[Fra i tanti comunicati contro la retata che ha condotto all’imprigionamento di 26 militanti NO TAV, e a indagini o arresti domiciliari ai danni di tanti altri, scegliamo di pubblicare quello della Rete TimeOut Bologna, denominazione che raggruppa studenti, precari, lavoratori, militanti dei centri sociali. Da notare la sempiterna presenza, al comando dell’operazione, del procuratore Giancarlo Caselli, ormai specialista in “ratonnades”. Fu incredibile la violenza con cui cercò di reprimere il movimento “No Gelmini”. Il perché lo ha spiegato lui stesso a Rai News 24: “Non bisogna abbassare la guardia”. Di qui l’arresto di un tale quasi settantenne perché mezzo brigatista quarant’anni fa, di un tal altro perché figlio di brigatisti, di un terzo ancora perché fondatore di un centro sociale. Sembra “Il deserto dei Tartari” di Buzzati. Caselli sta di vedetta in attesa di un ritorno dei fantasmi che fecero la sua gloria. Non sarà deluso del tutto: tornano, sì, ma non sono fantasmi, e non sono gli stessi. Rifletteremo su questi temi in maniera più ampia. Accontentatevi dell’ anteprima.] (Valerio Evangelisti – Carmilla Online)
Finché il bosco continuerà a camminare non saremo contaminati dalla paura.
Apprendiamo dai giornali che è stato un risveglio difficile per il popolo No Tav, fatto di arresti e perquisizioni dal cuore della valle fino a Palermo.
Un’autentica resa dei conti nei confronti di chi da anni lotta per difendere il proprio territorio e si schiera apertamente contro un’opera inutile e dannosa.
Lo schema è quello già visto altre volte: criminalizzare una parte del movimento per cercare di dividerlo e indebolirlo.
Ma la valle e le migliaia di No Tav in questo paese sanno che il movimento è uno solo, senza distinzioni.
I “violenti” hanno la faccia della studentessa, della madre, del barbiere del paese, dell’insegnante che fa lo sciopero della fame e porta i suoi studenti alle reti del cantiere per insegnare loro quanto uno Stato può essere violento e sordo e cieco nei confronti di un popolo che si ribella, sono donne in prima fila, sono anziani e ragazzi che lottano insieme.
Questi sono gli uomini e le donne che il 3 luglio erano in valle a subire la violenza di una repressione feroce, con gli occhi alle reti e la voglia, nel cuore, di sradicarle.
La lotte della Valsusa sono un esperimento di legami sociali che si saldano nella ribellione, di decisione aperta e orizzontale, superando i confini del territorio senza alcun rigurgito di rancore xenofobo, come avviene in altri contesti, nel nostro Paese.
I toni da forca dei giornali non riusciranno a coprire la verità in valle. Il dato politico è che non c’è spazio per chi costruisce percorsi aperti e orizzontali e che vuole decidere, cooperando, del proprio destino.
Quello della valle è un bosco che si muove tutto insieme, che decide quando e come agire, senza avanguardie o cattivi maestri. Un movimento che, dopo anni di repressione, ha ancora la stessa rabbia e la stessa dignità di sempre.
L’operazione di polizia messa in campo questa mattina non riguarda solo la Valsusa: basta guardare la mappa dei blitz delle forze dell’ordine ed è facile capire come la lotta No Tav ci riguarda da vicino, non solo perchè molti di noi, quel 3 luglio, erano in valle, ma anche perché la lotta No Tav parla di una crisi profonda, sia economica che politica.
Una crisi che vede partiti trasversalmente assoggettati ai dettami della BCE e di quelle che i valsusini chiamano “mafie”: corporazioni imprenditoriali e lobbystiche che sono pienamente inserite nel sistema capitalistico.
Una crisi che è sistemica, perché è su progetti inutili e disastrosi, odiati dalla gente, su bolle speculative che i governi fondano la loro politica economica.
La lotta NoTtav è la dimostrazione che i movimenti sono incompatibili con il volto feroce del capitalismo e del suo braccio armato.
Proprio da questa incompatibilità ripartiamo per dire che c’eravamo lì 3 luglio e se ci sarà bisogno, se il popolo della Valle ci chiamerà, ritorneremo.
Se vogliono fermarci devono prenderci tutti, ma che si sappia che siamo in migliaia.
Per le donne e gli uomini arrestati la solidarietà non basta, siamo complici.
Non è una frase che appartiene ai nostri dialetti, ma l’abbiamo imparata bene, per questo la urliamo tutti insieme: a sarà dura!
E adesso provate ad arrestare un bosco che cammina.