di Mauro Ravarino per ilManifesto «Sospetto che quello che è successo sia stato premeditato. Dal pomeriggio di sabato i rom della Continassa avevano cominciato ad allontanarsi spontaneamente dal campo. Perché avevano intuito come sarebbe andata a finire. Mi stupisce che non se ne sia accorta la politica né le forze dell’ordine». Michele Curto, capogruppo di Sel in Sala rossa, è appena uscito dalla Procura, dove ha depositato un esposto sui recenti fatti di Torino. Da 2 anni e mezzo vive al Dado di Settimo, una comunità dove coabitano italiani, famiglie rom e rifugiati politici. Torino sembra scioccata e imbarazzata. Qual è la gravità dei fatti di sabato sera? È una vicenda serissima, la sua gravità la si percepisce meglio leggendo i siti europei di diritti umani che definiscono pogrom quello che si è verificato. Un quartiere operaio e una città di sinistra vengono ora inseriti nella lista nera. Bisogna farsi domande, evitare gossip morbosi sulla ragazzina, anche lei una vittima, o sui rom. Nell’isteria collettiva, si sottolinea che non sono colpevoli. Ma se non fosse stato così, il raid sarebbe stato giustificato? Il volantino che anticipava la manifestazione aveva come parola d’ordine «Ripuliamo la Continassa». Era un’avvisaglia? Era in distribuzione da tre giorni. Ma sabato alle 18,30 le forze dell’ordine erano scarse. Lo striscione «Sì alla giustizia di quartiere» era emblematico. Com’è possibile che non l’avesse capito la politica, compresa la presidente della circoscrizione e segretaria provinciale del Pd, Paola Bragantini, presente al corteo? La risposta di Torino sarà più forte se la città darà finalmente agli invisibili i diritti negati. Chi va oggi alla Continassa nota che manca la microeconomia di sussistenza dei rom – bambole, batterie esauste, giocattoli -, uno dei bersagli dell’incendio. Ne abbiamo visti tanti, ecco perché l’associazione Terra del Fuoco distribuisce estintori alle popolazioni dei campi.
Ma le Vallette come stanno, qual è lo stato del quartiere? È una zona povera, con conflitti tra ultimi e penultimi. Come questo. Ci si sorprende della tensione, ma la politica si è coscientemente disinteressata di ricostruire un tessuto sociale. Quale ruolo hanno avuto i media in questa vicenda? E perché la politica parla sempre di emergenza? Ora i media si cospargono il capo di cenere, ma gli stessi dubbi non li avevano prima. Sottovalutazioni e connivenze sono la zona grigia. All’emergenza della politica bisogna sostituire l’urgenza. L’emergenza autorizza sgomberi e baraccopoli. La priorità politica dovrebbe essere la cucitura del tessuto sociale. Abitare i problemi. Costruire progetti di inclusione, ricostruire senso sociale nei quartieri, dare case ai rom e smetterla di chiamarli zingari. E di considerarli nomadi: sono migranti. Perché il Dado, dove lei vive, è un’alternativa possibile? È la prima esperienza in Piemonte di autorecupero-autocostruzione rivolta alla comunità rom. Sono un ragazzo fortunato: vivo con otto zie e venti bambini. Anche mio padre, uomo di sinistra emigrato dal Sud, prima che andassi a vivere a Settimo, mi disse: «Fai ciò che vuoi, ma non andare con gli zingari». Quando li ha conosciuti, li ha visti costruirsi la loro casa, ha visto che lottavano come aveva fatto lui da giovane e ha cambiato idea. Solo la prossimità ci può salvare.