da LaRepubblica.it L’attivista No Tav racconta le fasi immediatamente precedenti l’incidente spiega perché è salito lassù sfidando l’alta tensione e che cosa è successo:”Nessuno ha dato l’ordine di inseguirmi sul traliccio. Io anarchico? Non amo le etichette, ne ho troppe”
di LUCA RASTELLO
Comincia con un telefono che squilla al buio, quel lunedì quasi fatale: «Mi avvisavano dello sgombero iniziato alla Clarea», racconta Luca Abbà, destinato quel giorno a una fama di cui avrebbe fatto a meno volentieri, di cui farebbe a meno anche adesso. Qualche volta trema e gli si arrossano gli occhi pensando al buio che ha
appena attraversato.
Dopo un coma profondo e 109 giorni di degenza mostra i segni di una commozione confusa, come di chi è tornato alla vita e sa esserne riconoscente. Offre una bottiglia di nebbiolo e supera l’impasse. 37 anni, militante convinto ma militante per caso del movimento contro il Tav, ha accettato di raccontare la mattina in cui un volo da dieci metri di altezza, nel luogo dove ora sorge il cantiere per il tunnel di servizio all’alta velocità, ha cambiato la sua vita.
“Non è che tenterà di farmi passare per un simbolo o per un portavoce, vero?”
Per carità… Si sa che i movimenti con i portavoce alla fine perdono…
“Già, già…”. Ride e riprende il racconto: “Corro su attraverso i boschi, perché so che le strade sono presidiate. Arrivo appena dopo le otto: un mare di poliziotti, scavatori, gente che si affanna a stendere i recinti jersey, e i dodici-quindici compagni che dormivano nella baita in stato di fermo. Non mi nota nessuno, ma devo decidere in pochi secondi: se mi vedono finisco come gli altri. Vedo il traliccio, forse posso creare un po’ di intoppo”.
C’era violenza
nell’aria?
“Non direi, c’era una sensazione di gran fretta, davano l’impressione di voler concludere qualcosa al più presto. E infatti non passano più di due o tre minuti da quando mi sono arrampicato – avevo preso il telefono per chiamare Radio Black Out – che già un uomo sta scalando il traliccio sotto di me”.
Un agente?
“Aveva la cuffia azzurra, ma non era in divisa. Sembrava un rocciatore in tenuta sportiva. Senza nulla per mettersi in sicurezza”.
Le avevano intimato di scendere?
“No, tutto è stato rapidissimo, non c’è stato approccio né trattativa. Quello è partito da solo. L’impressione che ho avuto è che fosse una sua iniziativa, quasi istintiva”.
Insomma che non siano arrivati ordini dall’alto.
“Esatto”.
E poi?
“E poi mi sono spaventato e sono salito fino alla cima, dove ci sono i fili. Ricordo bene di non averli toccati, e infatti sono vivo, ma mi hanno spiegato che un corpo vivente, pieno d’acqua, attira la corrente: sono finito nel campo elettrico. Ho preso la scarica e sono volato”.
È stato soccorso?
“Sì, l’ho visto nei filmati. C’è un
agente, forse lo stesso che è salito, che cerca di prendermi in braccio. Ma quel che fa impressione è che i lavori non si fermano neanche per un istante. Io sono lì, steso a terra e intorno si finisce in tutta fretta di stendere la rete”.
Un errore che non è stato ripetuto la domenica successiva, quando sul traliccio è salito Turi Vaccaro.
“Ha prevalso la logica della sicurezza: hanno staccato la corrente e messo materassi anticaduta. Tengo a far notare che Turi ha potuto salire perché il traliccio è fuori dall’area “di interesse nazionale” del cantiere”.
Lei non è nuovo a gesti clamoro-si: nel 2005 a Venaus tentò di fermare le ruspe appendendosi alla griglia del presidio che veniva smantellato…
(Ride) “Sì, ricordo la fifa, i sassi e il terriccio che scivolavano via da sotto i piedi. Ma non cerco emozioni: sono gesti che nascono da una voglia che è cresciuta insieme a questo movimento, e fanno parte della gratitudine che provo per le gioie che mi ha dato. Quel che conta non sono le manifestazioni, ma quello che voi quasi mai raccontate: la vecchietta che esce con il caffè o che cucina o che ci porta i guanti del figlio operaio, i pensionati che volantinano o i ragazzi che la mattina vanno in fabbrica e passano la notte in macchina a far le vedette in caso di cariche improvvise… “.
Come ha incrociato il movimento?
“Sono vissuto a Torino per 23 anni, ho partecipato ai movimenti studenteschi, poi nel ’99 ho realizzato il sogno di tornare alla terra di famiglia quassù in valle. A Torino avevo conosciuto Sole e Baleno (i giovani anarchici indotti al suicidio nel 1998 da accuse che si mostrarono inconsistenti,
ndr.) e sapevo della lotta contro la Tav”.
Fu un trauma il ritorno alla campagna?
“Diciamo un’evoluzione, non senza qualche fatica. Ma già da adolescente sapevo che sarei tornato lì. Mi occupai dei castagni e della vigna di mio nonno, coltivai le zucche e a poco a poco mi convinsi che potevo vivere di quell’attività. Potevo far combaciare le mie convinzioni con la vita pratica di tutti i giorni. Rispetto la terra, mi sembra un modo per mantenersi coerenti, pur con tutti i compromessi del quotidiano “.
Si considera un anarchico?
“Non amo le etichette, ne ho ricevute troppe di recente. Cerco di oppormi a un mondo usa e getta, a un modello di consumo a dismisura che finisce per divorare le vite e la dignità delle persone. È qualcosa che va al di là di un semplice treno”.
Ha qualcosa da dire al movimento?
“Non ne ho titolo, posso solo esprimere una speranza: che riusciamo a mettere in pratica le tante belle cose che in questi anni ci siamo detti, nei forum e nelle chiacchiere ai bivacchi, sui cambiamenti nella vita pratica di ognuno. Vorrei che trovassimo il coraggio di vincere la routine, credo che serva a poco parlare di altri mondi possibili senza prima sbarazzarsi degli automatismi che questo mondo già impone. Forse si può dire che un modo diverso di vivere è già possibile, anche se non è ancora consentito”.