post — 21 Ottobre 2024 at 16:11

Cu cu, cu cu, le reti vanno giù!

 

A due settimane dalla violenta e illegittima occupazione del terreno che ospitava il presidio di San Giuliano di Susa, Telt e Questura di Torino, con signorile arroganza, “concedono” al movimento No Tav e ai legittimi proprietari di recuperare i materiali (la cucina, i gazebo, i tavoli, gli attrezzi, ecc.) contenuti al suo interno, malconci e impacchettati ai margini dell’appezzamento dopo la lunga notte di resistenza.

Impongono uno scadente copione poliziesco di sequestro e riscatto: sono loro a stabilire luogo e orario, loro a definire le regole della restituzione, ancora loro a compilare l’inventario delle nostre cose. Eppure, a presidiare quello che rappresenta l’ennesimo fortino militare ai margini della statale, (il quarto, con Chiomonte, San Didero e Salbertrand) non vola una mosca da giorni. Non una pattuglia, non una camionetta di celerini. Seppur privo di uomini, nulla al suo interno dovrebbe apparire normale: centinaia di reti, jersey in cemento, matasse di filo spinato. Un preciso scenario di preparazione alla guerra. Un deposito militare, prima ancora che un cantiere.

Il tentativo di normalizzare già da ora questi elementi di occupazione nella geografia della piana di Susa è evidente e sembra premonire: abituatevi, i prossimi dieci, quindici, venti anni avranno questo volto su tutta l’estensione del “cantiere unico Tav”: decine di chilometri di ferro, cemento, concertine, torri faro. Se, del resto, tutto l’affaire espropri, dallo sgombero al blocco della statale per giorni si è dimostrato uno spettacolare e muscolare atto di forza di Telt, l’epilogo non poteva che essere tale grande scenografia, a premettere le imminenti cantierizzazioni previste nella prossima primavera a Susa.

Non sono stati dunque né i muscoli di Telt e Questura né la fine pioggia di ieri pomeriggio a spaventare i e le no tav che, invece di attendere alle “gentili concessioni” di lorsignori, sono andati a riprendersi quello che, in fondo, è tuttora di loro proprietà. I passaggi per intrufolarsi nel terreno recintato sono troppo stretti? E allora ecco che diversi metri di jersey vanno giù. Le pesanti reti cedono, il cemento scricchiola sotto i colpi, il filo spinato tagliato. E mentre qualcuno constata come la nostra terra sia già stata devastata da un getto di asfalto sul bel prato verde del presidio, altre si lamentano di come le mani ladre di funzionari e poliziotti abbiano fatto sparire diversi oggetti dal presidio.

Intanto viene allestito un piccolo punto ristoro all’interno del presidio liberato, raggiunto nel corso del pomeriggio da altri e altre No Tav. Un dolce momento autunnale che fa assaporare per qualche ora il profondo significato che sta dietro alla parola riappropriazione.

Tra gli sguardi, le spallate e i tiri di corda alle reti, le castagne e i brindisi al vin brulé si accendono le domande: come potranno controllare, negli anni a venire, chilometri quadrati di cantieri e decine di infrastrutture laterali? Quante migliaia di uomini avranno ancora a disposizione per presidiare questi e altri recinti? Quanto profondi sono ancora i loro portafogli? Quanto ancora, insomma, durerà la rappresentazione se, proprio all’inizio della scena principale, alcuni degli attori primari sembrano traballare sul palcoscenico?

Prima di andare via qualcuno sussurra: loro di notte costruiscono fortini, noi di giorno ce li riprendiamo. Chi durerà un minuto di più, il loro denaro o la nostra determinazione? Lo vedremo presto. Avanti No Tav.