Ultima puntata di un racconto-inchiesta in tre parti. Questa è la prima parte e questa è la seconda.
Procurato allarme
Fu così che, con la pazienza dei forti e grazie all’intervento del Legal team, superammo il blocco illegittimo dei blu di Prussia. Rimontammo in groppa ai cavalli e, alla buon’ora, imboccammo via dell’Avanà. I succhi gastrici cantavano sotto le giacche, ma non era ancora tempo di mangiare: prima di andare alla Colombera, volevamo visitare la Maddalena, proprio la cascina sul ciglio del cantiere, quella che nel 2011 aveva dato il nome alla Libera repubblica.
Sotto il cielo appena screziato di cirri, pensavo al racconto che avrei scritto, e al libro che mi scorreva nelle dita e prendeva forma tra accidenti e false partenze, tenendomi compagnia da tre anni. Avevo già raccolto una quantità di materiali spropositata, sul confine dell’inassimilabile, eppure continuavo a intervistare, a leggere, a buttare giù appunti che poi infilavo nell’imbuto. Maurizio mi aveva affidato una grossa valigia marrone. Dentro, c’erano tutti i volantini prodotti dal movimento No Tav dal 1991 al 2014. Due grossi trolley avevano trasportato a casa mia tutte le annate della rivista Dialogo in valle, uscita dagli anni settanta ai novanta. Pagine affollate di avi, fratelli maggiori, prodromi del movimento. Erano così tante le cose da raccontare, e continuavano a succedere, ne accadevano ogni giorno, anche di esaltanti, di commoventi, fuori dei radar dei grandi mezzi di informazione, che si occupavano della lotta solo quand’era attivabile una precisa cornice di senso: “i violenti contro lo stato”.
Via dell’Avanà prendeva il nome da un vitigno autoctono, ma da quando c’erano il cantiere e la zona rossa, produrre vino era una fatica di Sisifo.
C’era una volta un’azienda vinicola, la cooperativa Clarea, che aveva i vigneti poco fuori Chiomonte e la cantina sociale alla Maddalena. Dava lavoro a tre famiglie e a una ventina di stagionali. Il 27 giugno 2011, senza alcun preavviso, i soci si erano ritrovati la cantina chiusa e l’area tutt’intorno cinta dal filo-rasoio. Uno di loro, Andrea Turio, aveva più volte raccontato la scena e spiegato i danni subiti: “Siamo rimasti scioccati dall’irruenza, dalla presa di possesso… Nel giro di due ore, per il nostro lavoro è cambiato tutto, eravamo spaesati e nessuno ci dava risposte. Da quel momento, ci è stata vietata la vendita diretta, prima i clienti venivano qui, assaggiavano…”.
Ben presto, la zona rossa aveva inglobato il 90 per cento dei terreni lavorati dalla cooperativa: “Subiamo controlli per accedere ai nostri stessi vigneti. Dobbiamo comunicare alla questura i nomi delle persone che vengono a fare la vendemmia. La prima volta, su quindici che dovevano vendemmiare, ci hanno detto che potevano entrare in tre, gli altri non erano autorizzati. Abbiamo dovuto aspettare ore prima che si sciogliesse la cosa, ore di lavoro buttate via!”.
“Loro il vino continuano a farlo”, mi aveva detto Abraracourcix. “Però quando la cantina era aperta, la domenica c’era la fila di macchine che andavano su a comprare. Adesso…”.
Alla Maddalena, dal 2004 al 2011, c’era anche il Museo archeologico di Chiomonte, coi reperti dell’insediamento tardoneolitico della val Clarea. Pure quello aveva chiuso i battenti. Ubi maior minor cessat, e tutto era minor al cospetto del monarca Tav. Del museo restava solo il sito web, che accoglieva i visitatori con l’annuncio:
“Il museo e il sito archeologico sono momentaneamente chiusi. Ci scusiamo per il disagio. Sarà nostra cura aggiornare il sito qualora vi fossero variazioni e novità”.
Novità non ce n’erano: il cantiere era lì per restare a lungo e il sito obsolesceva tristemente. Il link “Visite guidate e attività di laboratorio per le scuole con la guida di archeologi” non era più nemmeno cliccabile.
La zona della Maddalena era abitata già nel quinto millennio avanti Cristo. C’erano acqua, sole e terra fertile, ma era sempre stata una zona franosa. Gli insediamenti erano in ripari sotto roccia. Più o meno nella seconda età del ferro (quarto secolo avanti Cristo), una frana più grossa del solito aveva allontanato gli abitanti, ma i ripari erano stati usati fino all’ottocento, dai pastori della valle. Guardando intorno li potevi distinguere.
Il cantiere, dunque, ringhiava ai piedi di una grande “paleofrana” che ancora si muoveva, lenta, “quiescente”, in bilico sul mondo. Vagando sui crinali, lo sguardo isolava massi grigiazzurri, grandi trenta volte un menhir di Obelix. Sembravano guerrieri seminudi appostati tra le foglie, in attesa di calare sul nemico.
Qualcuno aveva segnalato il pericolo? Sì. Nel maggio 2013 le associazioni Legambiente e Pro Natura avevano presentato un esposto alle procure di Torino e di Roma. Lo avevano inviato, per conoscenza, anche al Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri, alla corte dei conti e all’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa). Nell’esposto facevano notare che Lyon-Turin Ferroviaire (Ltf) non aveva protetto il cantiere con le apposite reti paramassi.
Ltf aveva schernito l’esposto a mezzo stampa e affermato che le reti c’erano eccome. Mario Cavargna, presidente di Pro Natura Piemonte, e Fabio Dovana, presidente regionale di Legambiente, avevano replicato che quelle non erano protezioni antifrana, bensì “recinzioni precarie posate per ordine della prefettura di Torino, a garanzia dell’ordine pubblico. Recinzioni aventi caratteristiche tecniche assolutamente diverse e finalizzate ad altri scopi e di certo non funzionali alla sicurezza fisica dei lavoratori addetti al cantiere ed alla sua vigilanza”.
A breve giro, Ltf aveva montato le protezioni, a riprova – se ve ne fosse stato bisogno – che non si era provveduto prima. A quel punto si era mossa la procura di Torino, guidata da Gian Carlo Caselli. Per vederci chiaro nella vicenda? No, per denunciare Cavargna e Dovana! I due avevano “procurato allarme”, reato disciplinato dall’articolo 658 del codice penale, punibile con l’arresto fino a sei mesi o con un’ammenda fino a 516 euro.
La denuncia aveva sconcertato l’opinione pubblica della valle e il mondo dell’ecologismo piemontese. Pro Natura aveva evocato un precedente:
Cinquant’anni fa una grossa frana si staccò dal monte Toc precipitando nell’invaso del Vajont, con la conseguente tracimazione di acque che travolsero Longarone, Erto e Casso provocando quasi duemila morti. La giornalista dell’Unità [Tina Merlin, ndr] che aveva avuto il coraggio di preannunciare il pericolo fu accusata di ‘procurato allarme’, processata e poi assolta. Ma i duemila morti rimangono sulla coscienza di coloro che non ascoltarono l’allarme preventivo.
Il 18 maggio 2013, Cavargna e Dovana avevano segnalato un altro problema: la strada di collegamento da Giaglione a Chiomonte, costruita a servizio del cantiere, non era stata approvata dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) né figurava in alcun progetto esecutivo. Per asfaltare quella parte di pendio che scendeva a Chiomonte si erano abbattute più di seicento piante d’alto fusto. Un bosco annichilito dalle lame del cantiere, scomparso come plancton tra i fanoni di una megattera.
Nel dicembre 2013, dopo un sopralluogo insieme a tecnici e parlamentari, la Comunità montana valle Susa e val Sangone aveva deliberato che “gli esposti di ProNatura, Legambiente e [il parlamentare del Movimento 5 Stelle] Marco Scibona contro alcune carenze nel cantiere del Tav alla Maddalena, e sulla nuova strada da Chiomonte a Giaglione, sono fondati e non frutto di fantasie”.
Un gabinetto degno di questo nome
Finalmente, il pranzo del mercoledì alla Colombera.
Ci ristorammo col cibo, che era ottimo, e con le chiacchiere. Il luogo, nonostante la vicinanza del mostro, era bellissimo, ma la tristezza che mettevano le guardie… Appostate col gippone su una cavedagna, ci controllavano da lontano mentre mangiavamo, bevevamo, ridevamo… E così tornai a chiedermi: quanto costava tutto quell’apparato di [neolingua] sicurezza [/neolingua]?
Nel 2011 il segretario dell’Ugl polizia Luca Pantanella aveva dato una cifra: “Ogni giornata di vigilanza al cantiere costa al contribuente novantamila euro. Soltanto per le spese di vitto sono già stati spesi cinquecentomila euro. Sono spese che, con un’altra politica nei confronti della vicenda Tav, potrebbero essere ridotte o addirittura evitate completamente”.
E all’epoca il cantiere non era “sito di interesse strategico”, non c’erano ancora – per dirla col generale Claudio Graziano – i “quattrocento soldati… uomini di grande esperienza, che hanno prestato servizio all’estero, in Afghanistan, in altri scenari internazionali, alle prese con situazioni complesse e delicate”.
All’inizio del 2015, per il cantiere, il Cipe aveva stanziato 30 milioni di euro in più rispetto al preventivo dei lavori. Soldi extra interamente destinati alla sicurezza: filo-rasoio, luci per sbiancare la notte, cani da guardia elettronici, assistenza alle forze dell’ordine e altro.
La sicurezza sembrava essere il principale “indotto” del Tav. L’ingegner Vela me l’aveva detto, che ormai le grandi opere come la Torino-Lione difficilmente creavano posti di lavoro: “Mentre ai tempi del New Deal, ipotizzando a cento la spesa dei lavori pubblici, 80 andava a manodopera e materiali e 20 in tecnologia – forse anche meno, perché di tecnologia ce n’era poca –, oggi è esattamente il contrario: l’80 per cento è tecnologia, il resto manodopera e materiali. Quello che è sbandierato come volano per l’economia non può esserci: sono cambiati i tempi, le modalità”.
“Eppure dicono che crea lavoro…”.
“Questo puoi dirlo se metti mano ai tetti delle scuole, togli l’amianto, fai gli impianti elettrici, rifai le fognature o l’acquedotto in un centro urbano, quello sì. Lì c’è una componente di manodopera e materiali, perché anche i materiali sono manodopera, è tutta una catena. Ma se prendi una Talpa in Austria o in Norvegia e la piazzi in un cantiere, gli operai che si avvicenderanno a gestirla saranno venti, forse trenta.”
E nel cantiere che aria si respirava?
Da tempo il comitato Spinta dal Bass si era messo d’impegno a monitorare i dati sull’inquinamento dentro e intorno al cantiere. Periodicamente, recuperavano e pubblicavano rapporti sugli sforamenti nelle quantità di polvere, amianto, silice cristallina… Non era facile avere dati sui rilevamenti ambientali interni al cantiere, il Servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (Spresal) non li rendeva pubblici perché era in corso un’indagine coordinata dal pubblico ministero Raffaele Guariniello.
“I dati che spesso facciamo uscire”, mi aveva detto Simone, “riguardano perlopiù la centralina Arpa sul piazzale della Maddalena. Quella restituisce fino a un certo punto la condizione interna al cantiere, perché è posta più in alto, e il vento soffia spesso da monte. Per le polveri hanno avuto un inizio catastrofico, nel 2013 i valori erano spesso oltre i limiti, poi, anche in seguito alle campagne fatte da noi, a inizio 2014 le cose sono un po’ migliorate: hanno asfaltato tutte le piste, hanno cominciato a bagnare abbondantemente lo smarino che portavano fuori, a innaffiare le strade, a lavare le ruote…”.
Ergo, la situazione dei lavoratori del cantiere era migliorata grazie al lavoro d’inchiesta dei No Tav.
Nel luglio 2014 il segretario del Sindacato autonomo di polizia (Sap) Gianni Tonelli e il suo vice Massimo Montebove si erano recati al cantiere, per verificare le condizioni in cui toccava lavorare ai poliziotti. Al termine della visita, Tonelli aveva dichiarato: “I colleghi sono stati posizionati nella zona peggiore, in pieno cantiere e nel piazzale ove transitano e manovrano i mezzi d’opera in mezzo a rumore e polvere. Cifre iperboliche vengono spese per questa opera avveniristica, ma non si trovano quattro spiccioli per dare dignità alle nostre esigenze fisiologiche, fornendo un gabinetto degno di questo nome”.
Risposta a breve giro del direttore di Ltf Maurizio Bufalini: “I wc ci sono, il servizio di pulizia viene svolto e abbiamo sempre adempiuto alle richieste fatte dalla questura. Accetto poco la critica sulla sporcizia, perché così come nelle case private, molto dipende da chi usa i bagni”.
Traduzione: per Ltf non erano i bagni a essere sporchi, erano i poliziotti a essere degli zozzoni.
Montebove, via Twitter, aveva più volte attaccato i No Tav che andavano a “passeggiare” nei pressi del cantiere:
Mentre i #notav si divertono a passeggiare a Chiomonte, la gente muore perché non ha un lavoro o per colpa della crisi… #Stopsuicidi
Rieccoli i #notav. Dopo aver svernato al soldo di mamma e papi, tornano tra i boschi coi primi caldi. Soliti 4 gatti #nonaveteuncavolodafare
Ma chi è che di notte passeggia x la valle e alla gente per bene rompe le palle? Sono i #notav, è scontato: certa gente ha mai lavorato? 🙂
Eppure, era anche e soprattutto grazie alle “passeggiate” dei No Tav – alla costante opera di monitoraggio della situazione – che le condizioni di lavoro nel cantiere erano migliorate. Anche per i poliziotti che il Sap rappresentava.
Nei suoi tweet, Montebove andava ben oltre l’ingratitudine:
#ServizioPubblico bello vedere un programma dove gente senza cervello, dai #notav ai #nomuos, ha facoltà di dire cazzate. Viva la democrazia
#notav bisogna sciogliere il “movimento” come il partito fascista, è l’unico modo x fermare la deriva violenta ed eversiva #scioglierenotav
Se non si era proprio tentato di “sciogliere” il movimento No Tav, i tentativi di schiacciarlo non erano mancati.
La corsia preferenziale
Dal 2011, per fatti connessi alla lotta in val di Susa, la procura di Torino aveva inquisito un migliaio di manifestanti. Le condanne in primo grado erano state circa duecento. I processi ai No Tav – anche le udienze più insignificanti, anche quelle dov’erano imputati sindaci e assessori della valle – si tenevano nell’aula bunker del carcere delle Vallette, realizzata per ospitare processi di mafia o terrorismo. Dentro e fuori dell’aula, la presenza delle forze dell’ordine era vistosa, soverchiante. Il pubblico veniva fotografato e filmato con ostentazione da agenti in borghese. A volte la partecipazione da spettatore a un processo No Tav era finita in rapporti di polizia come esempio di condotta “sospetta”.
Spesso gli imputati venivano assolti, ma intanto le immagini dell’aula bunker erano passate in tv, dando l’idea che si stessero affrontando criminali pericolosi e pronti a tutto, gente da tenere in aula legata e con la mordacchia tipo Hannibal Lecter. E magari avevano processato Mauro Russo e Simona Pognant, ovvero i sindaci di Chianocco e Borgone, due delinquenti talmente incalliti da presentarsi al dibattimento con la fascia tricolore. Accusati di avere spintonato un poliziotto durante lo sgombero del presidio di Venaus, Russo e Pognant erano stati assolti “perché il fatto non sussiste”.
Le Vallette non erano solo un mesto contenitore di processi sovradimensionati: restavano una prigione, e i No Tav erano sottoposti con grande frequenza alla custodia in carcere. La procura non la intendeva come extrema ratio, ma come “minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato… consistenti e impellenti esigenze cautelari” (da un’ordinanza del 20 gennaio 2012).
Fino alla fine del 2015, dei processi contro i No Tav si era occupato un gruppo ad hoc di pubblici ministeri, un “pool” capeggiato da un duumvirato: Andrea Padalino e Antonio Rinaudo. Il pool istruiva i processi avviandoli – questa la critica degli avvocati difensori – lungo una sorta di corsia preferenziale: mentre i No Tav venivano rinviati a giudizio e processati in tempi rapidissimi, altre indagini si smarrivano nel grande nulla, specialmente quelle su reati commessi contro i No Tav.
Durante le manifestazioni o ai presidi, le forze dell’ordine avevano commesso numerose violenze ai danni dei manifestanti. Come si era comportata la procura in quelle occasioni?
Il Legal team rappresentava e tutelava, anche con denunce, esposti e altre iniziative, gli interessi di No Tav feriti e percossi dalle guardie. Molto spesso, la procura e il tribunale di Torino ignoravano le querele contro agenti, funzionari e dirigenti di polizia, oppure archiviavano i procedimenti con motivazioni [eufemismo] discutibili [/eufemismo]. Il tutto, nel silenzio dei grandi mezzi di informazione. A parlarne, erano quasi solo i siti del movimento.
Valentina Colletta, l’avvocata che ci aveva aiutati a superare il check-point, l’avevo conosciuta nell’autunno 2015. Un gruppo di avvocati e videomaker stava realizzando un documentario, per far conoscere un aspetto meno noto dell’assistenza legale ai No Tav, e volevano mostrarmi il montaggio provvisorio.
Il documentario – titolo di lavoro: Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in val di Susa – durava mezz’ora e metteva in sequenza diversi casi di reati non perseguiti. Una voce fuori campo accompagnava, spiegandone il contesto, episodi di violenza poliziesca che non avevo mai visto prima – immagini filmate che il team aveva allegato a esposti e querele – intervallate da didascalie come questa:
Chianocco, 29 febbraio 2012.
Fatti: percosse.
Lesioni: frattura scomposta al piede sinistro, due interventi chirurgici con applicazione di placche e viti. Prognosi: 14 per cento di inabilità permanente.
Procedimento: mai avviato
La visione era stata dura. Gli esempi erano, anche letteralmente, calci in faccia.
In val di Susa, il 2010 era stato “l’anno delle trivelle”. In diverse località, i sondaggi preliminari all’installazione del cantiere erano stati contestati con blocchi e presidi. Il 17 febbraio, a Coldimosso, le forze dell’ordine avevano caricato i presidianti, ferendone due in modo grave. A uno di loro, le manganellate in testa avevano provocato un’emorragia cerebrale, mandandolo all’ospedale con prognosi riservata. In teoria, la procura avrebbe dovuto perseguire d’ufficio il reato commesso, ma non era stata avviata alcuna indagine.
L’altro caso aveva uno strascico più tortuoso. Una manifestante già a terra era stata presa a calci e manganellate. L’avevano colpita anche al volto e le fratture delle ossa facciali avevano richiesto un intervento chirurgico. La donna aveva presentato querela, ma la procura aveva richiesto l’archiviazione, motivandola con l’impossibilità di identificare i poliziotti responsabili.
La No Tav non s’era persa d’animo: aveva richiesto che fossero interrogati i dirigenti presenti quel giorno, e contestato il modo in cui si erano fatte – o non fatte – le indagini, ovvero affidandole agli stessi organi di polizia coinvolti.
Il giudice, pur definendo “gravissime” e “inaccettabili” le violenze compiute dalle forze dell’ordine, si era rifiutato di sentire i dirigenti, sostenendo che questi ultimi, qualora avessero assistito alle violenze o addirittura vi avessero preso parte, certamente non l’avrebbero raccontato.
E così, di fronte al dovere di accertare se un testimone mentiva o nascondeva qualcosa, un giudice aveva trovato la soluzione più semplice: non ascoltiamolo! Semplice, no?
Sapevo già chi comandava le forze di polizia quel giorno a Coldimosso. Sapevo del suo cursus honorum. Eppure, nel ritrovare quel nome, una grandinata di ricordi si era abbattuta sulle pagine, ferendomi le mani.
Il vicequestore Spartaco Mortola.
Nel luglio 2001 dirigeva la Digos a Genova.
#JeSuisCompresseur
Alla fine del 2013, un compressore Atlas Copco XAHS 416 era diventato il mezzo meccanico più famoso d’Italia.
Andato a fuoco in una notte di maggio durante un attacco al cantiere, in altri tempi e luoghi il macchinario sarebbe stato un banale, freddo, inanimato oggetto del reato di danneggiamento, punibile con la reclusione fino a un anno e con una multa fino a 309 euro.
In altri tempi e luoghi, si diceva. Nella val di Susa del 2013, l’annerito compressore aveva subìto una metamorfosi: descritto ogni giorno quasi come un essere vivente o addirittura senziente, il mezzo da cantiere si era svegliato al mondo nel ruolo di Vittima Del Terrorismo.
Il 5 dicembre, quattro attivisti poco più che ventenni erano stati arrestati e condotti in carcere. Sui grandi mezzi di informazione erano divenuti all’istante “terroristi”. La procura di Torino aveva formulato l’accusa in base all’articolo 270 sexies del codice penale:
Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale […].
Quella definizione così vaga, quindi applicabile a una vasta gamma di azioni, risaliva a pochi anni prima: il ministro dell’interno del governo Berlusconi bis, Beppe Pisanu, l’aveva inserita nel “pacchetto sicurezza” del luglio 2005, sull’onda emotiva degli attentati nelle metropolitane di Madrid e Londra.
Nel capo d’imputazione dei quattro No Tav si leggeva che l’incendio del compressore intendeva arrecare
un grave danno al Paese quanto all’immagine – in ambito europeo – di partner affidabile, quanto a progettualità e capacità di sviluppo, quanto a coesione del Paese nel suo interno e tra le forze sociali, quanto a fiducia nel metodo democratico per la composizione dei conflitti, quanto a sicurezza della collettività, nei suoi vari livelli.
Gli obiettivi perseguiti, continuava la procura, erano “intimidire la popolazione valsusina” e “costringere i pubblici poteri ad astenersi [dal] realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione”.
Un gesto certamente illegale ma dimostrativo, avvenuto su piccola scala e senza causare danni a persone, veniva gonfiato fino a diventare non solo una grave onta per l’Italia “in ambito europeo”, ma il preludio dell’Armageddon.
Nella vicenda, tutto era fuori scala: gli arrestati rischiavano fino a trent’anni di prigione ed erano sottoposti al regime di detenzione Alta sicurezza As2: isolamento, colloqui e telefonate in numero ridotto, porta blindata sempre chiusa, niente tv né radio, posta filtrata…
Fuori scala anche la lista di parti offese indicate dai pm: in un crescendo da Barbiere di Siviglia (atto primo, scena ottava), partiva coi carabinieri di Sestriere e la polizia di Imperia, aumentava d’intensità con la guardia di finanza di Torino e il terzo reggimento alpini di Pinerolo, per arrivare al consiglio dei ministri e svariate altre istituzioni e corpi dello stato, con il gran finale dell’Unione europea. Nel processo contro i quattro, lo stato italiano si sarebbe costituito parte civile, mentre l’Unione europea avrebbe cortesemente declinato l’invito.
La popolazione valsusina, sulla carta “intimidita” dal compressoricidio, aveva espresso solidarietà ai quattro prigionieri, lanciando una campagna politica di portata nazionale, ricevendo il sostegno di artisti, intellettuali, parlamentari e anche magistrati.
Poi, tra il 2014 e il 2015, la cassazione aveva smontato l’impianto accusatorio di Padalino e Rinaudo. Lo aveva fatto in due diverse sentenze e usando frasi inequivoche. La suprema corte aveva parlato di una “sproporzione di scala tra i modesti danni materiali provocati, la cui riparazione avrà richiesto poche ore, e il macro evento di rischio cui la legge condiziona la nozione di terrorismo”, precisato che “l’equiparazione tra condotta illecita politicamente motivata e terrorismo è improponibile” e avvisato che “una dilatazione impropria della nozione di terrorismo rischia di condizionare meccanismi pienamente legittimi, sul piano costituzionale, di concorso nell’orientamento delle scelte politiche”.
Prima di queste decisioni della cassazione, il clima intorno ai No Tav era stato il più plumbeo dall’inizio della lotta. Mai, negli allora ventitré anni di vita del movimento, ci si era trovati di fronte a un simile – per usare un’espressione anni settanta – “innalzamento del livello dello scontro”. Eppure era stato in quei mesi che la vita, sotto lo strato di brina, aveva ricominciato a brulicare, e la cappa di nebbia a farsi meno pesante. Uno strano episodio aveva fatto da “valvola a disco”, regolando la pressione, allentandola quando tutto, ma proprio tutto, suggeriva che dovesse aumentare.
“C’è sempre un’ora zero”
Lo hanno aggredito sotto casa, quasi in centro a Torino. Strada residenziale, di negozi e palazzi. Erano in tre, avevano un cappuccio sul viso. Determinati. L’auto appena posteggiata. ‘Servo dei servi dei servi’ gli hanno urlato in faccia. E gli sono saltati addosso. Botte. Insulti. Poi, protetti dalla notte sono scappati, senza essere visti.
Era l’apertura in medias res di un articolo uscito su La Stampa del 12 aprile 2014. L’aggredito, indicato col solo nome di battesimo “Giuseppe”, era l’autista del pm Antonio Rinaudo. L’articolo proseguiva così:
Che la matrice dell’aggressione sia quella dell’antagonismo più violento, quello che ha a che fare con gli scontri in val di Susa, le proteste contro i Cie e via discorrendo non ci sono dubbi. Anzi. Se mai si volessero cercare conferme basta leggere qui le parole che hanno urlato gli aggressori a Giuseppe ‘Servo dei servi dei servi’, un leit motiv sentito troppe volte in passato.
Non c’erano dubbi.
Anzi.
La Stampa riportava anche le dichiarazioni dei due “Pm con l’elmetto”. Andrea Padalino stabiliva un collegamento diretto tra l’aggressione e la prima udienza del processo per il compressore: “Questa, ormai, è l’atmosfera che si respira. Stanno tentando di far vedere che ci sono, che esistono. Il 22 maggio si avvicina e quella è una data chiave”. Antonio Rinaudo si poneva una domanda e si dava la risposta: “Se è vero che non hanno mai aggredito le persone? Certo, ma c’è sempre un’ora zero. Un momento in cui accade qualcosa di diverso che cambia il corso della storia”.
Il coro di allarme e riprovazione aveva rischiato di sfondare i timpani ai No Tav. I social network si erano gonfiati di ingiurie e non c’era stato opinion leader nazionale che non avesse detto la propria sui giornali o in televisione, condannando i violenti, i nuovi terroristi, un movimento che da troppi anni teneva in scacco il paese eccetera. Gli editoriali fradici di sdegno e le interviste ai pm erano interamente scritti all’indicativo, il condizionale era messo al bando, il congiuntivo si guardava intorno sgomento. Su Twitter, il solito Montebove del Sap aveva scritto:
Solidarietà all’autista del p.m. Rinaudo, vittima del clima di violenza alimentato dall’ala dura #notav… Non ci fate paura, delinquenti!
I No Tav, “saldi sullo scoglio della parola ‘noi’ in un mare di fischi e indignazione” (Vladimir Majakovskij, Schiaffo al gusto del pubblico), avevano definito l’intera storia “una bufala”. Sul sito notav.info si era smontata frase per frase tutta la ricostruzione dell’agguato fatta da “Giuseppe”, rilevandone le numerose incongruenze.
Un mese dopo si era scoperto… cosa? Che i No Tav non c’entravano? Di più: che i No Tav avevano ragione. Il 15 maggio La Stampa aveva titolato: “L’ex autista del magistrato ha inventato l’aggressione No Tav. Indagato per simulazione di reato: troppe contraddizioni tra il racconto e i riscontri”. La foto di un’aula di tribunale vuota era accompagnata da una curiosa didascalia: “Tristezza in Tribunale per gli sviluppi dell’indagine per l’aggressione dell’ex autista”. Nell’articolo si poteva leggere:
Sono stati i pm e gli investigatori della Digos a nutrire i primi dubbi: non quadravano orari ed elementi, mancava persino una descrizione, anche sommaria, degli aggressori. E c’è il desiderio di aprire e poi chiudere subito questa pagina amara. Anarchici e No Tav non c’entrano niente. La ‘colpa’ forse è solo dello stress e della fatica di ogni giorno, impegnato com’era in turni massacranti della scorta del pm che aveva fiducia in lui.
Quando i No Tav erano diffamati e calunniati, la “pagina amara” andava chiusa subito. E con la “colpa” tra virgolette, sim sala bim, spariva il colpevole! Al massimo, c’era un “colpevole”. Nondimeno, in valle si era festeggiato, brindando al foro nell’ennesimo palloncino di accuse infondate, e all’aria che ne usciva fischiando.
Anche perché lo sgonfiarsi di quella storia aveva coinciso con il primo pronunciamento della cassazione contro l’uso della fattispecie “attentato terroristico”. E nel frattempo, il movimento aveva dato una prova di forza su un altro piano, lasciando la controparte sbigottita.
Tendere la mano
Poco tempo prima, il tribunale di Torino aveva condannato tre No Tav – uno dei quali era Abraracourcix – a pagare ben 214mila euro di danni a Ltf, per aver bloccato un sondaggio preliminare – indicato come S68 – su un terreno incolto presso l’autoporto di Susa. Era il “2010 delle trivelle”, quel giorno a bloccare i lavori erano accorsi duecento attivisti, ma solo tre di loro avrebbero dovuto pagare i danni. Era stata la prima di alcune maxiammende che avevano preoccupato gli attivisti. “È come se negli anni dopo l’autunno caldo, per ogni picchetto davanti a una fabbrica, il padrone avesse chiesto un risarcimento agli operai”, aveva detto qualcuno.
La via “pecuniaria” alla repressione era stata esaminata dal movimento in tutte le sue implicazioni. Ne avevo parlato con Maurizio Poletto, attivista No Tav e sindacalista Cgil a Bussoleno: “Moltissime persone, qui in valle, avevano messo in conto di poter finire in carcere, e per un periodo, sì, si poteva sopportare. Avevano messo in conto di respirarsi i gas, ma che la lotta possa far sequestrare la casa o il negozio è un salto di qualità. Noi comunque manteniamo il principio che ‘si parte e si torna insieme’, faremo le casse di resistenza, gli attivisti più esposti prenderanno precauzioni…”.
Ma quando il movimento aveva “teso la mano”, se l’era ritrovata piena di soldi. I valligiani avevano partecipato in massa alle feste e cene di autofinanziamento, e sul conto corrente postale aperto per l’occasione erano arrivate donazioni da tutta Italia: i primi centomila euro in meno di due settimane, il resto in uno sprint che aveva pochi precedenti, forse nessuno. I tre condannati avevano versato col sorriso sulle labbra la cifra che avrebbe dovuto schiacciarli a vita.
Nel gennaio 2016, pochi giorni prima del nostro arrivo in valle, la corte d’appello di Torino aveva dimezzato l’entità del risarcimento. Ora toccava a Ltf, nel frattempo diventata Tunnel Euralpin Lyon – Turin (Telt), restituire ai No Tav 110mila euro.
Il vento aveva fatto il suo giro.
Il giorno della marmotta di Matteo Renzi
C’erano così tante cose da raccontare, troppe per lo spazio di un reportage o qualunque cosa fosse: com’era proseguito il processo per il compressore dopo la crisi dell’impianto accusatorio, che ne era stato del compressore (lo si dava per guarito e rivenduto)… Ogni giorno, fuori del radar dei mezzi di informazione nazionali, in valle si facevano passeggiate notturne, attacchi al cantiere, nuovi esposti, contestazioni a politici. Il movimento presentava libri e film, organizzava escursioni, laboratori per bambini, corsi di cucina, lezioni di filosofia. Un nugolo di eventi che faceva – in tutti i sensi – massa critica, teneva vive e salde le relazioni, formava ed educava in un processo circolare dove tutti erano maestri e tutti allievi.
Quello era il problema che rendeva difficile scrivere il libro: tutti i giorni accadeva qualcosa, ed è difficile fare la storia del presente. Dove mi sarei dovuto fermare? Perché una linea dovevo pur tracciarla. Speravo che il racconto per Internazionale mi aiutasse a trovare il finale.
Dopo il ritorno a Bologna cominciai a montare gli appunti, mentre Michele selezionava le foto. Il materiale era copioso, l’urgenza di raccontare e disvelare e fare il bagno in quella storia era irresistibile, e presto il racconto o qualunque cosa fosse diventò una miniserie in tre puntate.
Quando fu annunciata per l’8 marzo una manifestazione a Venezia contro il vertice Renzi – Hollande, decisi che la terza puntata di Ovest sarebbe finita a nordest. Dalla Dora all’Adriatico. Mi sembrava appropriato, per le stesse ragioni che rendevano disdicevole organizzare a Venezia – pensata sempre e solo come cornice – un vertice dove si sarebbe parlato (anche) di Tav – oltreché di guerra, di politiche antimmigrazione e quant’altro – e si sarebbe firmato il solito “storico accordo” eccetera.
Venezia, con gli sperperi del Mose e gli arresti eccellenti, era la città-simbolo degli scandali sulle grandi opere. Non solo: era il luogo del movimento No Grandi Navi, che con piccole barche si contrapponeva a vere e proprie città galleggianti, alte settanta metri e pesanti duecentomila tonnellate, mostri che umiliavano Venezia e mettevano in pericolo la laguna.
Quante volte era stato firmato “lo storico accordo sul Tav tra Italia e Francia”?
Dal 1991 – vertice italofrancese di Viterbo – al 2015 i due paesi avevano già “ratificato” l’accordo una buona decina di volte, e ogni nuovo passaggio dal via era per i media un fatto epocale, una pietra militare, da qui si parte e non si torna più indietro. Leggere i titoli di giornale era straniante.
Nel 2001 dopo il vertice Amato-Chirac a Torino: “Amato e Chirac firmano la Torino – Lione”.
Nel 2012 dopo l’incontro Monti – Hollande a Lione: “TAV, Italia e Francia firmano l’accordo, la Torino – Lione si farà nei tempi previsti”.
Nel 2013 dopo il vertice Letta – Hollande a Roma: “Italia e Francia, la Tav tra Torino e Lione è una priorità”.
Nel 2015 dopo il vertice Renzi – Hollande a Parigi: “Non ci sono più ostacoli alla Torino – Lione, Renzi e Hollande hanno firmato l’accordo”.
Ogni volta era Ricomincio da capo, ma con personaggi più antipatici.
Mentre rimuginavo, mi venne in mente una presa di posizione di Renzi, contenuta nel suo libro del 2013 Oltre la rottamazione:
Altro luogo comune: per creare posti di lavoro è necessario inventarsi l’ennesima grande opera. Le grandi opere sono state utili, per carità, talvolta anche solo per il loro valore simbolico… Ma le grandi opere non sono né un bene né un male in sé. Dipende da dove sono, quanto costano, quanto servono… Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio: non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male. La Tav rischia di essere un investimento fuori scala e fuori tempo.
Quello del 2015-2016, invece, era il Renzi dello SbloccaItalia e delle ennesime “storiche firme” dei consueti “storici accordi” sulla Torino-Lione.
Non che avessi problemi di disillusione o volessi porre questioni di “coerenza”: dalla prima volta in vita mia che lo avevo sentito parlare, non avevo mai, dico mai, creduto a una sola esternazione uscita dalle labbra di quell’uomo.
A lui e al primo ministro francese, i movimenti contro le grandi opere inutili stavano preparando un’accoglienza degna di Venezia. Perché anche le cornici a volte si ribellano, e rifiutano di inquadrare certe scene.
Par tera e par mar
La mattina dell’8 marzo, io e Michele prendemmo un treno per Venezia.
Detta così è semplice. La sera prima mi era venuto un febbrone asinino, tremavo e battevo i denti come i martelletti di una macchina da scrivere. Mi rattoppai in qualche modo e, pieno di antipiretico, raggiunsi Michele alla stazione di Bologna.
Avvicinandoci al confine col Veneto, seguivamo su Twitter l’arrivo dei pullman No Tav partiti dalla valle la sera prima. Una foto mostrava i Pintoni vestiti da frati, in posa in un parcheggio. “Ora et sabota”, diceva la didascalia. Perfetto: nelle storie di Robin Hood c’era anche frate Tuck, e dava certe bastonate…
A Venezia ci accolse un tempo gelido e infame: il cielo era bianco metallizzato e il mondo intorno era pioggia fine, nebulizzata, incessante, spinta sotto i vestiti da spazzolate di vento improvvise. Di sicuro il mio stato di salute non sarebbe migliorato, ma il corteo per le calli e sui ponti valeva ogni pena. Le manifestazioni a Venezia erano sempre un’esperienza diversa: non un serpentone, ma una biscia magra e lunga di persone e bandiere. Nei passaggi dove la fila diventava indiana, chi aveva striscioni doveva ripiegarli o girarli di lato. Chiacchieravo con Ernesto Milanesi del manifesto e sentivo, sopra le nostre voci, altre voci crepitanti in megafoni, melodie che conoscevo ma che a Venezia suonavano nuove: “Laaavaalsuusapauranonnehà!”. Non eravamo tantissimi, forse poco più di cinquecento, qualcuno diceva mille, ma con noi c’era tanta altra gente, rimasta in valle o in città, ovunque vivesse, perché era un martedì mattina, giorno di lavoro.
Se la scelta di Venezia per il vertice era stata cartolinesca, nulla più della reiterazione di un cliché, vedevo la contestazione come un esempio – il mio amico Mariano sarebbe stato d’accordo – di Magic Experience Design. Venezia non era una cornice ma una città viva: non eravamo nella zona rossa militarizzata ma nel dedalo di calli di Dorsoduro, tra negozi e bar aperti, voci amplificate raccontavano di una città sempre più minacciata da interventi invasivi, disegnavano archi che partivano da lì e arrivavano in val di Susa, al Brennero, ovunque vi fosse una lotta contro una grande opera, e si parlava dei migranti sgomberati a Calais, di trivellazioni nei mari italiani e dell’imminente guerra in Libia, e il corteo era par tera e par mar, nel rio accanto a noi procedeva sull’acqua scura una decina di barche affollate con le bandiere No Tav e No Grandi Navi. A bordo c’erano anche anziani valsusini che non erano mai stati su una barca in vita loro, si stringevano nelle giacche per il freddo ma avevano occhi dilatati dallo stupore e dalla gioia di esserci.
La battaglia navale scoppiò poco dopo mezzogiorno. Ci stavamo muovendo verso Punta della Dogana, e le barche stavano ormai toccando il limite della zona rossa. Da un battello della polizia, le guardie cominciarono a sparare con l’idrante – un atto delinquenziale, in una giornata gelida come quella. Roba da causare decine di polmoniti. Altre guardie con le moto d’acqua tipo Baywatch speronavano le barche o “facevano l’onda” per bagnare gli attivisti. “Una versione acquatica della Clarea!”, esclamò alle mie spalle una voce femminile con accento piemontese. Dalla riva il corteo cominciò a lanciare improperi sui poliziotti, tutti presi nelle loro esibizioni muscolari. Una guardia era talmente dimentica del mondo attorno, legge di gravità compresa, che finì per cadere in acqua. “Non preoccuparti, galleggi!”, gli urlò qualcuno. “Anégate!”, gli gridò un altro, contraddicendo il primo. Dall’acqua del canale si alzava la tromba rossa di un fumogeno da stadio caduto di mano a qualcuno durante uno speronamento. “A sarà düra!”, si udiva dalle barche. Una guardia si avvicinò con la moto alla riva, guardandoci in pescecagnesco. Dall’amplificazione gli arrivò un benvenuto: “Finalmente diamo un senso alla tua vita, fallito!”.
Io una scena così non l’avevo mai vista, figurarsi quei No Tav che non erano mai stati in barca e debuttavano con una battaglia degna di François l’Olonese, re dei bucanieri. Qualcuno aveva già mandato in rete brevi video, sui social si faceva il tifo per i “pirati della laguna”. “Si può dire tutto dei compagni veneti”, disse qualcuno, “ma non che non sappiano allestire uno spettacolo!” Magic Experience Design. Michele scattava foto, cercando di proteggere la macchina dalla pioggia con quello che chiamava “il preservativo”, una busta di nylon picchiettata di gocce come un fiore mutante coperto di rugiada.
Poi si entrò in una fase di stallo e fronteggiamento che durò almeno un’ora: noi a terra e i pirati in mare. Io avevo i piedi ghiacciati e il vento riusciva a entrarmi sotto il cappello, passando per chissà dove. Sentivo che stava tornando la febbre.
Intanto, lo avrei saputo dopo, François Hollande dichiarava: “La Tav Torino-Lione è un tema che anima i vertici franco-italiani da una ventina d’anni. Matteo può essere quello che ha messo fine a tutte le discussioni propedeutiche a questi lavori. Comunque questo progetto diventa realtà”.
Un tizio accanto a me aveva sulla schiena un cartello scritto in finto francese:
“Matteo Renzi fait un pompidou à Hollande avec le mal de gaulle”.
Mi consultai con Michele, e decidemmo di rientrare.
Era quello il finale che cercavo?
“Deve avere i puntini”
L’ingegner Vela mi aveva detto: “Il tuo libro non può finire, deve per forza avere i puntini”.
“Ma devo capire qual è l’ultima cosa che scrivo prima dei puntini”.
“Non è semplice, perché è strano. È strano che la gente da vent’anni con alti e bassi si opponga. È strano che la protesta non sia limitata a quattro proprietari di casa. È strano che ci sia l’ambiente universitario e scientifico contrario. È strano che chi è contrario sia la gente informata e chi è favorevole sia la gente che ragiona per slogan. Di solito è chi è contrario a ragionare per slogan, e invece… ‘Ce lo chiede l’Europa’, ‘Saremmo tagliati fuori dai traffici…’”.
“Un’apertura psicologica all’Europa…”.
“’Dobbiamo trasferire da gomma a rotaia…’. È il Deus vult di Pietro l’eremita. Mentre io posso argomentare su un discorso dei traffici, il rumore, le polveri…”.
“Hai mai parlato delle motivazioni coi tuoi colleghi che la progettano?”.
“Sì, mi han detto che non sta in piedi. Tutte le volte che abbiamo affrontato il discorso se abbia una giustificazione, la risposta è stata che no, non ce l’ha”.
Dalla penultima volta che ero stato in valle, ogni tanto mi sorprendevo a canticchiare una delle canzoni di culto di Spinta dal Bass, Ti ho visto in piazza dei Truzzi Broders. Era una molto rimpianta band torinese degli anni ottanta, anch’io la ricordavo con affetto dai tempi in cui trasmettevo da una radio libera di Bologna.
E questa è una canzone senza finale come senza fine è il nostro sbatterci, il nostro vivere, il nostro amare.
Vivere, come un vortice di lavandino, come la fiamma di un cerino, che si consuma e a poco a poco poi scompare.
Vivere, come in un nido di serpenti, con le unghie e con i denti, aggrapparsi alla vita
per non farla più scappare,
per non farla più scappare,
per non farla più scappare.
Ultima puntata di un racconto-inchiesta in tre parti. Questa è la prima parte e questa è la seconda.