di Tommaso Cerno – L’Espresso –
I Lince dell’esercito in pattuglia giorno e notte. I muri di cemento e le reti di filo spinato ovunque. Le garitte che segnano i limiti invalicabili. Una tensione pazzesca nell’aria. Ma come siamo arrivati a questo punto?
Non vedi le betoniere. E nemmeno le gru con il becco d’acciaio puntato verso il cielo. No, il cantiere della Tav a Susa è un campo di guerra nel cuore di una verde vallata. I Lince dell’esercito sono di corveé giorno e notte. Più sotto la polizia, in assetto antisommossa, controlla ogni squarcio del perimetro. Una sessantina di agenti in divisa stanno a guardia di un fazzoletto di terra, largo 7 ettari, dove si scava senza sosta il tunnel dell’Alta velocità. Altrettanti sono pronti a dare il cambio. Altri ancora sono in missione nel bosco. E ancora fuori dalle reti. E sul lato ovest. Nei ristoranti di Susa mangiano ogni giorno un migliaio di poliziotti e carabinieri. Sembra una città occupata. Una base militare, protetta da sbarre di tre metri e filo spinato, come se Susa fosse volata dal Moncenisio a Baghdad, come un piccolo Afganistan in terra di Barolo.
Per salire fin quassù, a Chiomonte, alle pendici della Maddalena, il navigatore consiglia di uscire a Susa. Ma chi cerca la Tav resterà deluso. Troppo pericoloso. Troppo prevedibile. E così, come in un film di spionaggio, l’ingresso del cantiere più militarizzato d’Italia è stato spostato verso la Francia, dove nemmeno te lo immagini. Devi seguire l’autostrada del Frejus fino al bosco di Salbertrand, almeno 25 chilometri più a Nord. E lì, a pochi passi da Oulx, invertire la marcia puntando a Sud. Fino a un cancello d’acciaio, nascosto dietro una curva dell’autostrada. Dove è vietato accostare. Vietato scendere. Vietato sostare.
Una garitta presidiata segna il limite invalicabile. Per loro, è lo Stato che comincia. Per i No Tav è il segno che lo Stato, con quella vallata, ha chiuso da tempo. Fuori dalle reti restano le ferite della lotta. Centinaia di lacrimogeni esplosi sono sparsi dappertutto. Ai confini del bosco, dove un tempo c’era il prato verde di val Clarea, si scorge ancora qualche casa di legno sugli alberi. Da lì i No Tav vigilavano sulle loro terre. Ma ormai, fra quei rami, non ci sale più nessuno. Troppe telecamere. Troppi controlli. E luci da stadio che illuminano a giorno i pini e i cespugli per scongiurare le “battiture”. Quando di notte, scendendo silenziosi lungo i sentieri secolari del bosco, i No Tav accerchiano il cantiere di Susa. E grattano con i sassi sulle reti per spaventare la polizia.
Ecco che qui i controlli sono diventati più serrati. Nessuno passa senza autorizzazione. E, una volta dentro, c’è un secondo controllo. Stavolta è la Digos, in borghese, a chiedere i documenti. «Quattro occhi sono meglio di due», se la ride un militare.
Chi si aspetta una cava nella stretta gola della Val Clarea si sbaglia di grosso. Là sotto tutto funziona come in una catena di montaggio di Mirafiori. Ogni uomo, ogni mezzo si sposta in un’area precisa. Nessuno sta dove non deve stare. Ogni movimento del cantiere è coordinato con gli altri.
Il tunnel sta sotto il cavalcavia della A38, un mostro costruito negli anni Novanta, e sospeso su otto pilastri di cemento armato alti quasi cento metri. Lì gli uomini guidati dal commissario Mario Virano hanno appena finito di installare la grande “talpa” meccanica che scaverà, a colpi di venti metri al giorno, fino nel cuore della montagna. È il canale esplorativo della Clarea, il corridoio che corre perpendicolare al tunnel principale della Tav, l’ultimo tassello – secondo lo Stato – per garantire che l’opera si farà.
La grande talpa fa quasi paura. Protetta da un hangar che si allunga, man mano che gli operai montano i pezzi. È come un serpente d’acciaio, con la testa rotante. È alta sei metri e mezzo e larga altrettanto. È capace di inghiottire due tonnellate di roccia ogni quarto d’ora. I sui denti sono trentatré lame rotanti d’acciaio, che girano a tutta velocità. Per gli ingegneri quella è una “Tbm”, che in inglese significa Tunnel Boring Machine. Ma qui tutti la chiamano talpa, dagli ingegneri che l’hanno finita di saldare alle 17.15 del 16 settembre, fino ai No Tav più irriducibili, che contro quel serpente lungo 240 metri hanno alzato le loro bandiere. «Il primo componente della fresa è arrivato in cantiere il 4 agosto», rivela Virano. Attorno a lui una trentina di operai completano gli ultimi collaudi. «In valle c’era una grande mobilitazione, e c’era il rischio di qualche azione di sabotaggio. Così la data è stata tenuta segreta. Abbiamo aspettato che i No Tav indicessero una grande assemblea e, quando erano tutti raccolti a discutere, abbiamo spostato il trasporto eccezionale che conteneva la testa della fresa. Sono state ore di grande tensione, poi, quando il convoglio scortato ha fatto ingresso nel cantiere, abbiamo capito che un grande passo avanti era stato compiuto».
Ogni lama rotante è stata fissata e provata singolarmente. Ogni bullone è stato avvitato e monitorato con il laser. La pompa a olio che muove il grande pistone, su cui come una larva gigante striscia la talpa meccanica per farsi largo nella montagna, sarebbe capace di trainare da sola due Boeing 747 o di spostare una nave come la Costa Concordia. «Una volta entrata nel tunnel esplorativo, che è lungo 203 metri, la talpa cambierà sistema di scavo e si aggrapperà alla roccia con dei bracci laterali, muovendosi come un lombrico», spiega Virano. Dalla cabina di comando, in funzione 24 ore su 24, un raggio laser traccia la direzione dello scavo e, grazie a un computer, a ogni minima oscillazione della testa rotante, la macchina provvederà a correggere la direzione, per non sbagliare nemmeno di un centimetro la perforazione sotterranea.
Ma Lince e forze dell’ordine non controllano solo quel bestione d’acciaio. No, lo scavo da solo non servirebbe. Sempre il 16 agosto, in coincidenza con l’accensione della talpa, un’altra fresa, molto più piccola, aveva appena finito di scavare un altro tunnel. Minuscolo rispetto a quello della Tav, ma strategico. Una perforazione di 240 metri, larga appena 70 centimetri, che corre nel ventre della montagna, fino alla Dora Riparia, il fiume che scorre in Val di Susa. Un canale artificiale, senza il quale non sarebbe possibile scavare la grande montagna. «I nostri studi geologici ci dicono che, da quando la talpa comincerà a penetrare negli strati di roccia più duri, avremo una fuoriuscita d’acqua di circa 300 litri al minuto. Si tratta di una portata enorme, paragonabile a quella di un piccolo fiume», spiega un ingegnere. Ecco che per rendere possibile lo scavo, quell’acqua deve essere convogliata da qualche parte. E, per far questo, nel cantiere di sette ettari sotto il viadotto della A38 è stato costruito un grande impianto di depurazione. Una volta che l’acqua sarà stata ripulita dai sedimenti rocciosi, sarà rilasciata nel torrente Dora, attraverso il mini-tunnel scavato nella montagna. A pochi passi, invece, una decina di trivelle alte più di 30 metri lavorano senza sosta. Bucano il pendio della collina, dove gli escavatori hanno aperto il varco per i camion. E così i No Tav e il Movimento 5 Stelle hanno lanciato l’allarme. E si sono rivolti alla Procura della Repubblica di Torino per chiedere indagini approfondite su quello strano scavo. Virano sorride. È abituato alle polemiche da quando siede sulla poltrona più alta del commissariato per la Torino-Lione. «Questo cantiere è all’avanguardia in quanto a procedure e misure di sicurezza. Sarà preso a modello in tutta Europa per le opere future», ribatte. Poi svela il mistero di quegli scavi in profondità. «Le trivelle iniettano a una pressione altissima un liquido a circa 30 metri di profondità. Quel liquido, insieme al terreno, che in questa parte della montagna è molto friabile, creano una superficie solida che rende la terra dura come la roccia». In questo modo, a lavoro finito, la collina scavata dalle ruspe potrà essere ricostruita. Con un pendio artificiale di oltre 30 metri di altezza. «Senza quelle perforazioni, correvamo il rischio che il peso dei sedimenti spostasse i piloni dell’autostrada. Per questo stiamo rinforzando il terreno».