale e del verbo della governabilità e del maggioritario.
È rispetto a tutto questo che occorre dare, sul piano elettorale oltre che attraverso le lotte sociali, un segnale di profonda discontinuità. E il referendum è l’occasione per farlo: con un forte No!
Livio Pepino