L’attenzione morbosa che in questo periodo si sta dando al fenomeno Sì Tav e in particolare alle 7 organizzatrici della manifestazione di sabato scorso mi hanno portato a fare queste riflessioni e fatto montare una certa rabbia. Lungi da me voler contrapporre due modi di “essere donna”, ma piuttosto la mia volontà cercare di sottolineare una certa incoerenza nell’accostamento tra il concetto Tav, e termini come gentilezza, garbo e pacatezza usati come attributi “femminili”.
Giornali, tribunali, polizia e politici più o meno direttamente hanno sempre parlato delle donne No Tav, nel modo più schifoso che io mai mi sarei potuta immaginare. Da quando ho sposato la causa No Tav (3 luglio 2011), ho sempre sentito, sui giornali così come nelle aule di tribunale (!!), che le donne venivano strumentalizzate dal movimento, messe in prima fila nelle manifestazioni e usate come scudi umani dai “violenti”. Così, totalmente incapaci di intendere e di volere, ma soprattutto di autodeterminare quello che vogliamo essere, hanno cercato di schiacciarci con la violenza, non solo fisica, ma anche psicologica e istituzionale.
Un esempio tra tanti, ma forse il più rappresentativo è stato il caso di Marta, attivista pisana che nel luglio 2013 durante una manifestazione in Clarea è stata presa e trascinata nel cantiere, picchiata e molestata. Ho assistito a centinaia di momenti in cui si è manifestato il sessismo delle forze dell’ordine (e quindi quello dello Stato), ma quello che è successo a lei e il suo coraggio nel denunciare l’accaduto hanno cambiato qualcosa in me e in tutte le donne che si battono contro la grande opera. Invece che essere terrorizzate, ci siamo unite intorno a questa nostra compagna, indignazione (quella vera!!) e rabbia ci hanno dato la forza per lottare ancora più determinate.
Ma come se non bastasse, l’attacco sessista e paternalistico è continuato nelle aule di tribunale. Per fare buon viso a cattivo gioco, a fianco all’assoluzione di Marta da tutti i capi d’imputazione che le venivano affibbiati per giustificare il suo arresto quella notte, la sua denuncia nei confronti dei poliziotti è stata archiviata. Un po’ come succede alle donne vittime di stalking o di violenza, che non vengono credute.
Qualche mese dopo, nell’ottobre del 2013, è stato approvato dall’allora governo Letta, un’accozzaglia “tecnica” di PD-PDL, il decreto sul Femminicidio. Gli stessi che sabato scorso sono scesi in piazza per dire sì al Tav e al progresso, hanno varato una legge che come unica formula usa la repressione contro una terribile realtà del nostro paese, quella che ogni anno vede centinaia di donne uccise da mariti, fidanzati, o più in generale, uomini.
Non entrando nel merito di quello che penso dell’efficacia e strumentalità di questa legge, è importante sottolineare che solo 5 dei 12 articoli riguardavano misure contro la violenza di genere. Gli altri 7 riguardavano più genericamente norme sulla regolamentazione poliziesca, della sicurezza, e il “controllo del territorio”. C’è addirittura un Capo II in materia di “NORME IN MATERIA DI SICUREZZA PER LO SVILUPPO, DI TUTELA DELL’ORDINE E DELLA SICUREZZA PUBBLICA E PER LA PREVENZIONE E IL CONTRASTO DI FENOMENI DI PARTICOLARE ALLARME SOCIALE”. All’interno di questo capo mai viene menzionata la violenza di genere, ma il riferimento al cantiere della Val Clarea e alla sua protezione, così come quello verso il movimento No Tav appaiono più che espliciti, anche se sottintesi.
Ed è così che ancora una volta la vita delle donne viene sacrificata sull’altare della pubblica sicurezza, dello SVILUPPO, rimarcando quello che il movimento ha sempre espresso: questo modello di “crescita” è marcio fino al midollo.
Per continuare la serie di sacrifici che sono stati compiuti sul corpo delle donne in favore del Tav, c’è la chiusura del Punto Nascite dell’Ospedale di Susa, datato 2015.
Per anni, parlando anche di redistribuzione dei fondi per il Tav, il tema della salute pubblica è stato una delle ragioni del No. Con la crisi economica moltissimi sono stati i tagli alla sanità e l’innalzamento dei costi ai servizi sanitari correlati, quindi anche la Val di Susa ne è rimasta vittima.
La popolazione segusina e valligiana si è messa come sempre in prima linea, fondando il ‘Comitato in difesa dell’ospedale di Susa’ , per evitare la chiusura del punto nascite, poiché tutto il territorio sarebbe rimasto sprovvisto di un servizio fondamentale che avrebbe costretto tutte le donne incinte, da Bardonecchia ad Avigliana, a rivolgersi all’ospedale di Rivoli o Torino (lontani anche 80km) per farsi seguire nel percorso che le avrebbe portate a mettere alla luce le proprie figlie e figli.
Purtroppo però in nome di regole e normative, l’assessore Saitta e il suo degno compare Chiamparino, hanno dato il via alla chiusura del reparto, di fatto penalizzando anche pediatria e ginecologia, lasciando sfornite tutte le donne della valle (anche quelle si Tav!) di servizi fondamentali per la cura della salute femminile.
Quello che proprio fa mal pensare rispetto a questa vicenda è che le stesse normative che hanno obbligato il Punto Nascite di Susa a chiudere, sono state derogate per gli ospedali di Borgosesia e Casale nel 2018, nonostante la giunta regionale non sia per nulla cambiata. Viene naturale chiedersi come mai proprio il territorio valsusino sia stato penalizzato in questo senso proprio da un giunta regionale PD, che invece a livello nazionale attraverso la ministra Lorenzin ha fatto tutta una vomitevole campagna sulla fertilità basata sulla “data di scadenza” dei nostri corpi.
Chiedetevi e fustigatevi poi del perchè del calo demografico, motivo per cui, secondo qualche genio, nella piazza si Tav non c’erano giovani.
In conclusione, il Tav sia a livello di personale per le attiviste, che a livello locale per le valsusine, che a livello nazionale attraverso il decreto femminicidio, non ha portato a nulla di buono per nessuna donna. È chiaro che dietro a parole d’affetto per la propria città, per il benessere del paese, e per lo sviluppo e la legalità, dietro ci siano storie di violenza, repressione, privazione e strumentalizzazione. Quello che succede in Valsusa, invece, è esattamente l’opposto: dietro ad una narrazione di violenza, chiusura mentale, arretratezza e decrescita, si nasconde (solo per chi non lo vuole vedere) il rispetto per la propria terra, la volontà e la determinazione di cambiare l’esistente, nonché lo spazio per autodeterminarci attraverso la lotta contro “non solo un treno”. E per questa lotta siamo state e siamo tutt’ora, determinare a rischiare tutto.
Non per odio, ma per amore.
Alice, notav