INTRODUZIONE “Sardegna: colonia interna”
Il progetto Confluenza vi invita a intraprendere un viaggio alla scoperta di uno dei tanti volti del sistema estrattivista: quello della speculazione energetica.
Nel Manifesto di Confluenza abbiamo individuato e indagato i vari meandri in cui si articola il cortocircuito che, a mano a mano, divora i territori e le loro risorse. Uno dei cuori pulsanti che permette il suo rinnovo continuo è l’energia: motore della produzione e del consumo. Da sempre al centro dei dibattiti geopolitici ed economici, l’energia oggi sembra la stella polare della transizione ecologica. Come abbiamo anticipato, però, non basta cambiare l’ingrediente, la ricetta rimane la stessa: un modello energetico centralizzato che viene imposto dall’alto e su larga scala. Sempre più acclamate ed “efficienti”, le energie rinnovabili stanno cominciando ad aprire nuove contraddizioni nei territori in cui vengono installate.
Abbiamo scelto la Sardegna per andare a toccare con mano le conseguenze materiali del nuovo ordine energetico. Lo abbiamo fatto con un metodo che abbiamo adottato come stile del nostro agire, ossia con-ricercare le contraddizioni della realtà che ci circonda a partire dalle esperienze dirette di chi vi è immerso, con l’obiettivo di anticipare fenomeni che potrebbero riprodursi su altri territori. Essere preparati a ciò che ci aspetta e organizzarsi per contrastare l’attacco inflitto sui territori è fondamentale: anche il Piemonte si sta preparando a una transizione energetica con uso di rinnovabili, la Regione sta definendo la Legge sulle Aree Idonee e gli impatti sul territorio potrebbero essere assai rilevanti. Siamo consapevoli che tutte le Regioni, alcune più di altre, saranno toccate per questo occorre confrontarsi e avviare uno scambio proficuo su questi temi in vista del prossimo futuro.
Sull’isola da più di vent’anni vanno sorgendo parchi eolici e fotovoltaici, in una delle regioni più colpite dall’invasione dell’energia verde.
Sono oltre 800 i progetti FER (Fonti di Energia Rinnovabile) presentati negli ultimi tre anni, progetti che hanno preso la rincorsa grazie alla deregolamentazione firmata Draghi e ai lauti fondi del PNRR. Con il Decreto Fer2 di Pichetto Fratin alla Sardegna è imposta una produzione, da qui al 2030, di 6,2 gigawatt incrementali di energia da fonte rinnovabile, una quantità molto superiore ai fabbisogni isolani. L’isola conta 1 milione e mezzo di abitanti e i consumi energetici civili e industriali sono in decremento, senza contare che già oggi il 40% della produzione energetica viene esportato nel continente: qualcosa non torna.
Abbiamo scelto la Sardegna perché abbiamo sentito gli echi di una mobilitazione che si è mossa da ogni area della regione per bloccare l’invasione spropositata di questi enormi progetti, ed è determinata a portare avanti le nostre stesse istanze: quelle contro chi fa profitti a scapito dei territori. Cinque giorni di visite, racconti, confronti, dibattiti e anche chiacchierate, per vedere con i nostri occhi e sentire con le nostre orecchie quello che le persone, i comitati, ma anche i passanti, hanno da dirci rispetto a una transizione vissuta sulla propria pelle.
Ogni testimonianza è cominciata con qualche aneddoto storico riguardante l’isola, le invasioni del passato e lo sfruttamento intensivo che ha subìto da parte del “continente” (la penisola italiana). Anche noi, allora, incominciamo da qui. Facciamo un passo indietro per ripercorrere quella che è la storia della Sardegna, una storia fatta di colonizzazione e devastazioni che si sono susseguite nel tempo. L’isola è da sempre ricca di materie prime e di fonti energetiche utilizzate nelle varie epoche (legname, minerali, oggi sole e vento), e sono proprio queste che hanno fatto gola ai vari potenti che l’hanno deturpata.
Tra il Settecento e l’Ottocento inglesi e piemontesi hanno annientato i boschi che si estendevano su tutto il territorio: utili alla costruzione di flotte navali e alle prime ferrovie italiane. Ma la rapina è continuata sotterranea per tutto l’Ottocento, con l’avvento delle miniere di carbone, ferro, piombo, argento, zinco e rame. Il Sulcis-Iglesiente è una delle zone di maggior estrazione ancora oggi, tra miniere di carbone, industria siderurgica e impianti di lavorazione di alluminio e ferro.
Gli anni che seguono la Seconda guerra mondiale promuovono un’ulteriore trasformazione di quello che è il tessuto sardo, un tempo dedicato interamente all’agro-pastorizia. Si mette in moto il Piano di Rinascita della Sardegna attraverso l’imposizione di un modello industriale centralizzato basato sulla chimica e la petrolchimica. Vengono installati i primi impianti a Porto Torres, Portovesme e Ottana, mentre anche la Riforma agraria incomincia a installare nuovi macchinari e metodi di coltivazione e allevamento che calpestano i metodi tradizionali sardi. Ma il progresso e la crescita economica non si avverano e l’industrializzazione forzata fallisce: presto del benessere promesso rimangono solo capannoni vuoti e aree da bonificare.
Sempre nel dopoguerra, le spiagge e aree interne sarde sono sembrate il luogo perfetto per installare le basi militari dell’Italia e dei suoi alleati. L’isola ospita il 65% delle basi militari italiane: decine di migliaia di ettari di territorio tolti per sempre alla popolazione, inquinati eternamente dalla più nociva delle industrie.
Oggi la principale fonte di energia proviene dalla raffineria Sarlux di proprietà della Saras S.p.A., all’interno del sito industriale di Sarroch sulla costa a sud-ovest di Cagliari. Un ulteriore contributo energetico fossile è poi dato dalle centrali termoelettriche a carbone di Fiumesanto e Portovesme. Queste centrali saranno assoggettate a un phase down entro il 2028 e saranno le ultime due in Italia ad essere spente, a detta del Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Pichetto Fratin. Nonostante qualche vertenza sindacale, i numerosi disastri ambientali e sversamenti, questi colossi energetici rimangono stabili e intoccati, piramidi in un deserto di opportunità sociali ed economiche.
La chiusura di questi poli energetici porterebbe moltissime famiglie sul lastrico, perché l’unica vera fonte di sussistenza che viene proposta in Sardegna non lascia scampo e passa o attraverso la messa in svendita dei propri terreni o della propria forza lavoro, della propria salute e del proprio territorio.
Oggi la Sardegna presenta una delle più vaste aree SIN (Siti di Interesse Nazionale) d’Italia: ex-aree minerarie dismesse da bonificare, ex-aree militari e ex-aree industriali. Un sardo su tre vive in prossimità di un sito inquinato; nonostante ciò la Sardegna è l’unica regione in Italia che non possiede un registro tumori. Alcuni dati importanti provengono dall’ASL di Sassari che riporta come i fattori tumorali e leucemici nell’isola siano più alti di quelli della zona dell’Ilva di Taranto e della Terra dei fuochi in Campania e come la Sardegna presenti la più alta incidenza di malattie gravi degenerative di tutta Italia. Una situazione che rende ancora più scandalosi i continui tagli alla sanità portati avanti nell’isola: gli ospedali chiudono, i reparti sono smantellati, gli orari per le visite e il pronto soccorso sono ridotti al minimo, il personale è insufficiente e i medici di base sono impossibili da trovare.
Il taglio dei servizi riguarda anche il campo della formazione: un ridimensionamento scolastico che passa per la chiusura progressiva delle scuole e per accorpamenti sempre più massicci.
La ritirata generale dei servizi costringe a una ritirata forzata dalle aree interne, ormai sempre più spopolate: 308 su 377 Comuni sono in decremento demografico. Epoche diverse si sono succedute come raffiche devastanti sull’isola e hanno portato con sé lo stesso sapore amaro: accaparramento, estrazione e distruzione del territorio sardo. Sono cambiati gli attori, ma la dinamica si è ripetuta costantemente, consegnando l’isola al destino di colonia energetica da sfruttare per le preziose materie prime che offre e poi da abbandonare, inquinata, al proprio destino. Dopo il legno, il carbone e il petrolio, oggi la frontiera della colonizzazione energetica ha raggiunto il vento e il sole: una distesa di pannelli e pale eoliche minaccia di perturbare un ecosistema che è riuscito a resistere nel tempo.
Di fronte a un sistema del welfare che cade a pezzi, gli ingenti investimenti pubblici in opere energetiche colossali e private sono in evidente contraddizione con quelli che sono i bisogni di chi abita quella terra.
In questa situazione, la retorica portata avanti dai giornali mainstream e dalle istituzioni, che ritrae i sardi come un popolo ottuso e contro il progresso, miope davanti al futuro innovativo e sostenibile disegnato da altri, inizia a vacillare.
Anche per questa ragione abbiamo levato l’ancora e ci siamo dirette verso l’isola, per parlare con chi questi territori li conosce e li difende, provando a smontare stereotipi prodotti da un colonialismo interno duro a morire.
Siamo andati a rintracciare le origini dell’opposizione popolare, la storia e i percorsi dei differenti comitati che sono scesi nelle strade e nelle piazze, hanno occupato i porti e creato presidi. Una domanda dopo l’altra ci ha permesso di ricostruire i vari passaggi dell’avvento delle rinnovabili: gli espropri, le contrattazioni dei terreni, ma anche le procedure legali e gli aspetti tecnici. Le motivazioni dei NO risuonano ancora nelle ore di registrazione accumulate, mentre le chiacchiere si dilungavano, un caffè dopo l’altro. I volti e gli sguardi complici ritornano alla mente, mentre insieme si immaginava un’alternativa a un modello energetico imposto e opprimente.
Riportiamo una contronarrazione che tenta di navigare nelle acque agitate dell’informazione mainstream.
Riportiamo quindi le voci di chi, secondo noi, vale la pena di ascoltare.
Itinerario
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Giovedì 31 ottobre 2024 | Nulvi – Seneghe
“Di agropastorizia non si campa”
Approdiamo in terra sarda la mattina presto, pronte a partire verso le prime destinazioni del nostro viaggio che comincia a Porto Torres. Ad accoglierci non ci sono spiagge bianche e un gran sole, cartoline di una Sardegna mercificata e sfruttata per il turismo. Dalla nave osserviamo le prime tracce della speculazione energetica che andremo a scovare: la centrale termoelettrica di Fiume Santo, una delle due centrali a carbone, che si estende per 153 ettari, e le prime (di una lunga serie) pale eoliche.
Dopo un caffè cominciamo a dirigerci verso la prima tappa del nostro itinerario di inchiesta: Nulvi. Per arrivarci, passiamo attraverso un paesaggio verdissimo e rigoglioso, composto da colline, montagnole e pecore. Verrebbe da dire incontaminato, se non spuntassero a ogni curva nuove pale eoliche che si stagliano vicino e lontano: siamo sulla “buona” strada.
Nulvi è un piccolo paese di circa 2.500 abitanti, un borgo montano e agropastorale situato sulle pendici del monte San Lorenzo. Qui ci accolgono Mirko Piras e Francesca Borra del Comitato per la Difesa del Paesaggio dell’Anglona, un territorio che si estende da Tergu a Ploaghe, passando per Nulvi e Chiaramonti. Il comitato è anche uno dei primi che si è inserito nel Coordinamento di comitati contro la speculazione energetica, costituitosi per fare rete di fronte all’avanzata delle rinnovabili.
Per la nostra chiacchierata ci portano in uno dei terreni dello zio di Mirko. Siamo circondate da sugheri secolari e belati e il panorama collinare di fronte a noi è nuovamente costellato di pale di diverse dimensioni: intravediamo gli impianti eolici di Nulvi e di Tula, quello di Erula e quello di Sedini, ma sullo sfondo anche quelli della Gallura. Dei progetti dell’Anglona, più vecchi e più recenti, ci parla Mirko:
“A Nulvi ci sono già 40 aerogeneratori da 750 kilowatt, più 20 dai 60 ai 200 kilowatt di potenza […] Ora a Nulvi il progetto principale conta 50 pale, la potenza è di 750 kilowatt per aerogeneratore, invece per l’altro sono 19. In tutta l’Anglona sono previsti progetti, quindi in totale il nostro territorio dovrebbe accogliere impianti per la produzione industriale di energia per una potenza di 1100 megawatt: quindi 1,1 gigawatt generato da 246 aereogeneratori, 3/4 dei quali con la testa superiore a 200 metri, e da quasi 500 ettari di pannelli fotovoltaici nei campi. Attualmente la potenza installata in Anglona è superiore ai 200 megawatt: considerando che c’è anche la centrale idroelettrica Santa Maria Coghinas con la potenza di 22 megawatt. […] ce n’è un botto, considerando che noi siamo 20.000 attualmente in Anglona e solo l’impianto eolico di Tula, da quello che dice Enel Green Power, produce energia per 66.000 famiglie.”
L’Anglona infatti non è nuova alla colonizzazione verde, diversi impianti furono già installati agli inizi degli anni 2000 e gli abitanti del territorio si sono opposti nel tempo all’avvento sia del micro-eolico che del macro-eolico. Le ricadute positive utilizzate per spianare la strada ai primi impianti sono rimaste inattese: nessuna diminuzione del costo dell’energia in bolletta, nessuna economia di scala in grado di attirare aziende e imprese. Mentre osserviamo il paesaggio Mirko ci spiega:
“Questo impianto che c’è intorno a noi è presente da quasi vent’anni. […] Nulvi ha già avuto a che fare con le pale eoliche. Questi progetti sono stati presentati nei primi anni 2000, quando nell’amministrazione comunale c’era un sindaco che aveva quattro fratelli ingegneri in famiglia e tre di questi hanno lavorato come direttori dei lavori. Ora non pensare ad un palese conflitto di interessi in una situazione come questa è un po’ particolare, anche alla luce di quella che è stata la contrattazione per il paese. […] Si sono continuati a presentare progetti di ampliamento dell’impianto, quindi ogni anno, ogni tot anni, presenta un qualche progetto per utilizzare nuove porzioni di territorio.”
Il comitato conosce quindi bene le procedure di insediamento delle pale, ed è proprio contro quelle che si punta il dito per sottolineare le modalità e la fretta con cui vengono installate: a volte di notte, con il favore delle tenebre, per non farsi vedere, a volte alla luce del sole, con la consapevolezza di non incorrere in nessuna conseguenza. Mirko ci racconta:
“In Sardegna il 15% della flora è endemica, non puoi venire a fare rilevamenti a giugno, a luglio. Tra l’altro il tecnico ha anche scritto che ovviamente non era possibile fare questi rilevamenti, ma loro hanno mandato tutto comunque. Ci sono società che hanno fatto i rilevamenti dell’avifauna a settembre, quando la stagione del canto degli uccelli era finita. C’è fretta di presentare i progetti. “Quanti alberi taglierete?” “Boh, non lo so, dal satellite stimiamo tot…” Questo è quello che trovate nei progetti […] sul MITE, ma spesso non c’è neanche il nome della procedura di interesse, spesso sono solo codici che ti devi cercare. E quindi ci sono praticamente tutte queste incongruenze… Cioè, almeno fallo bene. Invece no, è tutto rimandato alla fase di cantiere: “sì, no no no, aspe’, voi autorizzate, poi vi facciamo i rilevamenti”.
L’avanzata delle rinnovabili nell’Anglona è andata di pari passo con il declino del mondo rurale delle aree interne sarde. Un destino comune di molti paesi che un tempo basavano la loro economia sull’agropastorizia. Aziende e multiutility hanno trovato in questi luoghi il terreno fertileper instaurare le nuove monoculture di pannelli e pale:
“Nulvi non ha demanio pubblico: ha 200 ettari di demanio pubblico su 6700 ettari e negli altri Comuni dell’Anglona la situazione è simile. Quindi buona parte dei terreni sono privati, quindi è molto semplice: visto che non puoi costruire questi impianti dove ci sono usi civici, ma nei privati sì, nell’Anglona è così, è tutta privata.. Non è come la Barbagia dove hai praticamente i terreni demaniali per migliaia di ettari. Non è Supramonte. Qua è tutto privato, quindi anche più semplice […] Chi affitta i terreni, vuole darli in affitto, non stanno ancora vendendo sia per l’agrifotovoltaico che per l’eolico. L’obiettivo è quello di incassare, cioè avere dei soldi per continuare a proseguire l’attività agricola.”
Continua Francesca:
“Queste contrattazioni poi vanno un po’ a colpire nel molle, nel senso che di agro-pastorizia non si campa: appena arriva un’azienda privata che ti promette dei soldi per piazzare un aerogeneratore, un pastore, magari anche attempato che magari non ha modo di passare l’attività a qualcun altro, dice “la smetto di spaccarmi la schiena, mi assicuro una rendita” e il terreno lo cede.”
Le condizioni di sopravvivenza per chi decide di vivere di agricoltura ed allevamento, oggi, devono seguire i dettami della PAC (Politica Agricola Comune). Come per le rinnovabili, anche in questo settore le norme e gli incentivi provengono dall’Unione Europea. Le tendenze sono dettate dall’alto senza che si osservino gli impatti che queste hanno sui territori. Mirko, che oltre ad essere un insegnante di sostegno, è anche un piccolo agricoltore, ci spiega:
“Il problema è che la PAC, la politica agricola comunitaria negli ultimi vent’anni ha favorito le grosse aziende, quindi cosa sta succedendo anche qui in Anglona? Le aziende stanno diventando sempre più grandi con sempre meno persone che ci lavorano. Quindi se tu vuoi rimanere a galla devi ammodernare l’azienda, fai PSR [Programma di Sviluppo Rurale], ti prendi un trattore che magari è sovradimensionato rispetto a quelli che sono i tuoi bisogni, perché tanto con la PAC ti copre il 60%, il 50, il 30, a seconda di dove stai. […] E comunque se ti va male un’annata il prezzo del latte cala e sei infognato, e quindi in questo clima si stanno inserendo queste società dove ci sono progetti con sale mungitrici che hanno un valore economico importante, mezzi che hanno un valore economico altrettanto importante… Dati Istat: negli ultimi quarant’anni l’Italia perde 2 milioni di aziende, la Sardegna ne perde 13.000 negli ultimi 15 anni. Quelle che rimangono sono sempre più grandi, acquisiscono sempre nuove porzioni di territorio con una logica industriale. Qui manca l’agricoltura.”
Favoreggiata dai nuovi latifondisti, che portano avanti un modello di agricoltura intensivo, l’avanzata verde non è destinata a fermarsi nemmeno qui, dove a ogni angolo svetta un aereogeneratore. Nel cortocircuito energetico ci sono sempre nuove tecnologie per massimizzare lo sfruttamento territoriale.
E così, anche dove lo spazio sembra saturato, viene proposta una nuova strategia: il repowering. Abbiamo chiesto a Mirko di spiegarci meglio di cosa si tratta:
“Praticamente andranno a sostituire le vecchie macchine con nuove macchine, però quello che faranno non è una semplice sostituzione, cambieranno completamente la struttura, nel senso che dimezzano il numero, però non utilizzeranno niente di quello che esiste in questo caso, neanche i cavidotti […] Quindi i basamenti esistenti sono troppo piccoli per sostenere delle torri alte 200 metri. E poi tra l’altro non solo c’è questo, ma prevedono anche l’espansione spaziale, perché una era lì, un’altra andrà più avanti, dopo otto metri ci sarebbero i generatori. Perché non lo so. Dopo un po’ le macchine invecchiano, forse i costi di manutenzione aumentano. E per i fondi PNRR. […] I plinti scenderanno oltre i 24 metri per trovare una roccia integra e stabile. Sono tubi con diametro da 120 che scendono oltre 24 metri per trovare una roccia integra e stabile a cui ancorarsi. Più o meno 1300 metri cubi di gettata di calcestruzzo per aerogeneratore. Quindi queste superfici esistenti dov’erano rimangono, verranno rimossi unicamente i primi centimetri per poi ricoprire il suolo ma il resto, l’armatura, rimarrà.”
Ancora una volta, ciò che viene detto “rinnovabile” viene smascherato per quello che è: l’ennesima tornata di uno sfruttamento incallito. Ma quando si tocca la terra, le componenti che si attivano nel territorio si moltiplicano: le motivazioni dell’opposizione diventano molto più che una sommatoria delle singole ragioni, si trasformano una forza capace di dire no e di opporsi, come ci riporta Francesca:
“Ci sono varie componenti in questo territorio […]. In ogni caso chi si muove sono tutti quelli che si rendono conto che un tale cambiamento del paesaggio può avere ripercussioni in 1000 modi diversi: oltre all’aspetto naturalistico, c’è anche l’aspetto sociale… Io vendo il mio terreno, ci metto una pala, il terreno si svaluta perché c’è una pala. Io non posso fare altrimenti perché non ho un soldo in tasca, tu non mi puoi venire a dire che non posso vendere il mio terreno se ho bisogno di soldi. […] Per cui si muovono un po’ tutti: dagli amministratori coscienti che si scontrano contro quelli incoscienti, alle persone come noi..[…] Non si può fare un ragionamento sull’ambiente, sulla produzione di CO2 senza farne un discorso olistico […] È un punto che noi mettiamo sempre, parlare nello specifico della speculazione senza un ragionamento che ci sta attorno è inutile.”
È arrivata l’ora di proseguire il nostro viaggio, dopo una piccola tappa per vedere un nuraghe nascosto dalla vegetazione, ripartiamo per la seconda destinazione del giorno: Seneghe.
“Il mondo funziona perché esistono specie che costruiscono un ecosistema di cui facciamo parte”
Arriviamo a Seneghe con le luci del tramonto, per recarci alla sede dell’Associazione culturale Perda Sonadora. Le pareti delle stanze ci parlano del principale evento annuale del paese: un festival internazionale di poesia che anima le strade per due settimane, il festival Cabudanne de Sos Poetas. Nel cortile interno ci disponiamo in cerchio e conosciamo Miriam, Pietro, Lara e Assunta del Comitato Tutela Montiferru ed Edoardo e Pietro del Comitato S’Arrieddu per Narbolia: un gruppo eterogeneo e composito di persone di tutte le età.
Narbolia e Seneghe sono due piccoli paesi, accomunati dalla vicinanza al massiccio del Montiferru. Con le parole di Miriam:
“è una zona che rimane naturale: sì, l’uomo se l’è fatta sua, però la natura è la protagonista. Siamo in una zona con un altissimo patrimonio di beni archeologici di età nuragica, prenuragica, postnuragica…”
L’area presenta la più alta densità di siti archeologici dell’intera Sardegna. Ma il Montiferru è anche un territorio fragile, colpito più volte da incendi. L’ultimo, tre anni fa, ha lasciato ancora i segni indelebili del suo passaggio. I due comitati si sono mobilitati da tempo per difendere il territorio, in primis quello di Montiferru, dall’avanzata delle pale e del fotovoltaico.
Paolo: “Il progetto di Seneghe prevedenove pale (7 a Seneghe e 2 a Narbolia), sul crinale di questo monte [Montiferru]. La punta della pala più alta diventa 210 metri. Tenete conto che le colline di Narbolia sono alte circa 200 metri, quindi una di quelle pale sarebbe più alta di una collina. Queste di Seneghe arrivano fino a 400 metri circa. Non vengono fatte alla base del monte, vengono fatte sul monte.”
Lara: “Se noi ci affacciamo dal Monte Ferro [dal punto in cui vorrebbero installare le pale] è tutto il territorio del Sinis, […] Questo territorio guarda su dei territori tutelati a livello nazionale e internazionale […] Perché nel frattempo è nata un’area marina protetta a livello nazionale, tutte le zone umide sono siti di interesse internazionale, quindi è tutto da non toccare.”
Ma anche qui, le distese di rinnovabili hanno già toccato e danneggiato varie porzioni di territorio.
Edoardo: “Quando abbiamo iniziato noi, per molti era difficile concepire l’idea che le energie rinnovabili potessero essere non sostenibili.”
La lotta contro le serre agrivoltaiche di Narbolia è stata una delle prime a denunciare le incongruenze di questa industria energetica sul territorio, ci spiega Pietro:
“Noi siamo già in lotta dal 2012, le nostre [serre] fotovoltaiche le hanno fatte nel 2012. […] Il progetto di Narbolia sono 64 ettari dei migliori terreni agricoli irrigati, sono 1614 serre da 200 metri quadri l’una, sono 107.000 pannelli fotovoltaici per una potenza di 27 megawatt che può dare corrente fino a 14.000 famiglie, giusto per darvi un’idea della grossezza e dell’impatto. L’ha fatto un ravennate – il progetto (abusivo) – che poi l’ha venduto a una ditta cinese […] Loro a Narbolia incassano per vent’anni 6 milioni di euro all’anno di incentivi, più circa 3 milioni e mezzo all’anno di vendita della corrente all’Enel, una decina di milioni all’anno per vent’anni a fronte di un investimento ridicolo. […] Il nostro Comitato S’Arrieddu per Narbolia è stato uno dei primi che ha cominciato a lottare su questo in Sardegna, è stato anche il primo che ha denunciato la ditta al TAR Sardegna. (…) Col TAR Sardegna abbiamo stravinto, con il Consiglio di Stato abbiamo perso perché hanno fatto una una sentenza politica.”
Quest’avanzata delle tecnologie verdi non stupisce più nessuno. I comitati, ed Edoardo in particolare, hanno studiato a fondo i meccanismi di accaparramento energetico e le politiche che li accompagnano sin dagli esordi:
“Questa corsa all’oro c’è già stata, adesso hanno ricreato lo stesso meccanismo e quindi si è ricreata anche la corsa all’oro. […] Questa è la nuova tornata di un meccanismo che è ciclico e tipico di come l’Italia assolve gli impegni che prende con l’Unione Europea. Sulle rinnovabili c’era stato il Conto Energia con il governo Berlusconi Ter, avevano iniziato a fare questo gioco delle incentivazioni […] era stato talmente una mafia… Avevano finito i contributi praticamente un minuto dopo aver aperto lo sportello. […]”
Da allora si sono proposte le rinnovabili sotto varie forme e versioni, pur di portare avanti la colonizzazione di stampo green, continua Edoardo:
“Il meccanismo era quello di rendere accettabili gli impianti fotovoltaici nelle aree agricole facendo finta che tu facevi convivere agricoltura e produzione elettrica con delle specifiche di legge ridicole, perché tu non potrai mai avere un’azienda agricola che guadagna di più dall’agricoltura che dall’elettricità. Sono due ambiti economici che hanno ordini di grandezza [e] un volume d’affari completamente incomparabili.”
Il progetto più grande in cui si inscrivono i numerosi parchi rinnovabili è quello di far diventare il Mediterraneo un hub energetico, prosegue Edoardo:
“L’aveva già detto il Governo Renzi a suo tempo con il Piano energetico nazionale. È un’idea che hanno, perché comunque l’insolazione è maggiore, i venti in Pianura Padana non ci sono e i terreni costano di meno, l’agricoltura è molto più debole, c’è poca gente […] Il Governo italiano non ha nessuna intenzione di gestire pubblicamente questo settore qua e quindi apre le gabbie […] Dobbiamo arrivare ai numeri che ci dice l’Unione Europea. Per me è un modus operandi: questa non è un’emergenza, è il modo in cui fanno le cose. Ci sono ancora ponti che non sono stati ricostruiti dall’alluvione di dieci anni fa. Tutta una situazione di abbandono che quando vedi poi che i milioni ci sono, ma sono solo per speculatori che di questo posto non sanno niente di niente e lo usano solo come piattaforma energetica per i loro affari, la rabbia cresce. Perché ti rendi conto che a questa gente del futuro della Sardegna non gliene frega niente di niente.”
Un tale progetto elaborato a scatola chiusa, nelle stanze ministeriali di Roma, avrebbe delle conseguenze disastrose, sia a livello locale che globale. Gli impatti che ci vengono raccontati sono solo la punta dell’iceberg di un possibile annientamento di interi territori. La presenza delle pale impedirebbe il sorvolo dei mezzi aerei, in particolare dei Canadair necessari per spegnere gli incendi frequenti nell’area. Inoltre, la loro installazione comporterebbe l’allargamento delle strade che devono essere ampie almeno 10 metri per permettere il passaggio dei camion, con conseguente abbattimento di alberi e distruzione dei muretti a secco, una delle caratteristiche più importanti del paesaggio sardo.
“In ognuno dei nostri muretti a secco c’è l’identità della nostra isola, macchia unica che raccoglie biodiversità, specie endemiche floristiche, […] animali tutelati a livello internazionale, in Allegato 2 della Direttiva Habitat per le quali bisognerebbe fermare ogni genere di intervento. […]”
Una contraddizione ancora più lampante è proprio quella che ci racconta Lara, naturalista di professione: le politiche europee e statali di tutela e conservazione della biodiversità terrestre e marina sono completamente accantonate per far posto a una sostenibilità da contabilità economica, più che a un’effettiva protezione degli habitat.
“Le specie che popolano questi muretti e ne compongono il mosaico di biodiversità sono diverse: la testuggine moresca (Testudo graeca), il piccolo geco (Phyllodactylus europaeus) che si trova proprio nelle pietre che compongono i muretti, una specie per la quale la Regione Sardegna spende decine di migliaia di euro per osservarla, studiarla e proteggerla. L’elenco delle specie che dovrebbero essere tutelate non finisce qui: la tottavilla (Lullula arborea), l’aquila reale (Aquila chrysaëtos), il falco pellegrino (Falco peregrinus), il grifone (Gyps fulvus), la pernice sarda (Alectoris barbara), la lepre sarda (Lepus capensis mediterraneus) ma anche altri lepidotteri endemici. […] Tutte le specie endemiche di avifauna di uccelli che migrano nella parte occidentale del Mediterraneo attraversano la nostra isola per alimentarsi, si fermano nei nostri boschi […] Abitano nelle zone rurali con radure e macchia, quelle oggetto degli interventi. […] Quindi non è un muro, è una storia, in ecologia si chiama ecotono: è un margine che contatta due ambienti. […] Mi rendo conto di anno in anno cosa sta accadendo: c’è una frammentazione di ambiente terribile […]. Abbiamo un abuso di consumo di suolo dovuto a strade inutili, enormi, progetti su progetti, cinque progetti su una stessa viabilità. Cosa vuol dire? Sei un incapace: non l’hai fatto bene la prima volta, neanche la seconda e lo fai ancora, la terza vuol dire che qualcuno a questo gioco ci guadagna. Non ci guadagna il suolo.”
Il racconto di Lara ci colpisce anche per la sua capacità di trasmetterci la connessione che intercorre tra umano e non-umano nell’isola, un legame che la società estrattivista tenta di annientare attraverso ritmi di lavoro serrati e condizioni di precarietà economica e sociale estreme.
“Ah che bellini gli animali, le piante… Non è così… Cioè il mondo funziona perché esistono specie che costruiscono un ecosistema di cui facciamo parte e che consentono che questo ecosistema stia quanto più possibile in equilibrio e che sia produttivo nel tempo. Significa il nostro futuro; se interveniamo in maniera così pesante, incontrollata, sconsiderata, non vista a livello sistemico, stiamo rischiando tutto. La storia, l’identità e la vita stessa.”
Una condizione che costringe sempre più giovani a migrare, a lasciare l’isola. Un fenomeno di più larga scala che osserviamo anche in territorio piemontese, nelle zone di montagna e campagna, distanti dalle metropoli. I giovani che rimangono ad abitare questi luoghi difficilmente si sentono protagonisti nelle lotte portate avanti dai comitati, sia nel continente che in Sardegna. Questo ci sembra un tema importante, per cui riportiamo alcuni aspetti, sottolineati da Miriam, che riteniamo cruciali e che riguardano interrogativi che ci poniamo anche noi in Confluenza.
“Il discorso della partecipazione giovanile è molto complicato, se ci metti l’epoca in cui viviamo, se ci metti il fatto che la Sardegna a un giovane dà poco o niente. Cosa devi dare a una terra che più o meno ti manda via? Perché è stata resa così… Non è che la Sardegna sia chissà quale paradiso per qualcuno che vuole vivere nel 2024. […] C’è questo richiamo del sardo, ma la maggior parte di noi non ha voglia di fare una vita di stenti per poi ritrovarsi in una condizione ancora più precaria. Cioè, paradossalmente non troviamo casa a Cagliari, che ha il secondo mercato immobiliare peggiore in Italia dopo Milano. Come fa uno studente ad accedere al diritto allo studio se non trova neanche la casa? È complicato. È facile tirare e puntare il dito contro chi non c’è. Però bisogna capire perché quelle persone non ci sono. Forse questo movimento non parla neanche con i giovani, forse non parla la lingua dei giovani, forse non ha cercato un giusto approccio o forse dovrebbe lasciare spazio ai giovani in misura maggiore. Sono tante le domande che potremmo farci. È molto più facile dare risposte immediate piuttosto che farsi le giuste domande, secondo me. E non è che i giovani non ci tengano alla questione […] Non è detto che non si dica niente, noi non sappiamo cosa i gruppi di ragazzi più giovani adesso dicano negli stessi gruppi, forse dobbiamo farci noi le domande su come vogliamo coinvolgere gli altri giovani.”
Ormai è buio e lasciamo l’associazione, dandoci l’arrivederci a un altro momento di incontro, che sia in Val Susa o a qualche manifestazione in terra sarda. La famiglia e gli amici di Miriam ci rifocillano con una bellissima cena sarda e qualche calice di vino.
Vogliamo chiudere questa prima giornata con le parole di Lara, che riproducono in noi quella sensazione di approdo in un territorio che è sì sotto attacco, ma è anche difeso strenuamente da chi lo abita:
“Se li lasciamo fare, verremo spazzati via […] Noi quando riteniamo che per qualcosa valga la pena di svegliarsi, in molti, in quasi tutti c’è un moto di identità di presenza: se noi riuscissimo a tirar fuori il meglio, nonostante tutti gli errori e anche il disorientamento che abbiamo, probabilmente ci faremmo ascoltare. […] La Storia ci insegna che quando dal basso la comunità vuole una cosa e persevera, la Storia può avere anche altri finali […] Ci siamo, resistiamo, vogliamo continuare ad esserci. Crediamo di essere sufficientemente numerosi e motivati, diffusi ma forti per fare resistenza a questo momento. Vediamo se, in questo momento storico, faremo la differenza rispetto al passato.”
Venerdì 1 novembre 2024 | Oristano – Villanovaforru – Villacidro
“Ajo, stop devastazione!”
Secondo giorno. Lasciamo la regione del Montiferru per addentrarci a sud, in direzione di Oristano, nella vasta pianura del Campidano, la più grande area pianeggiante della Sardegna. Attraversata dal Tirso, il più importante fiume sardo, la pianura del Campidano con la sua serie di primati geografici è divenuta nel tempo terra di conquiste, soprattutto industriali.
I simboli di questa storia si stagliano all’orizzonte: sono le due imponenti ciminiere di Ottana. È il Polo Petrolchimico realizzato nel cuore della Sardegna e chiuso, dopo 42 anni di produzione, nel 2016. In quell’anno, dopo che Terna, non prorogando il regime di “essenzialità” dell’impianto, aumentò a dismisura il costo dell’energia da esso prodotta, tre operaie occuparono una delle ciminiere, portando la vertenza disperata contro la chiusura dello stabilimento a 180 metri di altezza.
Il Petrolchimico di Ottana fu un fallimento sotto diversi fronti: era stato finanziato nella quasi totalità da fondi pubblici per la “creazione di migliaia di posti di lavoro”, “frenare lo spopolamento delle zone interne” ed “eliminare il fenomeno del banditismo”. Ad oggi, oltre a non aver soddisfatto i requisiti, lascia nel territorio desolazione, giganti in ferro abbandonati, inquinamento. Si parla di questa storia nel documentario “Senza passare dal via. L’industria nella Sardegna Centrale”.
Proprio nella piana di Ottana, a settembre 2024, è sorto un hangar bianco delle dimensioni di 5 ettari (50mila mq) e capace di immagazzinare 20 megawatt. È laEnergy Dome: un nome futurista per definire l’enorme batteria, la prima al mondo, di stoccaggio dell’energia elettrica attraverso l’anidride carbonica. Una mega pila di CO2 a forma di supposta, piantata nella pianura del Campidano.
Qualche chilometro più in là Oristano, per primati, non è da meno. Infatti, è proprio da qui che, nell’estate 2024, ha preso il via una mobilitazione importante contro l’assalto eolico. La città, con poco più di 30mila abitanti, si dirama di fronte al golfo omonimo, presso la foce del Tirso.
Siamo in piena estate quando un signore in sedia a rotelle decide in solitaria di andare al Porto industriale per bloccare il trasporto delle pale. È Luigi Salis, del comitato Ajo stop devastazione Oristano, che dà il via alla mobilitazione e al presidio, sgomberato ripetutamente dalle forze di polizia, e che durante la calda estate sarda provocherà il rallentamento del passaggio dei tir con a bordo i rotori delle pale eoliche. Mario ricorda quei momenti:
“sapendo che ci dovesse essere un’uscita di pale dal porto di Oristano è andato a effettuare il primo vero blocco lì davanti davanti al camion. Il primo giorno era da solo ma poi, dopo un po’ di tempo, sono arrivate altre tre o quattro persone e lì c’è stato quello che poi già dal giorno successivo ha scaturito l’ondata di mobilitazione.”
Al Porto industriale di Oristano ci accompagna Mario, del comitato territoriale contro la speculazione energetica: qui incontriamo un paesaggio distopico, incastonato tra le vaste risaie e le zone protette dove abitano gli iconici fenicotteri rosa della zona.
Attivo in particolare nella movimentazione di minerali e carbone, il Porto di Oristano è anche deposito costiero nonché primo distributore di gas metano in Sardegna. Oltre ai rigassificatori, sono presenti il deposito della Ivi Petrolifera Spa, la Higas Srl per la produzione di metano liquido e la centrale elettrica CWF. All’orizzonte il promontorio a sud del Golfo di Oristano, sede del Poligono militare NATO di Capo Frasca e pertanto zona interdetta interamente all’uso pubblico. Qui si esercitano, durante tutto l’anno, la marina e l’aeronautica militare di Germania, Regno Unito e Stati Uniti.
È in questo contesto che sono state stoccate le prime pale per la realizzazione dei maxi impianti eolici in Sardegna. Ora il presidio non c’è più e un sentimento di attesa aleggia nel vento di Maestrale, che spira da Nord-Ovest e che ci accompagna alla prossima tappa.
“Noi siamo il movimento, non abbiamo bisogno di interfacciarci con nessuno”
Riprendiamo la statale 131 e arriviamo, scendendo a Sud-Est dell’isola, a Villanovaforru. Le dolci colline della Marmilla ospitano il complesso nuragico di Genna Maria che, scoperto nella seconda metà del ’900, ha permesso all’economia del territorio di Villanovaforru, a forte impronta agricola, di svilupparsi anche sul fronte turistico.
Qui abbiamo appuntamento con il suo sindaco, Maurizio Onnis, che insieme al vicesindaco saranno le uniche istituzioni locali che incontreremo durante tutto il nostro viaggio. In questo paese di 600 anime il tema della speculazione energetica, per cui grandi aziende italiane e straniere puntano a realizzare impianti rinnovabili con profitti enormi, è di casa.
Alla nostra domanda per rompere il ghiaccio, rispetto a come, in qualità di sindaco, si sia relazionato con il movimento, Maurizio Onnis dà immediatamente prova della sua internità, rivendicando piena appartenenza a questa e alle precedenti fasi di lotta contro la speculazione energetica, infatti esordisce dicendo “noi [in quanto istituzione comunale] siamo il movimento, non abbiamo bisogno di interfacciarci con nessuno”. Un impegno dunque che va avanti da anni: Villanovaforru, ci spiega il sindaco, è impegnato da oltre 10 anni in lotte ambientaliste. Elemento che ha reso la popolazione recettiva nel comprendere fin da subito la pericolosità del nuovo progetto energetico in programma per il territorio. Già nel 2014 nel paese era nato il comitato Fuori dalle pale, che si opponeva alla costruzione di un impianto mini-eolico di circa 13 aerogeneratori tra Sardara, Villanovaforru e Sanluri, poi realizzato.
“La terra è l’unica ricchezza di Villanovaforru, da millenni. Perché darla via per quattro soldi a chi la sfrutterà per farne profitto, senza alcuna ricaduta positiva per i cittadini? È necessario cambiare mentalità”, scriveva il comitato nello statuto di 10 anni fa. Oggi quelle pale sono ancora lì, sganciate da qualsiasi attività produttiva del territorio.
Il progetto odierno non è diverso. Secondo Onnis la battaglia contro la colonizzazione energetica è fondamentale per garantire una transizione che abbia una maggiore equità sociale. È l’esempio delle comunità energetiche che, secondo il sindaco di Villanovaforru, possono essere uno strumento per l’autoproduzione e l’autoconsumo di energia necessaria al territorio, contrastando la speculazione dei progetti energetici che hanno scale di produzione e fabbisogno che non corrispondono a quelle dei paesi coinvolti.
La comunità energetica di Villanovaforru, che fornisce energia a un centinaio di persone, dentro una sola delle pale che vogliono stanziare in questo territorio, cioè una da 6 MW, ci sta 150 volte. Comprendere i pericoli prima che il danno avvenisse è stato essenziale, sia per Villanovaforru che per altre decine di paesi coinvolti da altrettanti progetti di “assalto eolico”.
“È un assalto eolico”
È il caso dell’ultima tappa della giornata. Percorriamo il restante tratto di pianura per arrivare ai piedi del massiccio del monte Linas. Qui i paesi si sono sviluppati adattandosi alla morfologia della natura, inerpicandosi all’interno delle valli che costituiscono il gruppo montuoso sud occidentale della Sardegna. Villacidro è uno di questi esempi, definito dai locali “sa bidda de is cogas”, il paese delle streghe.
L’alone di mistero e superstizione lascia spazio, nella piazza centrale, alle discussioni sull’eolico. Nella tipica piazza circolare, cinta di tigli e platani, svetta la statua della Madonna e, lì attorno, ad animarla, le panchine rumorose occupate dagli anziani. Dietro di loro è legato alle ringhiere di una finestra uno striscione di stoffa: in Sardegna non ci sono aree idonee.
A settembre 2024 a Villacidro è cambiato l’orizzonte. Qui è stata installata la prima pala eolica alta 200 metri (la Tour Eiffel si staglia per 300 metri); l’impianto – la cui trafila autorizzativa è iniziata una decina di anni fa – ne prevede 9. Data la sua mole, è visibile ad ogni angolo del paese. Sono Luciana Mele e Antonio Muscas a spiegarci l’entità del progetto sul territorio.
Già dal 2012 “abbiamo chiamato gli abitanti di Gonnosfanadiga, di Villacidro, di Guspini e di tutto il circondario alla mobilitazione”. Hanno fatto assemblee, istituito comitati, sono andati anche in Parlamento a Roma. Oggi la problematica si concentra più a livello regionale, vista la quantità enorme di progetti su tutta l’isola, ma secondo Luciana Mele del Comitato Terra Che Ci Appartiene di Gonnosfanadiga, bisogna spostarsi a livello nazionale ed europeo: “questa transizione energetica non ha niente di ecologiconé di sostenibile e non è per nulla decisa dai sardi, né dall’amministrazione sarda né dai politici sardi”, “se lo devono mettere in testa prima di tutto i nostri governi, che sono quelli che recepiscono poi le direttive europee”.
Tutto è cominciato quando, durante il governo di Mario Draghi, sono state approvate una serie di semplificazioni che hanno permesso di presentare richieste per connettere la rete elettrica nazionale agli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Favoriti, poi, dal decreto energia dell’attuale governo di Giorgia Meloni. Il tutto nel contesto della transizione energetica europea recepita, sotto vesti differenti, dai diversi Stati componenti.
La principale conseguenza di questa liberalizzazione è stato un aumento enorme di richieste di connessione alla rete elettrica: nel giro di due anni TERNA, la società pubblica che in Italia si occupa di gestire la rete, ha ricevuto 824 richieste per la connessione di nuovi impianti energetici, pari a circa 60 gigawatt di potenza. – è un assalto eolico, come lo definiscono i comitati sardi.
Sabato 2 novembre 2024 | Cagliari – Selargius
“È un mostro sacro”
In una mattinata di sole e aria fresca di inizio novembre facciamo una passeggiata per Cagliari e, arrivate al porto, ci facciamo raccontare da Marco, un giovane compagno che da tempo si interessa alla questione della speculazione energetica, il ruolo di Saras S.p.A nel piano di transizione che sta investendo l’isola.
Saras S.p.A., di cui è presidente Massimo Moratti, è proprietaria di una delle grandi raffinerie di petrolio del Mediterraneo, con accordi con gli Emirati, legami con le lobby economiche italiane ed enorme peso politico, tanto da uscire indenne da ogni contestazione, anche dalle indagini per disastro ambientale che l’hanno coinvolta ripetutamente.
“In questo momento Saras è tra i principali centri per l’energia verde: carbon credits, produzione – con due campi eolici attivi e altri progettati, oltre a un grandissimo campo fotovoltaico poco fuori Cagliari – e un settore dedicato alla ricerca sull’idrogeno. La particolarità di rinnovabili come eolico e fotovoltaico è infatti di essere fonti di energia discontinue (rispetto a idroelettrico e combustibili fossili), che quindi necessitano di essere stoccate e accumulate. Da questo punto di vista, l’idrogeno, sempre e ovunque disponibile, può essere accumulato con grande efficienza, ma ci sono altre questioni che lo rendono al momento poco efficiente: costi e volume occupato. Per esempio, la dorsale che trasporta gas in Sardegna si vorrebbe anche capace di trasportare idrogeno, ma questo comporterebbe tubi giganteschi proprio perché l’idrogeno occupa un volume molto più grande del gas. Però ha capacità di accumulo immense e potrebbe risolvere tanti dei problemi della produzione; avere tanta energia stoccata significa infatti poterla utilizzare quando altre condizioni di produzione non sono soddisfatte (cioè quando non c’è vento o sole). “
Questi progetti sull’idrogeno, che sono studiati in tutto il mondo – Marco ci racconta di un compagno che fa ricerca a Singapore – in Sardegna sono sotto il controllo di Saras. E pare difficile che possa essere altrimenti, essendo Saras tra i soggetti economici più potenti dell’isola. Saras ci viene raccontato come un mostro sacro, che può letteralmente fare tutto quello che vuole senza vincoli. E in pochi ne parlano. Perché offre lavoro ben pagato, visto l’alto livello di responsabilità e rischio di chi opera all’interno delle sue strutture, diffuse su tutto il territorio. Non mancano legami politici. Molto si dice su Fiumesanto e di Portovesme, ma in pochi menzionano Saras, nonostante il ruolo centrale che sta giocando in questa fase.
Il ricatto salute – lavoro ma anche ambiente – lavoro è servito. Quando la schiena inizia a far male, i giovani partono: per chi rimane qui, o si lavora nel turismo oppure non ci sono opportunità. Il tema del lavoro è centrale in un contesto generale di crisi economica e sociale. E in questo senso Saras se l’è giocata bene, perché di lavoro ne offre parecchio:
“posti ad alta specializzazione, una gerarchia di operai di primo livello, ingegneri fidelizzati da anni e anni che fanno molti progetti con Università e scuole, finanziando la maggior parte delle iniziative in Sardegna. “
Ci sono state diverse vertenze sindacali, dai primi anni 2000, in relazione a morti dovute a malattie e incidenti sul lavoro (un operaio affogato); l’ultima nel 2016, che riguardava un’indagine per disastro ambientale, per versamenti delle acque reflue, è stata archiviata due anni fa. Occorrerebbe indagare e approfondire rispetto a questo aspetto, accenniamo la questione in quanto pone interrogative e per restituire la complessità di una transizione ecologica, in questa sede ci limitiamo ad accennare al tema ripromettendoci di ritornarci.
“Questa lotta raccoglie le complessità della società. Credo sia giusto avere lungimiranza”
Da Cagliari ci vogliono venti minuti di macchina per raggiungere Selargius, piccolo Comune rurale a est del capoluogo di Regione, nel Monserratu, confinante con Quartu, altro Comune che ha visto un’attivazione importante. Costeggiando la statale ci fermiamo al cancello di un casolare e ad accoglierci troviamo due grandi cani, un gatto, due asini, una gallina nera e Robi, Roberto Ladu, un compagno che abita qui e che è da molto tempo attivo nella lotta per difendere il territorio. Ci sediamo attorno al tavolone in legno al centro della stanza e mentre mangiamo miele di Inula viscosa, una pianta che fiorisce in questo periodo in pianura direttamente dal favo, iniziamo a farci raccontare la storia del territorio e della mobilitazione.
“Selargius è un paese che ha un passato di viticoltura, mentre oggi è praticamente un quartiere dormitorio della città di Cagliari. Siamo dentro la Città metropolitana di Cagliari. Esiste ancora una zona agricola, ma comunque è degradata. L’agricoltura, con la prima centrale, ha subito un ridimensionamento. La viticoltura è una voce importante dell’economia. Adesso Selargius ha circa 30.000 abitanti, che per la Sardegna sono tantissimi. Attualmente ci sono gli agricoltori storici e altri – come me – subentrati in questi ultimi 20 anni.
Questo è il contesto quando abbiamo iniziato a mobilitarci: all’inizio conoscevamo poche persone, poi man mano che la mobilitazione si è sviluppata abbiamo iniziato ad avere nuovi contatti con agricoltori più radicati, perché il selargino è ancora legato all’identità del paese. La situazione fondiaria è tipica di un paese in cui si fa poca agricoltura: i terreni sono tutti frazionati. In realtà le proprietà in Sardegna non sono grossissime, esiste qualche grosso proprietario, però comunque tendenzialmente uno è considerato un proprietario medio anche con 5, 6 o 7 ettari di terreno.”
“Quando sono morti gli agricoltori, i figli non hanno continuato il lavoro, perciò i terreni sono stati frazionati in più particelle. Spesso il proprietario attuale non sa neanche di avere quel terreno, oppure che non aveva alcun interesse. Da questo punto di vista chiaramente hanno gioco facile: se la gente non ha un interesse per quel terreno viene più difficile contrastare il Tyrrhenian link o Terna che è una multinazionale che mi mangia in un boccone.
C’è stato molto lavoro precedente alla mobilitazione di massa che c’è adesso. Io personalmente ho iniziato a fare delle piccole attività come piccolo produttore agricolo, più o meno nell’autunno del 2022. Dell’eolico se ne parlava da tempo, era un problema su cui già si discuteva. Era uscito anche un documento di Sardinia Aresti, un collettivo che già faceva emergere la questione degli impianti eolici e del fotovoltaico nel 2021. In questo territorio specifico sorge una delle opere principali di interesse nazionale: Thyrrenian link. Le due centrali che serviranno a accumulare, trasformare e convogliare l’energia prodotta saranno entrambe nel territorio di Selargius e occuperanno 17 ettari di terreno. Le due centrali saranno attorno a un’altra centrale sempre molto importante, perché diciamo rappresenta uno dei due terminali della linea della dorsale sarda, che collega il nord con il sud Sardegna. Uno dei due terminali di questa linea dunque è la centrale che già esiste, costruita negli anni ’80. Le prime iniziative che abbiamo fatto sono state i mercati contadini. Questa iniziativa la facciamo da anni, ma abbiamo deciso di creare all’interno un momento di discussione sulla speculazione energetica. Il mercatino era in una zona molto vicina all’area interessata dal Thyrrenian link, anche se all’epoca ancora non lo si sapeva con precisione. La zona è la stessa dove poi è nato il Comitato Difesa del Territorio No Thyrrenian Link.”
Negli scorsi anni era già stato costituito un presidio chiamato “Sa baracca de su Padru”, su terreni poco lontani dalla centrale di Terna, dove si svolgevano iniziative, ad esempio il mercato contadino.
“Era nato proprio per iniziare a presenziare ed è stato così fino alla primavera scorsa, facevamo attività, ci vedevamo settimanalmente. Poi quando è nato il secondo Presidio… Il Presidio praticamente è solo un terreno, di proprietà di un agricoltore. Lui è stato l’unico che non ha risposto alle sollecitazioni di Terna, a un certo punto ha contattato qualcuno del Comitato per capire cosa fare. C’era un terreno con olivi, poi li hanno tolti la notte: è stato un momento di violenza ulteriore, anche perché avevano già spianato e distrutto tutto. Dopo quel momento è scattata l’occupazione, il 6 luglio 2024. Si è venuta a costruire una situazione super eterogenea: c’era tanta gente del circondario, si è iniziato a costruire, è diventato poi il simbolo della lotta complessiva. È arrivata moltissima solidarietà da tutta la Sardegna, arrivava la gente col camion con alberi da piantare. Poi si è ampliata, adesso c’è una casetta, una tettoia: è diventato un tipico villaggio ormai. Ogni tanto vengono tolte reti, con piccole azioni di disturbo, poi chiaramente è tutto in divenire. Piantare alberi ha suscitato un sacco di successo, le persone vanno a piantare, ad innaffiare. Nel Presidio sono passate migliaia di persone. Questa lotta raccoglie le complessità della società: credo sia giusto avere lungimiranza. “
Insieme a Robi ci spostiamo al presidio, qui incontriamo alcuni ragazzi che stanno facendo lavoretti e scambiamo qualche chiacchiera. Ci sono molte costruzioni, alcune ci ricordano le ZAD francesi, davanti si estendono la centrale elettrica e la recinzione arancione che delimita l’area dove sono iniziati i lavori di cantierizzazione quest’estate.
Continuano le riflessioni di Robi rispetto al futuro di questo attacco, sulla funzione dei cavidotti per esportare l’energia e sul tema della speculazione energetica:
“Adesso hanno iniziato già a mettere le batterie al litio e inizieranno anche a costruire i parchi di batterie al litio, che sono container super pericolosi perché raggiungono temperature altissime. A Uta esiste un progetto di un parco con 500 batterie al litio di dieci ettari: dunque questo è un altro degli aspetti di sottrazione del territorio. Ogni batteria è un container. Al presidio, dove abbiamo già alberato, ci sarà una zona per mettere i container perché chiaramente se realizzano queste opere ci arriverà una ragnatela di cavidotti, perché questo sarà uno dei punti da cui dovranno convogliare l’energia verso la Sicilia, e poi dalla Sicilia verso il continente.
Questo territorio diventerà una catena industriale, la produzione di energia è la corsa all’oro di questi anni. Dicono che il Thyrrenian link è fatto per stabilizzare la rete elettrica, ma è evidente che è ideato per l’esportazione. Il discorso è questo: lo scambio di energia va bene, finché io e te abitiamo a fianco. Quando manca a te, posso darti una mano e viceversa, perché è dimensionato in base alle nostre esigenze. Ma questo è diverso: ci dobbiamo accollare la gestione di un’energia che satura le nostre strutture e poi siamo costretti a cederla ad altri per forza.
Le rinnovabili paradossalmente sarebbero l’unico sistema di produzione della corrente elettrica che si potrebbe spalmare sul territorio in maniera orizzontale, perché si potrebbero gestire su piccola scala.”
E invece le esperienze di autoproduzione di energia non vengono valorizzate, anzi, non esistono incentivi per realizzarle. Un’altra questione su cui bisognerebbe ragionare è la riforestazione, come modello in tendenza da applicare in questi territori:
“Servirebbe per mitigare i cambiamenti climatici. Questa cosa della produzione dell’energia secondo me è un falso problema. Oltre al fatto che c’è una società che vuole sempre più energia per i bisogni che non sono bisogni nostri. Un aspetto su cui riflettere è l’impossibilità in tendenza permanente di svolgere un’attività essenziale come quella della produzione di cibo, che comunque è un’attività importante per la messa in discussione dei sistemi di economia che dominano.”
Cala il buio sui tralicci, dopo aver visto il presidio più “storico” di Sa Baracca saliamo in macchina e torniamo indietro.
Domenica 2 novembre 2024 | Isili
“Sta cambiando pelle, ma è pur sempre un serpente”
La strada per Isili si snoda attraverso le colline. Siamo nel Sarcidano, al confine tra sud Sardegna e Barbagie. La natura è rigogliosa: sono infatti numerosi i corsi d’acqua che attraversano il territorio. Aree incontaminate, boschi, emergenze archeologiche – come il nuraghe Adoni nella località di Villanovatulo – convivono con aree di produzione agricola, alcune intensive. Uno dei settori più importanti oggi è quello degli ortaggi, in particolare i pomodori. Il nostro sguardo si sofferma anche su grandi impianti eolici e fotovoltaici. Per esempio, il parco eolico del Monte Guzzini (che attualmente comprende 26 torri da 80 metri) e l’impianto fotovoltaico di Perd’e Cuaddu, un’area industriale mai decollata.
Isili ha circa 2400 abitanti; raggiungiamo il paese dopo un’ultima salita. Come la maggioranza dei comuni sardi è in calo demografico e i tagli ai servizi sono considerevoli. Si riduce l’orario di apertura dell’ospedale, chiudono uffici postali e INPS. Ad accoglierci è Luigi Pisci, con altri compagni e compagne di lotta del Comitato Sarcidano Difesa Territoriale. Ci ritroviamo alla libreria e caffè letterario Nuova Godot, un polo culturale che aggrega adulti e bambini. Nell’espositore all’ingresso una selezione di libri su Gramsci. Più in là, testi sulla Sardegna e volumi per ragazzi. Sono otto i partecipanti all’intervista, altre persone arrivano in seguito: in tanti vogliono ascoltare e raccontare.
Il comitato è nato a gennaio 2023, quando alcuni cittadini hanno letto sul sito della Regione la proposta di progetto per un impianto di sei torri eoliche alte più di 200 metri nell’area di Perd’e Cuaddu. Studiando la documentazione e confrontandosi in assemblee territoriali, i membri del comitato hanno scoperto che non è l’unico progetto di rinnovabili che dovrebbe interessare Isili e dintorni. Si aggiungono altre proposte di parchi eolici: ad esempio, uno nell’area di Nurri e uno sull’altopiano di Serri, oltre al cosiddetto “repowering” del parco di Guzzini, lo smantellamento e la sostituzione delle torri esistenti. Tutti progetti dalle 6 alle 16 torri, che modificherebbero il paesaggio circostante. Ma non solo. Anche qui ci parlano di progetti calati dall’alto, di assenza di benefici per la popolazione, di impatto ambientale e mancata tutela e valorizzazione dei luoghi identitari e dei beni archeologici.
“Sta cambiando pelle, ma è pur sempre un serpente. Identico a sé stesso: speculativo, predatorio, centralistico, in spregio alla democrazia dal basso e ai diritti delle comunità che abitano i territori.”
Pisci definisce così le dinamiche che caratterizzano questa corsa alla produzione di energia rinnovabile, non diverse dagli altri modelli di sviluppo (fallimentari) della storia della Sardegna. In tutte le località che abbiamo attraversato, ci hanno raccontato che il neocolonialismo energetico non può non essere letto in continuità con l’imposizione del modello industriale, della petrolchimica, delle miniere, delle servitù militari e dei processi di turistificazione. Ma per il comitato, “essere nel mirino delle speculazioni delle multinazionali”, oggi significa anche privare la popolazione di una delle ultime opportunità possibili: quella di sviluppare una vera rivoluzione energetica locale.
“Per noi questo è il furto di una possibilità. Perché se la transizione energetica la faranno le multinazionali per esportare, non ci sarà spazio per farla per noi, perché tutta la rete elettrica sarà intasata dalle loro esigenze.”
Per il comitato, questa è quindi una corsa contro il tempo, per non perdere la transizione né il proprio territorio. La strategia scelta è stata quella di organizzarsi in loco per lottare contro i progetti, formulando anche osservazioni e proposte, così come alcuni avevano già fatto in difesa della sanità pubblica. Il rapporto di scambio e informazione costruito sul territorio permette di rispondere in modo compatto e consapevole: tutta la comunità sembra essere contraria ai mega impianti. Intuiscono poi l’importanza di non rimanere isolati e quindi di mettersi all’opera per elaborare una strategia per essere incisivi nell’opposizione al governo regionale.
“Abbiamo deciso di aprirci alla società sarda nel suo complesso. Abbiamo pensato che i comitati [già formalmente organizzati] non bastassero più a fronteggiare quello che stava accadendo. Quindi ci siamo messi a elaborare una strategia che potesse permetterci di penetrare con più efficacia dentro la società sarda e coinvolgere maggiormente la popolazione con gli strumenti che potevamo raggiungere, con le forze oggettivamente in nostro possesso. E quindi nasce l’idea di una legge di iniziativa popolare per contrastare la speculazione energetica in Sardegna. “
La legge di iniziativa popolare germoglia quindi in questo contesto di confronto allargato e vede, tra i primi 10 comuni con maggior numero di firmatari, sei cittadine sarcidane. Nasce la Pratobello 24, una proposta di legge urbanistica totalmente sarda, che dica no a una classificazione dei terreni in aree più o meno congrue ma che vieti in modo generalizzato la costruzione di mega impianti eolici e di pannelli fotovoltaici a terra. Ed è in questa chiave che i comitati sviluppano la loro critica al concetto di “aree idonee” per come viene promosso dalla giunta regionale:
““Aree idonee” è un concetto tossico, sbagliato, scivoloso. Stiamo semplicemente parlando di una procedura agevolata e velocizzata per la costruzione di un impianto mega eolico. E non delle caratteristiche del territorio in cui dovrà sorgere. Stiamo parlando semplicemente della rimozione di alcuni vincoli valutativi.”
Malgrado il successo della Pratobello, come ci spiega Rosalba Boi, “la partecipazione democratica non viene concessa” e la giunta comunale preferisce dare priorità al ddl Aree Idonee, sull’onda dei decreti Draghi e Pichetto Fratin. Sgonfiando così la prospettiva della Pratobello. È in questo quadro che si inserisce anche “la demonizzazione e il discredito dei comitati, accusati di essere sponsorizzati dalla destra”, continua Boi. Ma la rete dei comitati è ampia, e se la sua protesta è stata anche cavalcata da alcuni esponenti politici, i comitati come quello sarcidano hanno deciso di farne un uso strategico. In una conferenza stampa a fine ottobre 2024, la rete dei comitati chiede un atto di coerenza nazionale ai partiti che sostengono la Pratobello. Pisci sostiene che se questi partiti vogliono davvero difendere i valori di questa legge possono muoversi a Roma, visto che il governo continua a vedere la Sardegna solo come “una pedina nello scacchiere energetico nazionale”.
Tra i prossimi passi per portare avanti la lotta, si intende alimentare questo “movimento di popolo trasversale”, ossia:
“continuare a mettere insieme tutti i sardi che sono contrari alla speculazione energetica, a prescindere dalle ideologie di appartenenza, di partenza. Chiediamo a questi sardi di trasformare la loro firma in presenza di piazza. Non abbiamo altro da fare. “
Rispetto al tema della strategia è interessante aggiungere una considerazione che viene fatta a partire dalle condizioni oggettive in cui è la Sardegna:
“Secondo me tu non puoi chiedere ai vari territori della Sardegna di andare a fare un presidio permanente in un altro territorio. Cioè ogni territorio dovrebbe presiedere le proprie emergenze, per una questione di logistica, per una questione di forze, per una questione di funzionalità, di controllo del territorio.
Di sentimenti. “
Creare fronti di resistenza quindi, ma anche pretendere finanziamenti pubblici che supportino economicamente una “pannellizzazione democratica”. Conclude Pisci:
“Pannellizziamo i tetti, pannellizziamo i parcheggi, pannellizziamo gli ovili, i tetti degli edifici pubblici. E diamo energia pulita a basso costo alle famiglie, alle piccole e medie imprese, alle strutture pubbliche, in maniera tale che questa rivoluzione energetica abbia una ricaduta benefica. Cambierebbe anche il peso che il costo dell’energia rappresenta per le persone e permetterebbe di renderle autonome dai grandi colossi dell’energia. Perché consumo l’energia che produco.”
L’intervista si chiude con un confronto sul significato della solidarietà energetica. Ricordano che, per essere giusta, essa deve passare da una decisione condivisa sul tipo di relazioni di scambio tra diversi territori italiani. Il comitato ha anche elaborato delle riflessioni sul futuro di queste lotte, che presto, crede, si intersecheranno con la questione operaia. Secondo Emilio questa speculazione va anche letta in dinamiche globali più ampie:
“Il paradosso di questa tentata narrazione “siete contro le rinnovabili e quindi per colpa vostra mancheranno i posti di lavoro” è che c’è un’azione di dumping della Cina nei confronti dell’Europa per quanto riguarda i materiali della transizione. Quindi un pannello non è mai costato così poco, ed è per questo che sta morendo il settore in Europa. Perché da sette mesi la Cina sta mandando pannelli in Europa. […] Oggi installare piccoli impianti per le piccole e medie imprese italiane è semplicissimo ed è anche economico. Quindi questa narrazione non sta in piedi. Il problema è che non c’è imprenditoria italiana che abbia capito l’occasione della transizione.”
Continuiamo a conoscersi e chiacchierare durante il resto della giornata: a pranzo tutti insieme in una trattoria di campagna e poi in passeggiata fino al nuraghe Adoni. È lì che le parole acquistano ancora più significato. Dall’alto del nuraghe ci affacciamo su tutta la vallata. Scrutiamo insieme il paesaggio, immaginando quello che rischia di diventare.
Lunedì 3 novembre 2024 | Seulo – Nuoro – Olbia
“Con i piedi a terra”
Ultima tappa dell’itinerario di viaggio. Ci risvegliamo in mezzo al vitellino e al maialino nero – oltre a cani e diversi gatti – del figlio del sindaco di Seulo, un Comune di poco più di 700 abitanti, che dà il nome alla Barbagia di Seulo ed è conosciuto nel mondo per essere uno dei paesi della cosiddetta Blue Zone, ossia di un’area in cui la speranza di vita è molto superiore alla media mondiale: qui infatti c’è un’alta percentuale di centenari. Partiamo e attraversiamo quasi tutte le sette Barbagie. La strada si inerpica su un monte della Barbagia dell’Ogliastra, uno sterrato prende il posto dell’asfalto, le capre mangiano sulla cima guardando il panorama e le uniche anime che si incontrano sono mucche che camminano lente sul ciglio, ma anche al centro, della strada. Dolcemente si ridiscende per raggiungere la Barbagia di Nuoro e arrivare all’appuntamento con il Comitato Nuorese Contro la Speculazione Energetica, proprio a Nuoro.
Ad aspettarci troviamo Maurizio, Maria Pina, Franca, Gabriella, Luisa [nome di fantasia] che ci accompagnano nella sede del comitato, una stanza dell’ANPI all’interno di un centro commerciale nel centro di piazza Goffredo Mameli, circondata da paninoteche e rosticcerie. Mentre Luisa tiene tra le mani una copia del manifesto di Confluenza che ha stampato, prende avvio la chiacchierata. Inizia Maria Pina a raccontare la loro storia:
“Il nostro comitato è nato a fine agosto 2023 perché siamo venuti a sapere che volevano impiantare queste mega pale eoliche a Nuoro dove ci sono anche dei siti archeologici veramente importanti. A quel punto lì abbiamo deciso di costituirci come Comitato per dire no a questa invasione di pale eoliche nella nostra terra, dapprima solamente nella provincia di Nuoro: poi invece abbiamo saputo che non eravamo da sole, ma era tutta l’isola ad essere compromessa. “
Franca aggiunge:
“Questi progetti non erano ancora stati presentati, quindi abbiamo avvisato l’amministrazione e abbiamo contattato il Comune fino a quando non ci ha ascoltato e siamo andati a tutti i consigli comunali, cercando di coinvolgere soprattutto il sindaco. Perché il problema è che con il decreto Draghi nemmeno le amministrazioni vengono informate. “
Per capire l’impatto sul territorio del Nuorese vogliamo entrare nel merito dei progetti previsti in questa zona. Maurizio ci spiega cosa implicano:
“Ci siamo messi a lavorare assieme, abbiamo fatto due iniziative molto interessanti e abbastanza partecipate dove spiegavamo i tre progetti (all’inizio due, poi se ne è aggiunto un terzo) che ricadevano proprio nel territorio di Nuoro: due avevano delle pale che erano distanti poche decine di metri. Quindi progetti fatti senza considerare l’esistente, senza considerare altri progetti, buttati così nel sito del MASE per poter prendere degli appalti, prendere soldi da ditte multinazionali che si organizzavano con studi di ingegneria locali con un capitale di 10.000 euro e che volevano fare progetti da qualche milione di euro, qualcuno anche diversi milioni. Ciò implicava una devastazione incredibile del territorio perché sul monte che è sopra Nuoro, che è anche molto alto, il Monte Ortobene, si sarebbero viste queste pale di 200-250 metri che coprivano tutto l’orizzonte. Ci siamo mossi, abbiamo fatto queste assemblee molto partecipate, siamo riusciti a muovere anche la Giunta comunale che non aveva fatto nessuna lettera al MASE di critica verso questi progetti.”
Il Comitato Nuorese racconta le iniziative intraprese fino a quel momento, dimostrando attenzione alle mosse della Regione Sardegna. Ci racconta anche delle prospettive per il futuro prossimo, a testimonianza del fatto che la lotta non accenna a fermarsi. In particolare Gabriella aggiunge:
“Nella zona della Nurra, nel nord della Sardegna, ci sono un sacco di espropri, hanno iniziato già a recintare… Abbiamo ormai l’esperienza, lo sappiamo come si fa: il presidio.”
Ci sono anche questioni che riguardano gli impianti offshore e ci vengono illustrate le azioni messe in campo in questo senso, Gabriella continua:
“Il nostro coordinamento su questo tema ha proposto che venisse fatta una modifica alla legge Aree Idonee: la scelta di fare un impianto offshore si dovrebbe basare sul numero di giga prodotti, quindi se i giga sono già superati non è possibile fare entrambi gli impianti, bisognerebbe operare una scelta: o offshore o a terra. Devono essere considerati cumulativi, mentre invece adesso lo Stato li distingue: così si può fare sia a terra sia offshore perché non rientrano nei giga di energia prodotta da contabilizzare. Secondo questa logica, per esempio, su tutta la costa orientale non lo potrebbero fare, perché gli unici due approdi che avrebbero sono quello di Olbia e quello di Arbatax, che sono zone industriali che danno sul mare: quindi potrebbero approdare lì, ma sono già saturi perché Olbia ha diversi cantieri a diversa produzione e Arbatax conta la produzione delle piattaforme petrolifere in mare. Quindi sono già saturi, per cui il problema si potrebbe porre altrove. “
La visione del Comitato si rivolge oltre i confini dell’isola, guardando al “continente” e in particolare sottolineando la necessità di un’iniziativa che coinvolga un piano europeo, nazionale e le lotte dei movimenti di altre Regioni. Questa tensione verso altre esperienze è importante. Franca infatti, sottolinea l’importanza di una “lotta che sia condivisa, che coinvolga più territori possibili”. Anche Luisa va in questa direzione dicendo:
“Il problema è il decreto Draghi, che è un classico esempio di neoliberismo sfrenato, aggressivo, assurdo, un qualcosa di insopportabile. Però Draghi rappresenta quelli che sono gli interessi e quindi noi dovremmo anche collegarci a quelli che sono i problemi, dato che ci sono anche nelle altre regioni, e magari fare delle cose insieme, per la salvaguardia del territorio. Noi abbiamo uno Statuto che è limitato e carente, ad esempio anche il problema dell’estensione della Salvacoste1 è in concorrenza con il Governo centrale, non è assolutamente gestito dalla potestà statutaria della Sardegna. Sarebbe molto interessante lavorare tutti insieme perché secondo me l’obiettivo è riuscire a indebolire il decreto Draghi, facendo riferimento alle direttive dell’Unione Europea: il consumo del suolo è una direttiva e non viene assolutamente rispettata con il decreto Draghi. Che l’energia venga consumata dove viene prodotta: quindi il criterio di prossimità è un altro elemento fondamentale e anche questo viene assolutamente schiaffeggiato dal decreto, quindi insomma dobbiamo salvarci anche insieme a tutta l’Italia, noi siamo tutti fratelli.
Io volevo approfittare della vostra presenza qui e vi volevo proprio fare questa domanda: noi stiamo vivendo l’esperienza dei comitati, abbiamo qualche presidio, ma voi con l’esperienza No Tav avete un’esperienza attiva nei presidi, siete sul campo, con i piedi a terra, potete darci qualche consiglio?”
È in momenti come questi, in cui avviene uno scambio effettivo tra esperienze di lotta popolari, che germina la possibilità di una trasformazione reale nel Paese, che sia isola o continente. Con i piedi ben a terra.
“La nostra cultura, che si voglia vedere come arretrata, rimane la nostra cultura”
Salutati i membri del Comitato Nuorese, raggiungiamo Paola Lai, attivista di Ventu Hontrariu – comitato orgolese contro la speculazione energetica, in piazza Sebastiano Satta, in una cornice di bianco e sculture di Costantino Nivola. Le sculture, ricavate da massi di granito proveniente dal Monte Ortobene, costellano uno scenario luminoso, in cui la voce di Paola risuona chiara e cristallina. Lei è di Orgosolo, il Comune famoso per i murales di Francesco del Casino e Pasquale Buesca, oggi diventato l’epicentro simbolico della lotta a favore della legge Pratobello, a seguito della forte presa di posizione da parte del Sindaco in carica. Ci racconta Paola:
“Allora in realtà noi ci accorgiamo del problema nel momento in cui tocca. Egoisticamente te lo devo dire così, tocca a noi e ci accorgiamo del problema, perché sapevamo dell’esistenza di impianti soprattutto nel sud Sardegna e anche nel nord Sardegna come in Anglona, Nurra… Il centro Sardegna era stato sempre meno interessato perché noi abbiamo un certo tipo di altezza, l’eolico deve stare in altura ma non troppo in alto per poter funzionare, quindi in realtà non si erano mai interessati a noi fino a quando non arrivano questi finanziamenti del PNRR. A un certo punto questi soldi, che vengono presi in prestito e che tutti noi dobbiamo restituire, fanno gola a tutta una serie di figure… La cosa è strana, balza subito all’occhio. Per quanto riguarda i due progetti di Orgosolo sono tutti e due eolici, uno da nove aerogeneratori, l’altro da undici. Il primo proprio di fronte al nostro Paese. Quindi tu lo vedi: il Corradi, che è una delle vette principali del Supramonte, e poi subito dopo c’è questa piccola collina, e lì sarebbe dovuto sorgere il primo impianto. Ti dico subito che sono impianti di taglio industriale, loro li chiamano “parchi” perché “parco” è una parola un po’ neutra. Quando tu dici “impianto industriale”, già le persone un po’ cambiano prospettiva… Se tu lo chiami “parco”, sai, “parco” può essere un parco giochi, un parco naturalistico, cioè la parola mette tutti un po’ più d’accordo, è un po’ più soft, invece in realtà sono dei veri e propri impianti di taglio industriale per la potenza di energia che avrebbero dovuto produrre. “
Però l’attivazione c’è stata e la leva dell’appartenenza identitaria è stata forte, in profondità ci sono le questioni che riguardano la crisi sociale ed economica.
“Noi siamo 4000 anime e abbiamo 350 aderenti al comitato: posso dire veramente che un 70% della comunità ha capito ed è contraria. La cosa che secondo me un po’ hanno sottovalutato è che questa protesta nasce dal basso e nasce in un momento storico in cui c’è una serie di disservizi che qui stiamo subendo da anni, la situazione si è cronicizzata. Ci stiamo indebitando per far realizzare degli impianti industriali a delle società private che poi magari non metteranno mai in funzione – perché abbiamo già un surplus di produzione di energia – con soldi del PNRR. I problemi sono tanti, scuola, sanità, trasporti, lavoro, non vediamo garantiti i diritti fondamentali, non abbiamo più i medici di prossimità: da quattro medici ad Orgosolo ora non ne abbiamo più, nel giro di cinque anni. Il Comune si è attivato per fare un servizio dove si alternano dei medici, che però sono medici che dopo un po’ di tempo vanno via perché si stancano, perché scade il contratto, perché il contratto non gli viene rinnovato, perché magari si spostano e questo problema si collega alla questione dei trasporti inesistenti. Secondo me si stanno sommando tanti problemi più critici, più sentiti e questa cosa poi ci è piombata così… E in più anche questa cosa delle servitù: ci sentiamo colonia. Parlano tanto di turismo: la maggior parte del turismo in Sardegna è fatto da società che sono della penisola o estere. Cioè i grandi complessi alberghieri non sono di proprietà dei sardi. Ci lavorano i sardi stagionali, ma non sono i proprietari, non sono sardi. “
Il Comitato si è attivato molto, soprattutto sull’iniziativa di legge popolare Pratobello 24. Ciò che Paola racconta è intriso di storia e cultura, di appartenenza al territorio che si tramanda da generazioni. Questo patrimonio si mescola con la capacità di attraversare un movimento composto da tante anime, spesso molto diverse tra loro, da soggetti che provengono da percorsi diversi, molto spesso digiuni di attivazione di base.
“Allora da poco ho trovato una una cosa scritta da Tomaso Montanari in cui cita una vicenda al tempo di Napoleone, quando veniva fatta razzia di opere provenienti da tutti i Paesi per portarle in Francia, e un consigliere osserva: “Tu stai portando queste opere in Francia? Ma il paesaggio, i profumi, quelle strade, quelle colline, quelle campagne, la loro biodiversità, tu non la puoi portare in Francia.” Ed è questo che non stanno capendo, la nostra terra sta venendo distrutta da un punto di vista identitario, perché noi siamo profondamente legati alla terra e alla nostra cultura. Questo non si riesce a capire dall’esterno: la Sardegna ha delle caratteristiche che non ci sono da nessun’altra parte. Il bosco, il mare, la natura, le coltivazioni, il vino… Noi siamo biodiversità umana! Se non si inizia a ragionare in questi termini, non andremo mai da nessuna parte. Loro ci vorrebbero tutti uguali, noi non siamo uguali, siamo diversi. Sono concetti astratti, ma è su questo tema che bisogna tenere il baricentro. Loro vogliono utilizzare la Sardegna a uso e consumo.”
Come molto spesso accade, chi si attiva contro progetti devastanti per l’ambiente viene etichettato come il solito retrogrado contro il progresso. Le parole della nostra interlocutrice dimostrano l’effettivo contrario: scivolando da un riferimento culturale all’altro, con Paola facciamo un viaggio artistico, culturale, storico nel retroterra sardo.
“Loro ti tacciano, finiscono sempre con il discorso: “Non volete il progresso, siete i soliti ottusi”… No! Noi non è che non vogliamo il progresso, non abbiamo le ferrovie! Io se mi muovo da Nuoro non riesco ad arrivare a Cagliari, capisci? Allora tu non mi puoi dire che non vogliamo il progresso da quando ci sono stati i piani di rinascita. Ci sono degli articoli bellissimi degli anni ’50 di intellettuali sardi che sembrano scritti oggi. Io da poco ho trovato sul libro di mio padre un articolo del 1954 che è intitolato L’anelito della Sardegna, che parla di questa sofferenza, di questa terra bistrattata dai sardi e dai non sardi che ogni volta vengono, prendono e non lasciano assolutamente niente. Noi abbiamo avuto un Piano di rinascita fallimentare, abbiamo avuto finanziamenti ad imprese che hanno costruito capannoni che sono stati abbandonati. Il petrolchimico del centro Sardegna non ha funzionato. Hanno voluto cambiare la cultura agropastorale per farla diventare operaia, ma noi non avevamo una cultura operaia, cioè noi vivevamo dalla terra. La nostra cultura, che si voglia vedere come arretrata, rimane la nostra cultura, e quindi se viene imposto un cambiamento dall’esterno, un cambiamento esogeno, lo rifiutiamo. La cosa drammatica è che loro non ci conoscono, non ci conoscevano ieri e non ci conoscono oggi. Se veramente si parlasse di benessere della società, si cercherebbe di rivitalizzare i centri storici, si cercherebbe di sostenere le attività scolastiche, si cercherebbe di incentivare l’agricoltura, l’agricoltura di filiera cortissima, di qualità: noi abbiamo delle eccellenze, come in altre parti d’Italia, per la produzione casearia, per la produzione del vino, dell’olio, abbiamo della frutta ottima… Quindi ci sono delle cose che secondo me potrebbero veramente fare la differenza, se ci credessi veramente. Così creeresti un’economia sana.”
È davvero interessante ascoltare ciò che il Comitato ha organizzato fino ad ora, soprattutto utilizzando linguaggi diversi per coinvolgere più persone possibili.
“Abbiamo organizzato presentazioni di libri come quello di Fiorenzo Caterini, un antropologo che ha scritto dei libri sul disboscamento, perché Orgosolo come tutta la Sardegna è stata interessata dal disboscamento per costruire le traversine per l’Italia. Abbiamo organizzato proiezioni di film, una mostra, perché Francesco Del Casino, l’artista che ha realizzato il maggior numero di murales ad Orgosolo e fa parte del nostro Comitato, ha voluto donare delle tavole. Lui lavora molto sul pensiero gramsciano; in queste tavole si parla di transizione energetica. Volevamo utilizzare linguaggi diversi per parlare della stessa cosa, perché non tutti hanno la stessa predisposizione al dibattito o altre iniziative, quindi usare diversi linguaggi permette di fare cogliere maggiormente il senso di quello che stiamo facendo. Oppure attraverso l’arte, la scultura, la fotografia: c’è infatti anche una sezione dedicata alla fotografia di Gianluca Chiari che è un fotografo di Astino, un grande conoscitore del Supramonte, così lui ha raccontato il nostro paesaggio.”
La vicenda che riguarda la legge Pratobello è emblematica in questo senso, nell’ottica del coinvolgimento. Strumentalmente viene utilizzata dalla narrazione mainstream come un esempio di attivazione a tratti con istanze confuse, viene etichettata come una mobilitazione ambigua, per la sponsorizzazione da parte di sindaci orientati a destra e da parte del giornale di riferimento di quella compagine, L’Unione Sarda. Ma l’intelligenza e lo sguardo lucido di chi vede oltre si ritrova nelle parole di Paola:
“Una delle critiche che maggiormente sono state fatte, anche rispetto alla legge di iniziativa popolare, era che siamo manipolati da un giornale e che dietro c’è la destra. Allora, siccome è un movimento eterogeneo, certo che tra queste 211.000 firme avranno firmato anche persone che sostengono e hanno sostenuto partiti di centrodestra: è chiaro che in una democrazia succede, ma questo cosa vuol dire?
Il giornale di cui loro parlano io non l’ho mai letto, non lo leggo e penso non lo leggerò mai. Leggo soprattutto giornali indipendenti, leggo altro e, soprattutto, leggo libri. Quando leggo il pensiero di Gramsci e penso che scriveva queste cose negli anni Venti, e allora mi viene un po’ di magone da sarda. Perché non l’ascoltiamo? Perché non abbiamo mai ascoltato Gramsci, Lussu che ha scritto il nostro Statuto, ma anche Michelangelo Pira, l’antropologo che ha fatto un’analisi sulla cultura sarda, sull’imposizione di una scuola italiana in un territorio dove il bambino del medico veniva trattato in un determinato modo, il bambino del pastore veniva trattato in un altro? Che questi [il proprietario del giornale, i politici] abbiano interessi: sicuramente. Noi dobbiamo stare concentrati sull’obiettivo: il nostro obiettivo è cercare di tutelare il nostro territorio dalla speculazione, non dalla transizione. All’interno del comitato c’è veramente di tutto. Da me che sono mamma, dall’ingegnere all’avvocato, al giardiniere, dall’anarchico all’indipendentista, da quello di destra a quello di sinistra, a quello che ha una visione un po’ democristiana della politica, che è ancora legato a un certo tipo di rappresentanza.
Perché secondo me la società è fatta da tante anime. Il problema è che loro hanno sempre cercato di manipolarci, di voler racchiudere un movimento in un partito, ma noi non siamo un partito, la nostra è un’azione politica nel senso nobile del termine, cioè non politica uguale ai partiti: noi non siamo quello, quello lo fanno loro e non lo fanno neanche bene.”
“Le querce hanno lasciato il posto agli specchi di silicio”
Si riparte verso il nord della Sardegna. A tratti scorgiamo il mare, si avvicina l’isola della Tavolara e sappiamo di stare arrivando in Gallura, area molto attiva nel movimento contro la speculazione energetica. A Olbia, centro turistico importante, in un bar davanti al porto da dove a breve partirà la nostra nave, incontriamo Maria Grazia Demontis, volto noto del Coordinamento Gallura contro la Speculazione Energetica. Con vigore e determinazione Maria Grazia chiarisce così la sua storia:
“Prima di ora non ho avuto esperienze di militanza sul campo vera e propria, magari ho dato un sostegno esterno, ma vera così diretta no. Ora la mia vita è diventata questa, cioè io la mia vita l’ho presa e l’ho messa da una parte. In realtà è perdere tutto per avere tutto. Perché per me questa terra è una seconda madre, è la Madre che non ho più. Io e molti altri e molte altre, le mie compagne più strette, anche perché poi è un comitato molto femminile… Infatti quando vi ho viste arrivare ho pensato: cavoli, è proprio nell’aria questa cosa!”
Poi ci introduce nella storia del territorio, in particolare nella storia dello sfruttamento energetico della Sardegna nordorientale che ha già conosciuto l’imposizione di impianti nel corso degli anni.
“La questione transizione energetica con impianti rinnovabili in Sardegna è una questione molto lunga. La Sardegna ha conosciuto impianti eolici già nei primi anni 2000. Siamo stati la Regione con l’impianto eolico più grande addirittura d’Europa ai tempi, con Buddusò a Alà Dei Sardi con 64 generatori, tuttora attivo che di fatto per la comunità – a loro detta – è un grande valore perché ai tempi c’erano ancora le royalty, quindi gli incentivi sulla produzione erano a favore del Comune. Quindi inizialmente anche la consapevolezza di quello che significasse questa transizione in Sardegna è stata un po’ dubbia, perché c’era sempre questa narrazione che l’impianto eolico significava tanti soldi per le casse del Comune. Perché di fatto Buddusò a Alà Dei Sardi guadagnano tantissimi soldi, si va dagli € 800.000 fino a € 1.000.000 l’anno di incentivi per la producibilità.
Viviamo da tempo quindi l’atteggiamento colonialista della civilizzazione, dell’importazione di un’evoluzione, di un’emancipazione, che in questo caso passa per le rinnovabili. Tempo fa è avvenuto con il piano industriale, con gli impianti di Porto Torres, Portovesme, Ottana che sono stati dei fallimenti totali. Ad Ottana addirittura il fallimento è arrivato dopo due anni: dopo due anni i pastori, che sono stati sradicati dal loro contesto e dal loro saper fare per diventare degli operai, erano già in cassa integrazione, dopo due anni un fallimento totale. Portovesme, Porto Torres, ogni anno ci sono lotte continue, ci sono state varie trasformazioni dal petrolchimico. Insomma, adesso si sa, si brucia carbone per produrre energia. Ma a chi serve questa energia? È anche quella una servitù. Oggi questa nuova invasione è diffusa su tutto il territorio. Noi stiamo parlando di mega impianti industriali, non stiamo parlando di quello che era il concetto originario europeo ovvero autoconsumo collettivo, comunità energetiche, democrazia ambientale.”
E così oggi la mobilitazione, che è diffusa e radicata, prende avvio da una storia importante di lotta che non a caso ha costituito l’humus su cui poggia questa nuova attivazione.
“In Sardegna la lotta e la resistenza c’è sempre stata: è ovvio che la possibilità di allargare, di coinvolgere tante persone non è sempre facile, perché spesso purtroppo, se non ti arriva sotto casa non ti rendi conto. Questo tema sta toccando uno degli anelli più forti della nostra esistenza come comunità, come popolo: l’identità culturale del paesaggio. Vivere in Sardegna è una scelta difficile e l’unica cosa che ci tiene ancorati qua è la bellezza del nostro territorio, non solo del mare, delle coste. Ma, se qualcuno ha la possibilità anche di scoprire la Sardegna rurale, la Sardegna dei nostri boschi, 8000 km2 di boschi, che sono un patrimonio non solo naturale e identitario perché noi abbiamo rapporti vivi, veri, con le nostre querce, con le nostre sughere. Ci sono delle tradizioni di tessitura, legate alla lavorazione del sughero. Fa parte della nostra vita, della nostra stessa esistenza. C’è un intreccio strettissimo, e quindi aver toccato questo aspetto, che scende in profondità proprio a livello dei nostri antenati, del nostro albero genealogico, ha fatto sì che quello che prima magari portavano avanti piccoli gruppi ristretti di persone che lottavano per la dignità e per la libertà, per la salute, che è stata compromessa sia dalle basi militari sia dai centri industriali di cui vi ho parlato prima, adesso coinvolge tutti perché si tratta di un’invasione.”
In particolare, la Gallura è un territorio particolarmente conosciuto per la ricchezza del suo paesaggio: il mare è ciò che viene più valorizzato, ma Maria Grazia ci narra dell’importanza del territorio boschivo e del radicamento umano, delle esperienze precedenti e del coinvolgimento della popolazione in relazione a queste caratteristiche ambientali:
“La Gallura, nell’immaginario collettivo è un po’ abbinata alla Costa Smeralda. C’è questo luogo comune, ma di fatto questa città è molto difficile, è molto difficile come coinvolgimento. Qui uno degli aspetti fondamentali è l’offshore. Quattro impianti offshore insistono davanti a queste coste più o meno dal largo della Maddalena fino a Siniscola per un totale di 250 torri complessive suddivise in quattro progetti. Questo aspetto è quello che fortemente ha coinvolto Olbia, [gli abitanti] che vedono anche in Tavolara un po’ il loro simbolo, un po’ la madre, quella che ha definito la loro identità e anche il loro orgoglio. E anche l’economia. Il 60% del PIL della Gallura è fatto da turismo e quindi con questi impianti sarebbe irrimediabilmente compromesso.
Però c’è anche un’altra Gallura, che è quella interna, che è ancora molto, molto radicata nel territorio. In Gallura si parla in gallurese, a Olbia lo sentirete poco. Noi siamo 27 Comuni e abbiamo rappresentanti di tutti i 27 Comuni nel nostro Comitato. Una testimonianza sicuramente molto forte è quella di Tempio, dove è stata portata avanti una battaglia, che è stata anche vinta, contro un inceneritore che voleva installare il Comune. Ci sono stati alcuni personaggi che si sono battuti con determinazione e fanno parte del nostro Comitato oggi.”
Ci sono dei legami forti con la propria terra, qualcosa che va al di là della propria origine e al di là delle oggettive conseguenze devastanti per l’ambiente. Smuove corde profonde, tocca alcuni temi quasi ancestrali.
“Hanno preso la Sardegna e hanno giocato a freccette qui, qui, qui, nei progetti ci sono anche delle espressioni veramente violente, perché non considerano che questa terra sia vissuta. Dicono che i nostri nuraghi non sono valorizzati, che sono terre – virgolettato – terre di poco valore, perché per loro il valore è solo lo sfruttamento economico. La nostra connessione con i nostri luoghi sacri rappresenta qualche cosa di più, è altro.
Quindi quella terra per me è un valore. Non sei tu che devi definire che cosa ha valore per me. Questo denota una totale lontananza, distacco dai territori che va contro quello che la comunità o quello che l’Unione Europea ha sempre detto: dialogo con le comunità, favorire una transizione che sia a favore di quei territori, a favore di quelle comunità per l’autoconsumo collettivo, ed evitare anche che il luogo di consumo sia lontano dal luogo di produzione. Quindi che tu mi pianifichi in Sardegna che si realizzi il SAPEI 2, il Thyrrenian Link, e poi ce ne sarà anche un altro che prevede la ristrutturazione del SA.CO.I 3 che ci collega con la Corsica… Che cosa stai facendo? Tu stai pianificando l’esportazione dell’energia, che è contraria ai principi della produzione nel luogo di consumo. Quindi si sta disattendendo tutto.”
L’identità si intreccia con altri temi:
“Non per farne una questione di genere, ma di energia. Molte di noi sono proprio disposte a tutto perché questa terra è madre, non è uno slogan. Ieri quando abbiamo visto quelle sughere a rischio è stato un lutto che ci accompagnerà non si sa per quanto, infatti lo slogan anche della Pratobello (che non è solo uno slogan perché abbiamo iniziato con la donazione di 400 alberi a Selargius, quindi si tratta di una pratica reale) è una firma un albero. E noi questo lo faremo, cioè dove ci sarà un angolo pianteremo un albero, perché questo è il senso profondo: non è solo simbolico, è anche far sì che quelle radici possano riprendere vita, diramarsi sotto terra ed essere riflesse in noi, sopra la terra. le nostre sughere siamo noi. Abbiamo un rapporto molto particolare con i nostri boschi. Noi vogliamo essere il risveglio di quella vecchia Sardegna che è madre, che nei nostri riti del Carnevale si esprime. E vogliamo riportare in vita tutto questo. Non c’è nessuna ostilità contro nessuno, non ce l’abbiamo contro la Lombardia, non ce l’abbiamo contro l’Europa, non abbiamo niente contro nessuno. Ce l’abbiamo con chi continua a denigrarci, con chi continua a dirci quello che dobbiamo fare, con chi continua a considerarci servi. Questa terra è vissuta, ci sono delle persone che si vogliono autodeterminare, che hanno la capacità per farlo, perché siamo capaci, non siamo pecorari. Non lo dico come un’offesa, perché per me essere pecorara non è un’offesa. Io sono figlia di allevatori, sono cresciuta in campagna, so che valore ha questo mestiere, ma c’è stata una fase della mia vita in cui mi sono vergognata perché la narrazione era quella. E ora ringrazio profondamente per questa radici che ho avuto che sono la mia forza.”
La capacità di saper trovare una sintesi e la volontà di trovare uno spazio per tutti vengono sottolineate da Maria Grazia, quando racconta le iniziative sul territorio della Gallura, l’impegno delle donne nei banchetti informativi, l’approccio in grado di non respingere l’altro di fronte a differenze di postura.
“Perché noi sappiamo che impegnarsi in un comitato è difficilissimo, perché bisogna avere tempo, disponibilità economiche, ma anche disponibilità di conoscenza, perché molti si chiedono che contributo poter dare, non sapendo cosa mettere a disposizione. In realtà nel nostro Comitato questo problema è stato aggirato proprio dall’inizio perché noi siamo un comitato molto grande, tra i più grandi che ci siano in Sardegna, ha visto il coinvolgimento di tutti, con qualsiasi saper fare possibile: quindi c’era chi si occupava dell’aspetto politico, chi dell’aspetto tecnico, dell’aspetto di coinvolgimento territoriale attraverso la presenza nel territorio. Noi abbiamo fatto banchetti da subito e c’erano le signore che dicevano: “Noi cosa possiamo fare? Siamo in pensione”. E quindi loro si sono dedicate alla gestione dei banchetti, facevano tutti i mercati settimanalmente con i nostri striscioni, le locandine informative, le abbiamo formate e loro quindi hanno iniziato a creare e a rinforzare il tessuto delle relazioni… A ritornare proprio nei centri abitati, negli spazi condivisi per portare testimonianza di questa problematica…”
C’è chi si occupa del monitoraggio sul territorio e intende procedere con la pratica dei presidi, dell’informazione, della costruzione di un sentimento di riappropriazione del territorio che è ciò che permette di difenderlo.
“Come si sta compiendo qui la transizione? A colpi di abbattimento di querce per impiantare il fotovoltaico. Ieri abbiamo individuato due nuovi impianti fotovoltaici alle pendici del Limbara, sempre zona Tempio Calangianus Uras. Noi abbiamo un gruppo territoriale di presidio, quindi abbiamo fatto una mappa dei possibili progetti che potrebbero nascere e quindi abbiamo delle persone che vanno là, che fanno la ronda, e vedono come sono, quando iniziano i lavori, che stato di avanzamento c’è. Perciò di fatto i cantieri stanno andando, stanno andando avanti. Noi stiamo monitorando tutto. Ieri ne abbiamo trovati altri due con tutto il tappeto di querce abbattute e sradicate. Quindi impiantare pannelli fotovoltaici, torri eoliche, distruggendo il nostro patrimonio boschivo totalmente, quando la scienza ufficialmente dice che il principale e maggiore captatore di CO2 sono proprio gli alberi… Quindi si sta sostituendo completamente il paesaggio.
Non sarà un processo sicuramente immediato, come tutte le rivoluzioni vere e durature hanno bisogno di tutti i tempi dedicati. Sì, noi immaginiamo non si sa quanto tempo ci vorrà, ma vogliamo partire dalle radici. Siamo nati per questo, continueremo ad agire in questo senso. Vogliamo creare [un presidio] a Tempio, che è una zona simbolo che in Gallura è veramente già devastata dagli impianti fotovoltaici: un assessore della Giunta, ad esempio, è proprietario dei terreni che ora sono impegnati in fotovoltaico. I terreni sul Limbara sono oramai diventati degli specchi di silicio. Hanno completamente devastato un patrimonio naturalistico e identitario per noi molto forte. E all’ingresso di uno dei luoghi sacri più importanti, la Tomba dei Giganti di Pascaredda, i nuraghe Monti di Deu, anche il nome, capite cosa significa? Ti vai a fare una passeggiata lì e sei circondato da fotovoltaico. Le querce hanno lasciato il posto agli specchi di silicio. E quindi Tempio sta vedendo progressivamente allargare questa area industriale. E quello che vogliamo fare è un presidio permanente, una base fissa, presente, che voglia essere uno spazio proprio culturale.”
Cala il buio, le luci della ruota panoramica al porto di Olbia si riflettono sul muro e sui nostri volti, le tinte del viola danno un senso di impalpabilità: purtroppo il tempo è finito. Con un po’ di malinconia nel cuore ci apprestiamo a raggiungere l’imbarco. Salpare dall’isola di notte fa risuonare il senso profondo di tutto ciò che ci è stato regalato.
CONCLUSIONI | “Per noi questo è il furto di una possibilità”
Il viaggio si conclude qui, ma sappiamo che sarà soltanto la prima di una lunga serie di esplorazioni alla scoperta del mondo che si batte contro la speculazione energetica. Il caso sardo è quello di un territorio ricco di storia e di cultura, colmo di uomini e donne forti e generosi, ed un esempio di reale lotta popolare diffusa.
Da questi incontri, abbiamo capito qualcosa che pensiamo possa essere un’indicazione per molte altre esperienze. Nelle parole di Luigi Pisci troviamo una prospettiva chiara sulle motivazioni profonde della contrapposizione a queste opere:
“Noi, forse ingenuamente, pensavamo che la transizione energetica fosse un processo di trasformazione onnicomprensivo della società. Cioè che, insieme alla produzione energetica, dovesse cambiare, in maniera più complessiva e organica, anche il modo di produrre e di consumare, i rapporti dentro la società, fra chi comanda e chi ubbidisce, e quelli fra l’uomo e l’ambiente.”
Nella lotta, portata avanti da numerosissimi comitati sparsi sull’isola, dalle zone rurali a quelle montane, sino a quelle cittadine e marittime, si coglie una proposta che è strettamente connessa con la volontà di praticare l’obiettivo comune: impedire la devastazione dei nostri territori, l’ultima cosa che ci rimane. I comitati che abbiamo incontrato hanno diverse storie, tradizioni soggettive e territoriali eterogenee che fanno sì che ci siano approcci e modalità di lotta differenti, ma capaci di tracciare nuove traiettorie. Sempre Luigi Pisci va dritto al punto:
“Non abbiamo la possibilità di inventarci chissà quali fantasiose strategie di mobilitazione. Noi abbiamo costruito questo: abbiamo costruito un fronte popolare unico, sardo, trasversale.”
Un altro elemento importante da sottolineare è la diffusa delusione nei confronti dell’operato delle associazioni afferenti all’ambientalismo classico, in particolare Legambiente e WWF, che non sono state all’altezza della sfida che si apre rispetto alla speculazione energetica da fonti rinnovabili. I tiepidi interventi di queste realtà si accompagnano ad accuse di opposizione NIMBY (“not in my backyard”) e da cieco consenso nei confronti delle linee guida del MASE rispetto al ddl Aree Idonee. Su questo argomento Paola Lai spiega chiaramente il suo stupore:
“L’altra cosa che a me ha fatto specie è l’atteggiamento di Legambiente. Ma anche del WWF. Mio marito è [un esperto] avifaunistico. Nonostante non ci sia una letteratura specifica sull’impatto [dei mega impianti] sulla fauna, in particolare sui volatili, sappiamo che ci sono delle conseguenze importanti. Eppure, le organizzazioni che dicono di voler bene alla terra non criticano altro che il fossile. Noi lo sappiamo che abbiamo il fossile, ma noi lo abbiamo subito e non vogliamo subire anche le energie rinnovabili. “
Quello che comprendiamo è che la sfida è molto alta. A fronte di una fase in cui i governi degli Stati occidentali ricorrono alla guerra per mantenere la propria egemonia mondiale, viene organizzata una transizione energetica imposta dall’alto sui territori, legittimata dalla necessità della decarbonizzazione, ma che ha anche interessi ben precisi. Questi interessi che concorrono alla transizione energetica sono chiari e Luigi Pisci lo sintetizza così:
“Sta cambiando pelle, ma è pur sempre un serpente. Identico a sé stesso: speculativo, predatorio, centralistico, in spregio alla democrazia dal basso e ai diritti delle comunità che abitano i territori. Per noi questo è il furto di una possibilità!”
A fronte di un nemico così organizzato e capace di legittimare le sue ambizioni a livello mondiale, dobbiamo prendere delle contromisure. Valorizzare le esperienze di mobilitazione come quella sarda è un primo passo urgente. E far comprendere la riproducibilità su altri territori di quelle pratiche che hanno permesso di bloccare la logistica della transizione è una prospettiva utile all’allargamento delle lotte. Una possibilità per allargare il nostro fronte è quella di cogliere le necessità di non sentirsi isolati e senza riferimenti di chi si vede poco rappresentato da istituzioni che hanno occupato un posto importante nella storia dell’ambientalismo e della “sinistra” . Vogliamo tendere verso un orizzonte in cui trovare insieme le parole giuste, chiare e precise per esprimere le motivazioni del NO all’ennesima colonizzazione e speculazione. Maria Grazia di Olbia esprime così la sua incredulità di fronte alla miopia della compagine della sinistra rispetto al tema della strumentalizzazione da parte delle destre:
“Alcuni intellettuali di sinistra che sono alla mercé del sistema, ci hanno definito popolo bue. Hanno definito le persone che hanno firmato la Pratobello popolo bue. Dicendo che chi ha firmato non ha letto la Pratobello, non era consapevole ed era strumentalizzato dalle destre! – Ora mi vedete, secondo voi, io sarei una persona di destra?! – E se vi fate un giro (e ve lo siete fatto) per tutti i comitati, ci avrete conosciuti, tutti quelli che avete conosciuto sarebbero strumentalizzati dalla destra. Dio santo!
Noi pensiamo che questa battaglia sia trasversale e non avere un cappello politico significa che tutti possono partecipare a prescindere dalla loro appartenenza, e non c’è per noi un’appartenenza politica superiore ad un’altra. Ci sono persone che vogliono difendere questa terra perché la amano e perché non hanno nessun tipo di interesse ulteriore.”
Vogliamo costruire un contesto largo e capace di raccogliere queste esigenze e di fare da megafono per i movimenti che si stanno attivando sul territorio tutto. Miriamo a ricomporre le diverse anime che oggi si sentono schiacciate da un sistema politico ed economico violento e insidioso. E’ doveroso per chi, come noi, si pone l’obiettivo di accumulare forza e saperi capaci di essere all’altezza di questa sfida.
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