Il tempismo è stato quantomeno formidabile. Il 20 settembre il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza ha
deciso «l’invio di ulteriori 200 unità [soldati dell’esercito, nda] per le esigenze di sicurezza del cantiere Tav in Val di Susa», che si vanno così ad aggiungere ai 215 militari già impiegati nella difesa dell’area.
Nella stessa giornata, un documento firmato (e soprattutto
scopiazzato) da Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi – in carcere dal 2007 con l’accusa di far parte del Partito comunista politico-militare (PCPM) – ha cominciato a circolare su Internet ed è stato ampiamente ripreso dalla stampa nazionale. I due (che non sono delle famigerate “Nuove BR”) esortavano il movimento No Tav a «compiere un altro salto in avanti, politico organizzativo, assumendone anche le conseguenze, o arretrare».
Angelino Alfano, Ministro dell’Interno, non si è lasciato sfuggire l’occasione di fare il duro: «Lo Stato fa lo Stato e la Tav si farà. Delinquenti e bombaroli si rassegnino. Con l’invio in Val di Susa di altri 200 militari rafforziamo i contingenti che proteggeranno l’avvio dei lavori della “talpa”», ossia l’enorme fresa che dovrà scavare il tunnel geognostico/esplorativo – e non quello dove passerà il Tav – di Chiomonte. Negli ultimi mesi, l’attenzione mediatica e giudiziaria sulla Val di Susa è stata particolarmente intensa. A fine luglio, la procura di Torino ha disposto perquisizioni in svariate abitazioni e ha contestato a dodici attivisti No Tav un’accusa pesantissima in relazione all’assalto al cantiere del 10 luglio 2013: attentato per finalità terroristiche ed eversione. Una serie di attentati (più di dieci, tutti attribuiti senza alcuna esitazione al movimento No Tav) a diverse imprese che lavorano nel cantiere hanno rafforzato a dismisura la narrativa della Valle come palestra ideale per terroristi e sabotatori eversivi. Come hanno scritto Lirio Abate e Tommaso Cerno su l’Espresso, i magistrati guidati da Gian Carlo Caselli sono convinti che «il tunnel dell’Alta velocità in Val di Susa sia ormai diventato solo un pretesto» che serve «a mettere in scena azioni, che i pm definiscono “micidiali”, che riportano alla mente gli anni di piombo».
Il cantiere della Clarea, inoltre, sarebbe «diventato il palazzo d’inverno che autonomi e anarchici insurrezionalisti devono conquistare» a tutti i costi. Un editoriale su La Stampa dello scorso 12 settembre si è spinto ancora più in là. In Val di Susa, afferma Cesare Martinetti, II terrorismo c’è già. In una forma inedita, tra l’intimidazione ambientale di stampo mafioso e il cecchinaggio individuale di marca pre-brigatista, tra la opprimente Corleone di Riina e i caldissimi picchetti delle fabbriche nei primi Anni Settanta. Nei confronti delle cose (cantieri, macchine e macchinari, forze di polizia) si esercita con azioni militari. Nei confronti delle persone (che lavorano nel o intorno al cantiere) con minacce continue e ossessive. […] C’è insomma un antistato che esercita forme di controllo del territorio e si propone di cambiare il corso delle cose con un insieme di azioni che sono oggettivamente eversive. Il movimento No Tav – che ha ammesso di essere ricorso a «sabotaggi popolari» – ha respinto con sdegno sia l’accostamento ai “brigatisti” in carcere che le accuse di terrorismo, parlando di «ultimi colpi di coda» della lobby pro-Tav. Ma del resto, come ha twittato l’ultrà Sì Tav del PD Stefano Esposito, «la talpa scava il resto è noia».
Già. La risoluzione mostrata da Alfano, Esposito e molti altri relega però in secondo (o anche terzo, quarto) piano una domanda tanto semplice quanto fondamentale: dal momento che il Tav in Val di Susa rientra nella tratta Lisbona-Kiev (il famigerato Corridoio 5), a che punto è il progetto negli altri paesi europei? Due giornalisti, Luca Rastello e Andrea De Benedetti, sono andati a vedere di persona lo stato dei lavori e hanno pubblicato il resoconto del loro viaggio nel saggio Binario Morto. Il sottotitolo è piuttosto esplicito: «alla scoperta del Corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è» – e che potrebbe non esserci nemmeno in futuro. L’assunto del progetto ormai ventennale, scrivono i due, «è sostanzialmente falso», poiché «la sostenibilità del progetto si regge su previsioni a lunghissimo termine e già ampiamente disattese a causa della crisi in atto dal 2008». Il percorso originario del Corridoio 5. La prima tappa degli autori è Lisbona, la capitale dell’“estremo occidente” d’Europa da cui il Tav non partirà mai. Il 21 marzo 2012 il governo portoghese ha ufficialmente annunciato la rinuncia al progetto: il Paese, piegato dalla crisi e dalle politiche di austerità della Troika, non ha un centesimo da investire nell’alta velocità. Il Portogallo, insomma, «non ha la forza, il denaro e neppure la convinzione strategica per posare circa trecento chilometri di binari tra Lisbona e il confine con la Spagna». Dopo il forfait portoghese, la Commissione Europea ha deciso di far partire il Corridoio 5 da Algeciras, città vicino a Gibilterra nel sud-ovest della Spagna. Ma anche qui ci sono enormi problemi, e una scarsissima volontà del governo spagnolo di completare l’opera. Nel 2012, infatti, il ministero delle Infrastrutture ha destinato al tratto Algeciras-Bobadilla ben 500mila euro, «pari allo 0,02 per cento circa del costo totale previsto dell’opera (un miliardo e mezzo), mentre il resto del “Corridoio mediterraneo” spagnolo, dal confine francese fino al cuore dell’Andalusia, sarà finanziato con oltre un miliardo e trecentomila euro e altrettanto sarà destinato all’Ave [treno ad alta velocità spagnolo, nda] per la Galizia». A questo ritmo, notano gli autori, «il primo treno per Kiev dovrà aspettare ancora qualche secolo prima di cominciare a sferragliare, inflazione permettendo». Il tratto tra Algeciras e Ronda, come dice un funzionario intervistato dagli autori, «non solo non avrà una linea esclusivamente dedicata all’alta velocità»; questa linea «non verrà neppure raddoppiata»: rimarrà infatti un unico binario «su cui viaggeranno promiscuamente merci e passeggeri», a una velocità massima di 160 chilometri all’ora. In tutto ciò, il Corridoio mediterraneo che dovrebbe partire da Algeciras – previsto nel lontano 1987 all’interno del Plan de transporte ferroviario – è allo stato attuale un patchwork di segmenti ora a un binario ora a due, ora a scartamento iberico ora a scartamento europeo, ora elettrificati a 3 kilovolt ora a 25, ora ad alta velocità ora a velocità medio-bassa, ora destinato esclusivamente al traffico passeggeri ora a uso promiscuo. Insomma, un «mosaico in cui è impossibile scorgere le tracce di un progetto coerente e compiuto e in cui, al contrario, si ravvisano chiari i segni di una sistematica e inesausta improvvisazione strategica». La situazione non migliora neppure una volta arrivati in Francia. Il 5 novembre del 2012 la Corte dei Conti francese ha presentato al governo un documento in cui rileva come i costi siano incredibilmente aumentati rispetto al progetto iniziale: «dai 12 miliardi previsti a 26 miliardi di euro». Nel frattempo, anche i costi per il «programma di studio e i lavori preliminari» sono triplicati. Il 17 ottobre 2012, poco prima del rapporto della Corte dei Conti, si era insediata una commissione di politici esperti in materia voluta dal ministro dei trasporti Frédéric Cuvillier. Il 27 giugno 2013 la commissione ha presentato il proprio rapporto finale, intitolato Mobilitè 21 – Pour un schéma national de mobilité durable. Tra le linee ad alta velocità in costruzione, la commissione salva solo la Bordeux-Tolosa; per tutte le altre – compresa la Torino-Lione – se ne riparla dopo il 2030-2040. La priorità si dovrà dunque dare «ai nodi e alle infrastrutture per il trasporto dei pendolari nelle grandi aree urbane» e all’«ammodernamento e manutenzione straordinaria» delle linee già esistenti. Niente linee nuove, insomma. Nonostante il rapporto della commissione, il governo francese alla fine di agosto ha approvato un decreto con cui dichiarava di «pubblica utilità» alcuni lavori per l’accesso al cantiere della Lione-Torino. Tuttavia, secondo il quotidiano Les Echos, «il primo colpo di piccone non è per domani», e la decisione del governo non fa altro che «assicurare la continuità giuridica del progetto», su cui gravano anche serie questioni intorno al finanziamento dell’opera. In parole povere, come ha scritto la rivista specializzata Ville, Rail et Transports, «da anni si fa quello che bisogna fare per fare in modo che il progetto non muoia, e niente perché viva». Con buona pace di chi dice che in Francia «è già iniziato tutto» e che non c’è il minimo problema. La “talpa”. Arrivando al confine tra Francia e Italia, gli autori ricordano «la cosa più curiosa e forse importante»: la scelta a favore di una linea ad alta velocità è «prerogativa pura» di Francia e Italia. L’Unione Europea «non mette alcun vincolo di velocità o modalità progettuali su questa tratta, ma impone semplicemente il rispetto delle cosiddette “specifiche tecniche di interoperabilità” (ad esempio sagome, alimentazioni e sistemi di segnalamento)». Tutti i finanziamenti per la rete di infrastrutture viarie prevista dall’Unione, infatti, non «implicano alcuna opzione a favore dell’alta velocità o dell’alta capacità». Alcuni Paesi, come l’Ungheria e la Spagna, preferiscono investire questi finanziamenti nella realizzazione di strade e autostrade. Perché dunque tutto questo accanimento su una linea, la Lione-Torino, che secondo l’Osservatorio omonimo produrrà i primi benefici solo nel 2073 e che si fonda su previsioni (di traffico, merci, ecc.) clamorosamente smentite negli ultimi anni? La risposta la fornisce un ingegnere, membro del gruppo di lavoro costituito della Regione Piemonte per «valutare l’impatto ambientale del Tav e definire il parere della Regione sull’opera»: In breve, non è necessaria l’opera. Sono necessari i soldi che derivano da cantieri e progetti, e che non possono essere spostati da un capitolo all’altro. Il Tav è un “Momendol” economico. Come le Olimpiadi. Diciamo che grazie ai lavori olimpici imprese e località che erano allo stremo hanno trovato prospettive di sopravvivenza per almeno cinque anni. Le cose non migliorano nemmeno scendendo in pianura e arrivando fino al Veneto. Il 21 settembre 2013 il Corriere del Veneto ha riportato una notizia tragicomica: da Roma è arrivato l’ok alla Tav sbagliata. La Regione Veneto e Friuli Venezia Giulia non hanno mai inviato il nuovo progetto della ferrovia alta velocità/alta capacità Venezia-Trieste, che prevede un semplice «efficientamento della linea esistente, sfruttata non oltre il 40%» e costa poco più di 800 milioni di euro. Il piano ufficiale – il cosiddetto “tracciato litoraneo” che lambisce la costa – è osteggiato da «gran parte dei comuni attraversati, dalle amministrazioni provinciali e dalle categorie produttive» per vari motivi, tra cui l’impatto ambientale e i costi insostenibili (più di 7 miliardi di euro) dell’opera. Insomma, «le uniche carte che esistono, in sostanza, le sta studiando il ministero ma sono quelle di un progetto che nessuno vuole». La «ferita mortale» al Corridoio 5 arriva però al confine tra Trieste e la Slovenia, dove dal 2011 non passa più nessun treno. Un documento programmatico del governo sloveno, pubblicato 2 anni da Il Piccolo, «clamorosamente esclude sia il tratto sloveno della Triste-Divaccia sia il collegamento tra i porti di Capodistria e di Trieste». Tra i collegamenti viari citati da Lubiana (solo tre) figura anzitutto la nuova linea tra Capodistria e Divaccia, e non si fa alcuna menzione del Tav. Quindi, per farla breve, in Slovenia il Corridoio 5 è una chimera. Di più: a causa di ripicche e micragnose lotte politiche tra le regioni del Nordest italiano e il governo sloveno, Trieste rischia di essere tagliata «fuori dalle grandi rotte europee dei traffici». Anche l’Ungheria, penultima tappa degli autori, non è particolarmente interessata alla linea Tav. Anzi. Un portavoce del ministero dei Trasporti ungherese, citato nel libro, lo dice chiaro e tondo: «La nostra priorità non è la ferrovia: i finanziamenti dell’Unione Europea per Ten-T non sono specificamente riservati alle ferrovie, ma a infrastrutture per le comunicazioni, e le nostre scelte prioritarie di investimento vanno alle autostrade». E quel che è chiaro, ribadiscono Rastello e De Benedetti, è che «neppure nel prossimo capitolo di spesa, dopo il 2020, l’Ungheria si batterà per qualcosa che assomigli al vecchio Corridoio 5». All’ultima fermata del viaggio, l’Ucraina, i due giornalisti finalmente scoprono che il Tav per Kiev c’è già. Si fa per dire: la velocità del collegamento tra Leopoli e Kiev è infatti di 108,2 chilometri all’ora – non esattamente un record, per un tratto che si presuppone veloce. Chiosano infatti gli autori: «l’alta velocità qui ha tutta l’aria di essere nient’altro che un nuovo marchio appiccicato su quel che c’è». Eppure la traversata Lisbona-Kiev era partita con ben altre premesse: «aspettavamo di trovare binari gremiti, convogli zeppi, cantieri crepitanti. Tutto perfettamente apparecchiato per accogliere l’arrivo dell’ospite senza il quale la festa non poteva avere inizio: il Tav». E invece, il Corridoio 5 rimane un «corridoio deserto», con lunghissimi tratti in cui non c’è «nemmeno uno scheletro o un ectoplasma di rotaia», o semplicemente un’anima pia in grado di spiegare «per quale ragione l’Italia deve lasciar andare, se va bene, 3 miliardi e mezzo di euro […] in un tunnel». Più che il tanto decantato «progresso», dal racconto dei due autori emerge la «megalomania» di un sogno-progetto partorito nell’epoca industriale e infranto dal collasso rovinoso di quell’epoca. Ma soprattutto emerge un’Europa senza identità né visione comune del futuro che annette pezzi di sé stessa tramite una ferrovia che interessa a pochi, e a quei pochi interessa non per la sua portata globale ma per le ricadute a brevissimo termine sull’economia locale.
In un’
intervista all’Espresso, il commissario straordinario della Torino-Lione Mario Virano ha dichiarato – riferendosi agli «antagonisti» e alle «frange violente» del movimento No Tav – che «l’idea è stata di trasformare il cantiere in un simbolo nazionale», un simbolo «esportato fuori dalla valle». Ecco: il saggio di Rastello e De Benedetti capovolge del tutto questa retorica, e dimostra come il cantiere di Chiomonte sia diventato un «feticcio» molto più per quelli che vogliono fare l’opera che per quelli che vogliono fermarla.
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