Questa mattina nel corridoio della sezione, prima di scendere all’aria, ho visto dalla finestra dei detenuti che giocavano nel campo da calcio, che si sgranchivano le gambe accarezzati da un bel venticello. Porca vacca quanto avrei voluto stare in mezzo a loro. Dalla cella li sento ancora esultare ad ogni goal e mi godrei almeno la partita dagli spalti se non avessi questo cavolo di plexiglass opaco davanti alla finestra… so che questo è uno dei particolari che ha fatto più scalpore di questa Alta Sicurezza.
Anche se con tutti gli altri detenuti non ci possiamo incontrare, se molti abbassano la testa quando per sbaglio li incrociamo mentre siamo diretti alla sala avvocati, se ci vedono come degli alieni e le uniche cose che sanno di noi gliele dicono le guardie o le infamità dei giornali, so che molti di loro condividono quello stesso formicolio alle gambe che ci prende appena alzati e si quieta solo con la sera.
Qui dentro vivo una doppia tensione: da un lato la calma, lo spirito disteso con cui affrontare le giornate e attutire le eventuali brutte notizie che mi strizzano sempre più (una lettera censurata, delle domandine completamente ignorate, ecc…), dall’altro mi sento scalpitare, penso se sia possibile prendersi degli spicchi di spazio in più per decongestionarsi o semplicemente per vivere più umanamente.
Un mio amico rinchiuso ad Ivrea una volta mi ha scritto “alla fine sono tutti carceri, non c’è uno meglio dell’altro” e, ripensando alla mia permanenza alle Vallette, non ha tutti i torti. Questa cosa in un certo senso mi rinvigorisce perché anche se io sono in un regime separato, vuol dire che alla base abbiamo gli stessi bisogni. Ad esempio, qui la socialità si fa in corridoio sotto le telecamere con le celle chiuse, ma sarebbe molto importante mangiare assieme, tra le cazzate di uno e le risa dell’altro; in un’altra sezione vorranno le celle aperte tutto il giorno, qualcuno il sopravvitto meno caro, qualcun altro vorrà usare di più la palestra (se ce n’è una) e qualcuno vorrà semplicemente tutto… ecco che ritorna costantemente quel formicolio.
Una volta gli scienziati della politica ci tenevano a dire che i detenuti erano tutti uguali e trattati come tali, adesso dicono che ognuno è diverso dall’altro e che può essere migliore e usufruire di vari benefici. In questa scaletta a chiocciola dove ogni detenuto si avvita sulle ginocchia nel tentativo di raggiungere l’ultimo gradino, io penso che gli estremi si tocchino: da un lato quelli in regime speciale, con più restrizioni e molti occhi addosso, dall’altro i più comuni tra i comuni, quelli buttati nei giudiziari stracolmi di gente che non se li caga nessuno.
Per noi è la legge stessa a dire che non possiamo godere di alcun permesso o privilegio, qualsiasi cambiamento della condizione di vita qua dentro sarebbe troppo “pericoloso”. Per gli altri è la macina della galera, incessante e monotona, che semplicemente guarda le infinite richieste e passa avanti. Molti di loro vengono da contesti di strada e non hanno un sostegno fuori, altri sono addirittura una grossa spesa per le proprie famiglie già in difficoltà.
Anche i Tribunali in realtà non fanno una gran differenza. Certo, su di noi spendono tante parole e un mucchio di udienze perché il reato fa audience con quella parolina magica appioppata sopra: “terrorismo”. Ma cosa dire di tutti quelli che si possono permettere solo un avvocato d’ufficio, che a volte manco si presenta alla convalida oppure suggerisce solo di patteggiare, causando così delle condanne pesantissime?
Entrambi veniamo usati per dare l’esempio in modo tale che si diffonda a tutti i livelli e mantenga quel grado di soggezione costante verso la diffusione della ribellione e di una illegalità sempre più legata alla sopravvivenza quotidiana. “Venire usato” , forse è questa la sensazione più forte che respiri quando entri nel circolo della giustizia, dalla questura (anzi dalla volante che ti porta via in manette), alla cella.
Anche quando parlano di “svuotare le carceri” per i politici è tutta una questione di calcoli e giochetti economici, per cui il punto non è solo chi far uscire e chi tenere, ma anche chi far entrare di nuovo. Ad esempio: hanno abolito la Fini-Giovanardi sulle droghe, per cui è come dire che oltre a far uscire detenuti dovrebbero guardare con un altro occhio il reato di spaccio, tuttavia è fresca la notizia di due maxi retate come non si vedevano da un po’ in un quartiere di Torino per arrestare piccoli spacciatori e clandestini. San Salvario era una zona popolare e adesso vogliono metterla a nuovo per metterci della gente che sia in grado di sostenere una vita medio alta, così da arricchire i proprietari di case, supermercati, ecc.. a discapito dei vecchi abitanti impoveriti e allontanati. Io non dico che lo spaccio sia buono o cattivo, non mi interessa, ma di sicuro quei ragazzi sono l’ultima ruota del carro, lavorano in strada, non si possono permettere un affitto oppure, come un mio amico anche lui arrestato in grande stile, sono costretti a lavorare, a scaricare bancali 8/10 ore al giorno per 20/30 euro, e nemmeno tutti i giorni. Nei suoi occhi e in quelli di molti ragazzi come lui che ho rivisto anche in galera, è come se si leggesse una semplice domanda “aspettare… cosa?! … perché?!”. Allora si arrabbiano e agiscono con vigore ma impulsivamente, spesso vengono puniti o messi in isolamento e imparano sulla loro pelle l’urgenza di trovare un po’ di complici, di comunicare, di unirsi.
Va detto che noi, arrestati per la lotta NO TAV, siamo un po’ viziati dal sostegno, dall’affetto e dalla solidarietà , non solo degli amici più vicini, ma di una marea di persone diverse e variegate che grida per la nostra libertà, rispedisce al mittente questa repressione continuando a creare svariati problemi.
Dirò, però, che la cosa più forte è questo sentimento di venire coinvolti: in galera tutto si gioca sulla ripetizione, sulla percezione che nulla possa essere diverso, come fuori dal tempo e dallo spazio, ma questa, per quanto maledettamente efficace, è un’illusione. Quelle persone là fuori mi aiutano a spezzare l’incantesimo perché mi raccontano di come cambia il loro mondo, soprattutto di come sono loro stessi a modificarlo. Le cose vanno avanti e non per questo devo starci male, meglio gioire e soffrire assieme che cercare di rimanere in una bolla e sperare che tutto passi nel modo più indolore. La galera ti segna, ti solca come uno scalpello sottile e imperterrito, soprattutto quando non te ne accorgi e pensi di stare in pace perché hai preso le distanze da tutto e da tutti.
Sta tornando l’idea e la sensazione, parlando con molti, che la miseria qua dentro, privati di tutto, non sia così diversa da quella fuori; ma c’è chi ragiona, giorno per giorno e con tutti i rischi che corre, su come poter usare al meglio il tempo libero che gli rimane tra le mani – anche perché ha perso il lavoro e non entra più in un negozio, non va più al cinema, a stento si ritrova al bar per permettersi un caffè – per cercare altri come lui e non dipendere più dalle regole del gioco. Io penso a tutti loro e mi dico: “Dovrò pur fare la mia parte, fosse anche solo un modo per resistere e uscirne a testa alta, davanti ai “fratelli” di oggi e di domani.
Niccolò, Casa Circondariale di Alessandria, 2 aprile 2014