da Effimera – Oltre 25 anni or sono, nel giugno del 1990, il Tribunale penale di Milano ebbe ad occuparsi del centro sociale Leoncavallo, che un anno prima (il 16 agosto 1989) si era opposto allo sgombero resistendo alla polizia, anche con sassi e bottiglie molotov.
A rappresentare l’accusa venne destinato Francesco Greco, allora piuttosto giovane e ora giunto alla carica di procuratore capo; subì il contrasto fra il sentimento progressista (di cui non aveva mai fatto mistero) e gli obblighi connessi alla sua funzione. Chiese 13 condanne e 11 assoluzioni, vagliando le carte processuali e valutando ogni singola effettiva partecipazione.
Presiedeva il Collegio giudicante uno dei magistrati più severi e inflessibili, il dottor Renato Caccamo: era un uomo d’ordine, irrogava pene elevate e l’essere amante della musica classica (alla biblioteca della Scala troverete le preziose partiture donate tramite i suoi eredi) non lo frenava certo nel momento della sanzione. Volle vedere i luoghi, capire chi erano i protagonisti della vicenda, entrare nello spirito della storia. I difensori (fra loro Giuliano Pisapia) non si sentirono per nulla tranquillizzati da questo, ma non arretrarono di un centimetro.
La sentenza fu certamente di condanna, ma con il riconoscimento dell’attenuante prevista dall’art. 61 n. 1 del codice penale: letteralmente avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale. Le accuse erano gravi; la scelta processuale consentì di evitare ai giovani manifestanti il carcere. Dovrebbe ben rammentare il caso l’allora PM milanese Armando Spataro. Come opportunamente ha ricordato Livio Pepino l’intervento giudiziario presenta sempre ampi margini di discrezionalità, cioè di scelta. La scelta dell’inflessibile dottor Renato Cacciamo fu quella di non ignorare l’impegno civile e sociale di chi violava le norme per difendere i valori del Centro Leoncavallo e di riconoscere conseguentemente una sorta di onore delle armi al reo; era la sua maniera di rendere concreta la concezione che egli aveva di un uomo d’ordine, ovvero sanzionare ma al tempo stesso comprendere.
La sentenza che ha preteso di punire Roberta Chiroli e il commento della procura piemontese che l’accompagna (con evidente intento adesivo) sono figlie di un’altra cultura politica e giuridica; l’idea forza che fonda l’intero ragionare è quella di punire senza esitazione, di non tollerare, di imporre la forza della stato (che è cosa diversa, non necessariamente coincidente) come unica maniera di regolamentazione dei rapporti sociali. Non è soltanto una singola decisione sostanzialmente assurda e tecnicamente errata (èanche questo, come vedremo, il che è già grave); è il segnale di voler imporre mediante un uso davvero anomalo dello strumento giudiziario una propria concezione del mondo, intervenendo come soggetto protagonista dentro il conflitto e contro il movimento antagonista.
Ed è questa (non altra) la ragione del comunicato congiunto rilasciato dai dirigenti della procura torinese: il procuratore distrettuale Francesco Saluzzo, il procuratore capo Armando Spataro e il coordinatore aggiunto (terrorismo e riciclaggio) Alberto Perduca (ovvero il diretto superiore del pubblico ministero Antonio Rinaudo).
È una scelta di natura (non solo tecnico giudiziaria, ma anche) politica, a partire da una premessa che mostra la profonda incomprensione degli avvenimenti e delle vicende, concretandosi in un errore che (se non corretto subito, come sarebbe auspicabile) non potrà non generare danni e lesioni difficilmente prevedibili nella loro complessità. La scelta che si coglie nel comunicato è quella di rappresentare l’unità dell’ufficio in tutte le sue articolazioni, senza comprendere che la critica alla sentenza Chiroli non riguardava affatto il ruolo delle procure e tanto meno (come accade nel caso dei processi di corruzione) aveva come obiettivo la delegittimazione della magistratura in quanto tale. Ma schierando (senza averne peraltro il diritto, non è questa la funzione dei tre dirigenti firmatari) l’intero ufficio distrettuale di Torino contro il movimento di opposizione alla TAV si finisce con aprire un conflitto pericoloso, utile soltanto a quelle che scherzosamente (quando i compagni conoscevano l’ironia) chiamavamo f.o.d.r.i.a. (Forse Oscure Della Reazione In Agguato).
Francesco Saluzzo (conservatore) era stato sconfitto da Armando Spataro (progressista non radicale) in occasione della nomina a procuratore capo di Torino; per bilanciare il peso delle correnti due anni dopo ottenne dal CSM la nomina a procuratore generale piemontese. Alberto Perduca (per cinque anni, 2008-2013, a capo di Eulex in Kossovo) è a capo del pool specializzato nel trattare reati di riciclaggio, usura e terrorismo; il pubblico ministero del processo a Roberta Chiroli, Antonio Rinaudo, dipende direttamente da lui. Il comunicato congiunto è figlio postumo di una simile condivisione, quella avvenuta prima fra il progressista Giancarlo Caselli e il conservatore Marcello Maddalena (per 15 anni ai vertici della procura piemontese, fino al recente pensionamento, sostituito in continuità da Francesco Saluzzo). Marcello Maddalena (sostenuto da Caselli con argomentazioni simili a quelle odierne di Armando Spataro) volle (da ultimo davanti alla Corte d’Appello di Torino, pochi giorni prima della pensione, con testardaggine e insensibile al buon senso) classificare nel filone eversivo e terroristico i processi legati alla contestazione della TAV, convinto ( e si sbagliava di grosso) che avrebbe bastonato alcuni per educare tutti, riportando la calma in valle.
Ancora una volta dipinge bene il quadro Livio Pepino, che è stato un magistrato valoroso e leale con le istituzioni di cui era/è parte (noi non siamo istituzione, guardiamo le cose dal punto di vista precario, siamo altro), e non esita a classificare come ostinazione la scelta di assegnare al pool di terrorismo ogni episodio che in qualsiasi modo sia riconducibile al movimento No Tav. Vale la pena di ricordare che Livio Pepino e Alberto Perduca (oggi fra loro in palese motivato dissenso tecnico politico) furono un tempo entrambi destinatari di una procedura a carattere disciplinare per avere difeso il dottor Guariniello; non è, dottor Perduca, il caso di riflettere circa la bontà della via intrapresa?
La classificazione dei singoli reati nell’ambito dell’eversione e del terrorismo non è un problema solo nominalistico e neppure si limita alla formulazione di accuse che poi sono comunque oggetto di processo. La questione è più complessa. L’assegnazione al coordinamento che tratta l’eversione comporta l’assegnazione automatica sempre agli stessi pubblici ministeri di tutti i processi aperti a carico dei militanti di movimento, cancellando il meccanismo ordinario. Questa è una scelta a nostro avviso errata che lascia intravedere una volontà esclusivamente repressiva; restaurare la normalità delle assegnazioni sarebbe un primo segnale di reale equidistanza e di indipendenza. Non pensano i tre firmatari di rendere cattivo servizio al loro ufficio perseverando nell’assegnare, contro ogni automatismo e dunque per scelta, i processi ai No Tav al dottor Rinaudo, che ne sta facendo ormai una questione personale scontrandosi con la cultura europea (caso Erri De Luca) e con la ricerca universitaria (insorta, giustamente, a fronte del caso Chiroli)? Soprattutto laddove si consideri che il dottor Rinaudo è certamente almeno commensale abituale della figlia Beatrice, esponente di Fratelli d’Italia e nemica giurata del movimento (espressamente anche difendendo nei comizi l’operato del padre); non è (lo diciamo subito) un caso diincompatibilità tale da giustificare una formale ricusazione, ma certamente si tratta di ipotesi che dovrebbe indurre l’interessato (con il consiglio dei superiori) all’opportunità in concreto di astenersi laddove (come nel caso Chiroli) si finisca con il dover trattare insieme i fatti con le opinioni.
I tre firmatari lamentano che il movimento No Tav finisca con l’essere indebolito, delegittimato perché identificabile nelle violenze illegali che tollera. Ma dove vivono? Nelle elezioni comunali i pro tav non hanno perso solo a Susa (il che è già significativo) ma perfino nella piazzaforte di Torino, ove il mitico Esposito (una sorta di mullah Omar alla guida spirituale dell’Alta Velocità) e il filiforme Fassino sono stati travolti dall’onda lunga di Chiara Appendino (aperta oppositrice della TAV). Nel territorio l’opposizione alla TAV costituisce la maggioranza (numerica e politica) della popolazione; pretendere di ricondurre il fenomeno antagonista a un problema di ordine pubblico (o peggio di appiattirlo come eversione terroristica e delitto comune) denota una miopia davvero preoccupante.
Livio Pepino ha chiarito che i processati erano ben 987 al 31.12.2013 (un numero enorme in pochi chilometri quadrati); se ne aggiungono 183 negli ultimi 12 mesi, e sono pure tantissimi, altro che supposta crescente severità! Per giunta lascia di stucco leggere che i reati commessi dai gendarmi esistono, ma che le archiviazioni erano d’obbligo per l’impossibilità di trovare i colpevoli. Stiamo scherzando? Esistono filmati per ogni respiro dei manifestanti e non è dato sapere come si muova la polizia? Ove non si trattasse di omertà (e lo speriamo) siamo di fronte ad una conclamata incapacità che impone un intervento correttivo tale da restituire efficienza.
La sentenza
Lamentano i tre procuratori che la critica sia stata mossa prima ancora di poter leggere le motivazioni. Ma il dispositivo (con la parziale assoluzione) e la requisitoria del dottor Rinaudo consentivano (diciamocelo!) a tutti gli addetti ai lavori una previsione non azzardata. Infatti (senza cogliere l’opportunità generosamente offerta dai firmatari dell’appello) il dottor Roberto Ruscello non ha provveduto a mettere idonee toppe (dove le ha messe erano anzi peggiori del buco) e ha mantenuto la rotta verso gli scogli, per andare a sbattere. Ci ricorda il dottor Ruscello quanto scriveva Ungaretti in Allegria di naufragi (1916): lasciatemi così/ come una/ cosa/ posata/ in un/ angolo/ e dimenticata.
La coppia di magistrati non era alla prima esperienza sul tema. Il dottor Rinaudo aveva ottenuto dal dottor Ruscello il rinvio a giudizio dello scrittore Erri De Luca accusato diistigare la popolazione alla rivolta violenta, di aderire al sovvertimento dell’ordine pubblico scrivendo un pubblico elogio. Gli scrittori lo fanno da sempre e da sempre trovano qualche funzionario che se ne duole; dunque Erri De Luca si è trovato come il topo in mezzo al cacio, dentro un processo che è sfociato in una ragionevole (prudente, bilanciata, sabaudamente attenta) assoluzione, salvandosi così grazie a quella decisione l’immagine delle nostre istituzioni e contenendo il ridicolo al solo ambito soggettivo di chi quel processo aveva preteso (Rinaudo) e di chi l’aveva concesso (Ruscello). Non era bastato, i due cercavano evidentemente la rivincita. L’occasione si è presentata grazie alla scelta del rito abbreviato da parte di tre imputati (Rufino, Maltese e Roberta Chiroli) la cui estraneità ai fatti emergeva (almeno ad avviso dei loro difensori) con chiarezza. Di che si trattava? Il 14 giugno 2013 (tre anni addietro) un gruppo di manifestanti (capo B) aveva sporcato di vernice alcuni automezzi di un’impresa (Itinera, il dottor Rinaudo, mostrando scarsa dimestichezza con la terminologia civilistica, la definisce impropriamente ditta nel capo d’imputazione; il dottor Ruscello non sente il bisogno di intervenire); per poterlo fare erano entrati nello spazio privato della società, invadendolo arbitrariamente (capo A, in numero superiore a 10, aggravante); avevano poi impedito (capo C) a due carabinieri di intervenire a protezione della ditta (di nuovo il capo di imputazione insiste nell’utilizzo di terminologia inappropriata, l’avesse fatto al concorso per magistrati erano guai!) e impedito all’autista Manti (capo D) di entrare in cantiere (violenza privata aggravata dal capo A). Seguite bene lo schema dell’accusa: la sentenza invece, nella parte motiva, ci si perde come in un labirinto.
Il pubblico ministero ha chiesto sei mesi per tutti e tre, ritenendoli colpevoli per tutti i 4 capi di imputazione; il giudicante lo ha seguito solo in piccola parte, cadendo in contraddizioni insanabili per via di un ragionamento logico giuridico ancora più insostenibile di quello che aveva portato al processo Erri De Luca.
La sentenza motiva innanzitutto l’assoluzione di Giovanni Rufino, affermando che non vi era nessun elemento che potesse in qualche modo giustificare l’accusa mossa. Rimane da chiedersi per quale ragione il dottor Rinaudo abbia chiesto sei mesi di carcere, visto che nulla sorreggeva un concorso morale o materiale. L’impianto accusatorio non ne esce molto bene, in questo primo esame, e viene da domandarsi quale sia stato il filtro usato per le indagini, visto che nessuno ha compreso le ragioni in fatto del pubblico ministero (quello che, come nelle conversazioni al bar Sport, definisce ditta le società per azioni).
Il prosieguo della motivazione è quasi imbarazzante. Con molta disinvoltura si ammette che, per carenza del dono di ubiquità, sia Chiroli sia Maltese non potevano avere partecipato al blocco dei due carabinieri (capo C), e ancora una volta la requisitoria del pubblico ministero si rivela incomprensibile (leggiamo: sfornita di qualsiasi principio di prova). Quanto al capo A (occupazione del piazzale ove erano collocati i mezzi di Itinera) il Tribunale riconosce che nulla consentiva di imputare alle due ricercatrici un concorso nel colorare i mezzi con vernice spray. Erano entrate al seguito dei manifestanti, ma senza partecipare. Ma se l’occupazione era funzionale alla verniciatura, come regge poi la condanna di Chiroli per occupazione e l’assoluzione invece per lo scopo del reato (scopo necessario in motivazione alla sua stessa sussistenza)?
Maltese viene poi assolta in quanto osservatrice: si trovava al di fuori della sede stradale e appariva nelle immagini in qualche misura decentrata rispetto ai manifestanti che reggevano uno striscione (ma che diavolo voglia dire tutto ciò rimane un mistero: uno striscione o si regge o non si regge, non esiste in natura una misura di decentramento!). In realtà il dottor Ruscello introduce, motivando l’assoluzione di Franca Maltese, una sua curiosissima interpretazione della ricerca universitaria (ma il principio vale per la cronaca giornalistica, a ben vedere) ai fini della valutazione di un concorso nel reato. E rileva: non sono stati raccolti elementi indicativi di una sua esplicita adesione alle condotte di protesta. Si consideri il vocabolario: il giudice non usa partecipazione ma adesione alle condotte di protesta poi sfociate nel commettere i reati in esame. In mancanza di esplicita adesione Franca maltese viene assolta quale mera osservatrice (anche questo rilievo è un piccolo capolavoro, eredità del diritto criminale staliniano e delle pronunzie che fondavano la destinazione correttiva al gulag sulle dichiarazioni dei soggetti incriminati e non soltanto sui loro comportamenti esecutivi). L’osservazione dei due comportamenti non presenta differenze. Ma Roberta Chiroli viene condannata quale concorrente morale. E su quali basi? Afferma il Tribunale: ha certamente aderito in termini espliciti sia all’ingresso all’interno di Itinera s.p.a. sia al blocco attuato in danno di Manti Pasquale e ha fornito un apprezzabile contenuto causale quanto meno sotto il profilo morale rispetto alla commissione di entrambe le fattispecie di reato. Notiamo tuttavia come l’estensore (suggestionato esclusivamente dal testo della ricerca) abbia finito con il perdere il filo del ragionamento. Roberta Chiroli era stata sopra assolta dal capo relativo all’ingresso nel piazzale; il capo B riguardava le scritte sui mezzi, ma la motivazione non ne fa cenno e la sentenza appare completamente immotivata sul punto. Ancora più incomprensibile si rivela l’imputazione di avere bloccato l’ingresso del camion condotto dal signor Manti (avvenuto all’esterno, per impedirgli di raggiungere l’interno). Intanto manca totalmente un capo d’imputazione relativo ad un preteso blocco stradale (340 codice penale, almeno in ipotesi astratta); soprattutto manca il riferimento al ruolo esecutivo di Roberta Chiroli nell’arresto del veicolo al momento dell’ingresso nel piazzale.
Non corrisponde al vero, dunque, quanto affermano nel comunicato i tre procuratori, nel vano tentativo di rendere meno sorprendenti l’indifendibile verdetto del dottor Ruscello e l’altrettanto indifendibile requisitoria (per 10/12 peraltro disattesa in sentenza) del dottor Rinaudo. La decisione non contiene infatti, ove si prescinda dalla tesi di laurea di Roberta Chiroli (da lei prodotta in giudizio a propria difesa), alcuna valutazione di altre condotte materiali e di altre fonti di prova. Nulla di nulla. Solo la tesi usata per dar sostegno ad una serie di supposizioni prive di diverso riscontro.
Il dottor Ruscello scrive (rovesciando i principi che reggono la ripartizione dell’onere probatorio): la stessa Chiroli non ha fornito alcuna spiegazione alternativa alle espressioni di tenore autoaccusatoria (sic, ma lo diamo buono, si tratta di evidente errore nella stesura)da lei stessa adottate, si segnala che alle pagine 130 e seguenti dell’elaborato l’imputata ha ripercorso la sua partecipazione all’azione dimostrativa organizzata il 14 giugno 2013.Segue la citazione, senza tener in alcun conto il significato tecnico-scientifico che l’autrice dava al proprio elaborato (l’opera viene separata da chi la scrive).
Il dottor Ruscello neppure coglie una curiosa commistione in poche righe, fra prima e terza persona plurale, che caratterizza il testo: ci siamo diretti verso la stazione … gli attivisti si sono disposti davanti … e gridavano slogans … abbiamo interrotto il blocco del traffico. I termini non sono affatto chiari come pretende l’estensore, e per giunta riguardano un episodio diverso che, attenzione!, non era neppure oggetto del processo (ovvero quello che Roberta Chiroli, ricercatrice e non magistrato inquirente, definisce blocco stradale seguita a ruota dal confuso naufrago dottor Ruscello). Ma non è questo il punto centrale.
Il punto è che proprio la motivazione della sentenza conferma i timori dei numerosi firmatari dell’appello. Si chiede quale sia la spiegazione alternativa di Roberta Chiroli. Ci si consenta di rimanere allibiti. La spiegazione l’hanno fornita centinaia di studiosi, di ricercatori, di docenti. Che mai farebbe il dottor Ruscello di fronte a un corrispondente di guerra che scriva il resoconto della battaglia? Quello che ha sostenuto in sentenza, equiparando i ricercatori ai ribelli? Ovvero: condotte la cui efficacia è strettamente dipendente dall’effettiva presenza fisica di un numero elevato di persone, numero che la Chiroli ha concorso a formare. Via, dottor Ruscello, se il concorso consistesse nel far numero avrebbe dovuto condannare pure gli agenti di polizia e i carabinieri!
Non era sufficiente la pretesa di voler processare e condannare Erri De Luca e non è servita di lezione la lesione inferta all’immagine del nostro paese. Con questa decisione il medesimo giudicante che aveva disposto il processo allo scrittore e il medesimo pubblico ministero che l’aveva sollecitata alzano l’assicella della repressione: dalla richiesta di sanzione all’artista che fece proprie le rivendicazioni di una popolazione in lotta contro l’arroganza del potere si passa alla condanna di chiunque faccia dello scontro in atto materia di ricerca e al tempo stesso rifiuti l’auto da fe. Si tratta di sacrosanta critica sociale, tecnica, giuridica. E magari sarebbe ora di prendere atto di quello che il popolo della Val di Susa rivendica: ponendo fine al cantiere e varando un provvedimento parlamentare che chiuda anche questa infelice stagione dei processi.
Mentre ragionavo su queste note stavo leggendo l’ultimo volume delle opere di Ellemire Zolla, uscito a maggio per i tipi di Marsilio; nella parte chiamata Aure questo straordinario piemontese descrive il suo incontro, nel canavese, con un anziano Monsignore dalla chioma candida ondulata, le mani in mezziguanti neri. Costui descriveva la storia dell’ottocento come un vasto melodramma in cui l’abiezione trionfava. E ricordava con malinconica passione la gloria della vecchia cultura savoiarda dei De Maistre il cui ricordo era stato represso dal trionfo del male. Joseph de Maistre (un reazionario suggestivo e geniale, simile per certi versi al Mario Tronti di oggi, pur se ancora più potente nello stile) notava: difficile est mutare in melius. E il fratello Xavier de Maistre (altro reazionario di talento) osservava che ogni male proviene dall’uscire dalla propria stanza. Così citando i suoi maestri il sacerdote si rivolgeva all’incuriosito professor Zolla pronunciando per lui un’omelia apocalittica che diffondeva l’aura soave e malinconica della Restaurazione. Avevamo esordito ricordando il dottor Caccamo; troviamo ora in questo volume una considerazione profonda e utile: senza volere Monsignore mi aveva insegnato che con la verità storica possiamo permetterci di tutto, come capocomici che rimaneggiano i loro canovacci. In qualsiasi versione degli eventi occorre saper entrare e poi saperne uscire. Mai più avrei preso a cuore idee sulla storia. Ero libero.
Il vecchio magistrato in pensione, Marcello Maddalena, è un convinto conservatore battagliero, come il Monsignore del canavese. Vede nella rivolta popolare contro la TAV il male, si scatena in omelie apocalittiche evocando il terrorismo, diffonde aura di restaurazione, rimaneggia la storia. Il dottor Ruscello e il dottor Rinaudo sono i suoi seguaci (temo di minor spessore).
Torniamo a noi. Aggiungiamo un punto all’appello originario: Saluzzo, Spataro e Perduca, ascoltate Livio Pepino che vi vuol bene, invertite la rotta, evitate il naufragio (Ungaretti:lontano lontano/ come un cieco/ m’hanno portato per mano).