Intervista. Il regista lunedì 1 dicembre a Filmmaker Fest con «Qui», il documentario sui No Tav. «I racconti hanno a che fare con una condizione sociale e umana che va oltre l’avvenimento»
Il movimento No Tav in questi anni è diventato molto di più della protesta contro l’alta velocità, i presidi, le occupazioni e le manifestazioni per bloccare i lavori. Ben oltre la polarizzazione fra chi è pro e chi è contro, ha incanalato delle istanze di lotta e contestazione, ma soprattutto ha rappresentato per molti una presa di coscienza rispetto a cui cambiare addirittura radicalmente le proprie vite. Qui di Daniele Gaglianone ci riporta proprio a questo elemento della contestazione, ai volti di chi da anni si è incaricato, che lo si possa condividere o meno, di tutelare un territorio e di rivendicare dei diritti nei confronti dello Stato. Ci sono i gruppi di preghiera come i sindaci valligiani, ex carabinieri in congedo come normali cittadini. Prodotto da Gianluca Arcopinto e distribuito dalla sua Pablo, il film di Gaglianone è stato già visto al Festival di Torino e al cinema Aquila di Roma, e il 1 dicembre verrà proiettato al FilmMakerFest di Milano, per poi uscire in sala proprio a Milano e ancora a Torino.
In Qui è completamente assente qualsiasi intento di dare una cronologia agli eventi, di svolgere una funzione «didattica» rispetto al movimento No Tav. Da dove viene questa scelta di campo?
L’estate del 2012 ho girato molto in Val di Susa ma il materiale mi sembrava insufficiente perché mi ero dedicato troppo all’attualità. Poi mi sono reso conto che i racconti di quelle persone, anche se si riferivano a dei fatti molto precisi, avevano in sé qualcosa che trascendeva l’evento di riferimento, avevano a che fare con una condizione sociale ed umana che andava al di là dell’avvenimento, del fatto da ricostruire in una coordinata spazio-temporale precisa. Quindi sono fatti specifici, ma che allo stesso tempo diventano una metafora dell’ovunque. Di conseguenza ho cercato di rendere tutto più rarefatto; non volevamo assolutamente fare una cronistoria degli eventi, perché la cosa veramente importante è che nonostante la concretezza del riferimento, le persone stanno raccontando un loro pezzo di vita ed una rivolta intesa non solo come ribellione e protesta, ma anche come necessità di cambiare, di colmare questa distanza che può essere drammatica tra l’idea di mondo che avevano ed invece scoprono essere diversa. È la storia di persone che non avrebbero mai immaginato quello che è successo e scelgono, o sono costretti, a cambiare radicalmente.
Uno dei problemi più vasti che viene sollevato è quello del rapporto con il braccio repressivo dello Stato.
Io penso che più della repressione si tratti di ciò che la precede, che questa sia il punto di arrivo di un’assenza totale della politica, della vera democrazia. Credo che la situazione in Val di Susa sia stata veramente anticipatrice, che questo episodio ci racconti la rottura che non si è mai ricucita tra rappresentanti delle istituzioni e le istituzioni. Quando va bene si cerca di compensare questo vuoto con la democrazia diretta e partecipata come in Val di Susa, e quando va male si tirano le bombe carta sui centri d’accoglienza. Credo che il risultato elettorale in Emilia Romagna ne sia un segnale: la regione italiana che era in testa a tutte le affluenze elettorali ha disertato in massa, e quello è un segnale politico importantissimo. E quindi vuoi per incapacità, vuoi per strategia, la tentazione di risolvere i problemi chiamando la polizia è forte. E la Val di Susa anche in questo è stata esemplare, paradigmatica.
Nel film si vede come la presa di coscienza abbia riguardato le persone più disparate.
La cosa interessante da un punto di vista narrativo e politico è che questa storia ha messo insieme gente che molto probabilmente non si sarebbe ritrovata su altri fronti; ma questo problema mette in gioco delle cose essenziali per cui alla fine ci si ritrova insieme, dai cattolici agli anarchici; diventa una questione che ha a che fare con la cittadinanza e la democrazia occidentale all’inizio del terzo millennio. Questo movimento ha avuto anche la capacità di penetrare oltre i propri confini, diventando quasi un modello per tutti i movimenti di opposizione a delle cose imposte dall’alto secondo una modalità non democratica. D’altro canto è però un movimento su cui c’è stato un black out mediatico pazzesco, di queste persone nei media è stata data una visione distorta: l’immagine che doveva passare era quella di pericolosi personaggi un po’ bifolchi. E molto spesso si parla di estremismo: gli estremismi sono tanti purtroppo, ma in primo luogo quello di chi ha raccontato la Val di Susa come se fosse stata gli anni settanta, di chi decide di celebrare i processi in aule bunker, dove di solito ci sono quelli ai mafiosi; di quelli che si mettono sul pulpito a parlare di democrazia, rispetto della legalità ed invece dovrebbero rispondere loro stessi della mancanza del rispetto elementare di alcuni principi.
Come è stato accolto il film a Torino?
Molto bene. Per chi conosce le cose è stato quasi liberatorio, come a dire finalmente possiamo vedere qualcosa in cui riconosciamo le cose che vediamo. Però c’è stata anche sorpresa, soprattutto da parte di quelli che non vivono a Torino e da parte dei giornalisti che si sono resi conto di essere loro stessi incappati in cliché e stereotipi.
da il manifesto