Le parole sulla carcerazione di Nicoletta Dosio del Procuratore generale della Repubblica di Torino, che ha evidentemente ritenuto di dover replicare alle molte critiche e proteste contro questo provvedimento nei confronti di una ex professoressa, devono spingere a una riflessione.
In primo luogo, ciò che il Procuratore non pare voler cogliere è il significato profondo della scelta della prof. Dosio. Decidere di non chiedere nulla, affermare che non si è disponibili a essere carcerieri di se stessi, è la scelta consapevole di una donna che ha spiegato che non aveva nulla per cui doversi “riabilitare”. La Dosio è stata condannata a un anno per violenza privata e interruzione di pubblico servizio in concorso con altri perché aveva tenuto uno striscione, al bordo dell’autostrada, nel corso di una manifestazione No Tav. Una condotta che giustificava, secondo la Procura, una pena di ben tre anni (chiesti in primo grado dal pm), e che ha condotto alla condanna a un anno di carcere.
Non stupisce, dunque, che alcuni non vogliano cogliere il senso di estrema dignità e coerenza della decisione di non utilizzare quelle pur sacrosante misure alternative alla detenzione. Nulla ritiene di avere la Dosio per cui doversi rieducare, e nulla ritiene di aver fatto per aver “meritato” un anno di carcere. Nulla ha dunque da chiedere alla clemenza del sovrano, e altro non può fare che subire quello che le viene imposto. Quel che piuttosto con la sua scelta di coerenza e dignità la Dosio ha voluto scoprire e denunciare, facendo del suo corpo detenuto un’arma non violenta, è l’uso, anzi l’abuso, del sistema repressivo penale utilizzato contro il movimento No Tav in particolare, e contro tutti i movimenti che esprimono istanze di dissenso e conflitto sociale. Decine di processi, centinaia di indagati e condannati, misure di prevenzione, fogli di via sono l’unico modo che lo Stato ha trovato per rispondere alla protesta (a volte violenta certo, ma più spesso pacifica e non violenta) dei No Tav, e sono spesso l’unico modo che lo Stato trova per rispondere al conflitto sociale. Conflitto che, è bene precisare subito, non è antitetico alla democrazia, ma ne è anzi elemento essenziale di vitalità. E allora Nicoletta Dosio non aveva altra scelta che rifiutarsi di chiedere scusa e non fuggire dal carcere nel quale ingiustamente la si è voluta rinchiudere.
Risposta repressiva, si diceva, dello Stato: quando una manifestazione viene contrastata e repressa con lacrimogeni e manganelli, quando le persone vengono arrestate, processate e condannate per aver manifestato, è lo Stato che sta lanciando lacrimogeni, che sta manganellando, che sta arrestando, processando, condannando. E quando queste sono le uniche risposte che lo Stato è un grado di mettere in campo contro il conflitto sociale e il dissenso, come nel caso del movimento No Tav, allora a entrare in crisi è la tenuta del sistema democratico.
Certo, si può obiettare che un giudice ha valutato che quelle condotte costituiscono reato, e che quindi ha condannato i suoi autori seguendo una procedura garantita dalla legge. Formalmente tutto vero: il problema è che perseguire una determinata condotta è spesso frutto di una scelta di politica giudiziaria, frutto di attività interpretativa non sempre e non solo tecnica: si noti che per i reati per i quali la Dosio è stata condannata la legge prevede una pena minima di quindici giorni. Decidere di condannare a un anno ha quindi un preciso significato ed è solo l’ultima di una serie di valutazioni fondamentalmente politiche. Le sbarre che dal 30 dicembre circondano il corpo di Nicoletta Dosio ci impongono, quindi, di prendere atto che tutto ciò deve preoccuparci, interrogandoci su questa discrezionale giustizializzazione contro quello che si considera non coerente con l’“ordine costituito.
Gianluca Vitale (avvocato presso il foro di Torino e co-presidente dell’ass. Legal Team)
da FQ 03/01/2019