di Andrea Lattanzi
Prima puntata di un’ampia inchiesta di STAMP. Tangenti legalizzate, criminalità organizzata e protagonisti d’eccezione. La stupefacente e italianissima vita dell’Alta Velocità.
La storia dell’Alta Velocità è stata raccontata tante volte da tanti narratori differenti. Essa è riecheggiata come un’eco inconfondibile in Val di Susa, dove la ragione ha ceduto troppo facilmente il passo alla rabbia. Decine di migliaia di parole ne hanno descritto la costruzione talvolta esaltandone, talvolta screditandone, benefici e utilità. In molti ne hanno già compreso vizi e virtù. Ma se capire è un primo passo, capire “di più” oggi si fa quanto mai indispensabile. Perché è dal passato dell’Alta Velocità che discenderà buona parte del futuro di questo paese, dei suoi giovani, delle loro speranze. Quello che noi cercheremo di fare, perciò, sarà mettere in luce, senza pregiudizi di sorta, le maggiori criticità finanziarie e strutturali di un’importante opera pubblica. Semplicemente, la più grande e costosa che la storia d’Italia ricordi.
Ad inchiodare Necci e i suoi, all’epoca, fu proprio la testimonianza di Portaluri, che da dirigente dell’Eni negli anni Sessanta, approdò all’Agip nel 1981. Qui vi rimase dieci anni, quando nel 1991 fu chiamato alla presidenza della TAV SpA. Abbandonò l’incarico due anni dopo per lasciare definitivamente la società nel 1994, quando ormai aveva compreso il vespaio di corruzione che si annidava attorno alla vicenda della grande opera.
Nella sua deposizione ai pm perugini, Portaluri racconta la genesi del progetto Alta Velocità. “Per la realizzazione e la gestione delle infrastrutture per il Treno ad Alta Velocità, le FS avevano costituito nel 1984 una società, la Italferr Sis Tav SpA (…) con capitale interamente sottoscritto dall’ente Ferrovie dello Stato (…) dopo circa quattro anni la Sis-Tav Italferr era già a buon punto con il progetto della Grande Opera (…) Nacquero diversi consorzi di imprese pronti ad offrire la loro collaborazione e ad assumere incarichi (…). La prospettiva a breve termine, entro la fine degli anni Ottanta, per l’avvio della grande opera era stata delineata dal ministro Signorile; a tal fine aveva predisposto anche lo strumento per affidare gli appalti attraverso gare riservate ad imprese italiane prima della mitica scadenza del 1992. Nel 1987 venne infatti approvata la legge n. 80 che consentiva di derogare dalle norme europee e di affidare alle imprese i lavori attraverso lo strumento della concessione di progettazione e costruzione, già ampiamente sperimentato nella ricostruzione della Campania (nel dopo terremoto del 1980)”. La dichiarazione di Portulari è estratta dagli atti di un convegno svoltosi a Milano nel maggio 2004, dal laconico titolo “La cura del ferro e dell’arco alpino”. Ma essa può essere anche facilmente rintracciata nel libro “Corruzione ad Alta Velocità” del magistrato Ferdinando Imposimato, del quale parleremo più avanti.
Portaluri riconduce quindi allo stesso sistema di gestione della ricostruzione campana la macchina che si occuperà di portare avanti i lavori dell’Alta Velocità. Il precedente, visti i risultati della ricostruzione campana, non sarebbe pertanto dei più incoraggianti.
Quando nel 1984 viene costituita la Sis Tav SpA alla guida delle FS c’è Ludovigo Litigato e ministro dei Trasporti è Claudio Signorile. Quattro anni dopo, come spiega Portaluri, si era «già a buon punto con il progetto della Grande Opera». Ma quattro anni dopo scoppia il cosiddetto “scandalo delle lenzuola d’oro”. La biancheria per i treni notturni era stata pagata da FS a prezzi gonfiati per nascondere tangenti al mondo della politica e dell’imprenditoria. I vertici delle Ferrovie furono travolti dallo scandalo e con loro rimase implicato, naturalmente, anche il presidente Ligato. Lo stesso ministro Signorile fu costretto a dimettersi ed il progetto, con la nomina a Commissario straordinario FS di Mario Schimberni, sembrava vicino all’accantonamento. Un anno dopo, il 27 agosto 1989, Litigato è assassinato dall’ndrangheta.
All’inizio del 1991 tutto è pronto per il Treno ad Alta Velocità. Necci firma così la delibera numero 971 delle Ferrovie dello Stato in una conferenza stampa alla presenza di Iri, Fiat, Eni ed esponenti delle istituzioni statali e governative, fra i quali l’allora ministro dei Trasporti Claudio Bernini. Con quella delibera si dava ufficialmente il via al progetto TAV, con «l’obiettivo strategico di dotare il paese di collegamenti ad Alta velocità, in generale su nuove linee da costruire a cura dell’Ente Ferrovie dello Stato […] la Milano-Napoli e la Torino-Venezia e, ove ricorrano le condizioni, la Genova-Milano». Con la delibera si istituisce la TAV SpA, società partecipata dell’Ente FS alla quale viene affidata «la responsabilità finanziaria e patrimoniale della realizzazione del progetto, affidandole in concessione la progettazione esecutiva, la costruzione e lo sfruttamento economico di linee e infrastrutture per il sistema Alta Velocità». Quel giorno, quel 7 agosto 1991, secondo l’esperto di appalti Ivan Cicconi è nata «la madre di tutte le bugie», come quest’ultimo l’ha definita ne “Il libro nero della Tav” e come ci ha ribadito in due distinti colloqui.
Secondo quanto rivelatoci dal presidente del Comitato di Sorveglianza della Stazione Unica Appaltante della regione Calabria Ivan Cicconi, e secondo quanto questi spiega nel suo libro, nel contratto di concessione, quello firmato tra TAV SpA ed FS per intenderci, «la controprestazione che garantisce al concessionario (TAV SpA) il recupero dell’investimento necessario alla realizzazione della infrastruttura è, appunto, il “diritto di gestire l’opera” […] Nella delibera però di questa previsione non c’è traccia, la gestione del servizio non era in capo a TAV SpA e quindi non era questa la controprestazione con la quale avrebbe potuto rientrare dell’investimento privato e, forse, restituire il finanziamento pubblico». Non sarebbe infatti stata direttamente TAV SpA a beneficiare dello sfruttamento economico dell’Alta Velocità. Non sarebbero state, cioè, le casse di questa società a vedersi entrare i benefici della gestione del servizio e della vendita dei biglietti. Essa avrebbe incassato un canone dall’appositamente costituita TAV-Commerciale, che avrebbe finanziato TAV SpA tramite la commercializzazione dei servizi ad Alta Velocità. I restanti finanziamenti sarebbero rientrati dalle stesse Ferrovie che si impegnavano a pagare «un corrispettivo tale da garantire il recupero e la remunerazione del capitale investito» da TAV SpA.
Al fine di suffragare le sue due ipotesi, Cicconi ricorda che l’attuale presidente della regione Liguria Claudio Burlando, che ai tempi del primo governo Prodi era ministro dei Traporti, ammise in un convegno sulla mobilità svoltosi a Milano nel marzo del 1998 che «quando siamo andati a vedere abbiamo constatato che era una cosa falsa, è bene che si sappia che è finita la quota pubblica del 40%, mentre il 60% dei privati non si è mai visto». Inoltre, Cicconi ricorda di un paio di lettere in suo possesso scritte dall’ex ministro dei Trasporti Luigi Preti, il quale rivolgendosi in una di queste al ministro del Bilancio Franco Reviglio ammoniva che «io ho l’elenco nominativo delle Società che dovrebbero sottoscrivere una parte delle azioni, ma questi sono quasi tutti pubblici […] il cosiddetto capitale privato non arriva nemmeno al 10% […] Tutto sarà pagato dal Tesoro dello Stato se l’operazione si dovesse fare».
Fiat, per ciò che riguarda le “tratte” (7 in tutto, per un costo preventivato nel 1991 pari a 18.000 miliardi di Lire, equivalenti a circa 9,3 miliardi di Euro), firmava con TAV SpA i contratti di progettazione e costruzione delle linee Milano-Torino e Bologna-Firenze. Successivamente essa affidava le sue prerogative di contraente generale a due consorzi di imprese, il CAV.TO-MI per la Milano-Torino e il CAVET per la Bologna-Firenze. Questo ruolo di intermediario frutterà all’azienda torinese circa il 3% dell’importo complessivo del contratto, secondo Cicconi «una sorta di tangente contrattualizzata e legittimata da un contratto fra soggetti di diritto privato».
Iri ed Eni agiranno diversamente da Fiat, firmando contratti da contraenti generali non in prima persona, ma all’interno di consorzi di imprese le cui aziende capofila erano comunque controllate da questi due soggetti.
Il contratto di contraente generale non è previsto dall’ordinamento italiano. Questo istituto contrattuale è stato dapprima sperimentato per l’Alta Velocità e poi istituzionalizzato con la Legge Obiettivo del 2001. Con il sistema del general contractor il committente, ovvero TAV SpA, trasferisce tutti i suoi poteri (pianificare, progettare, realizzare, controllare i lavori) al contraente generale. «Essendo retribuito al 100% dal committente – riferisce Cicconi – il general contractor ha tutto l’interesse a far durare molto e a far costare tantissimo la costruzione dell’opera». Inoltre, vedendosi accreditato anche il controllo dei lavori per le aziende a loro volte appaltatrici delle varie fasi di costruzione, il general contractor di fatto controlla sé stesso, avendo avuto nel caso della Tav, sempre secondo Cicconi, «scarso interesse nel controllare ma molto nel far lievitare i prezzi». Infine, quando ci fu la denuncia da parte del ministro Burlando dell’assenza dei privati nei finanziamenti all’Alta Velocità, «lo Stato ha restituito i capitali alle banche che sono uscite da TAV, la quale è oggi al 100% FS, quindi c’è garanzia totale per i general contractor». Il meccanismo con cui il sistema del general contractor ha fatto lievitare i costi dell’Alta Velocità è stato spiegato dal giornalista Alessandro Sortino grazie all’inchiesta “La stangata” andata in onda su Rai 3 nel 2009 all’interno del programma Presa Diretta.
http://archiviostorico.corriere.it/2006/dicembre/02/Debiti_alta_velocita_carico_allo_co_9_061202018.shtml).
Nel frattempo nel 2002 è stata creata dal governo Berlusconi in carica la società Infrastrutture SpA, la celebre ISPA, che aveva il compito di raccogliere i fondi per le grandi opere. È a questo punto che l’Europa contesta all’Italia il metodo di finanziamento della Tav, ritenendo che i debiti accumulati da TAV SpA prima e da ISPA poi non siano stati debiti inerenti ad una società di diritto privato, ma debito pubblico a tutti gli effetti. Di conseguenza, l’Unione Europea ha chiesto all’Italia di inserire tali debiti nei conti pubblici. Cicconi ricorda che è a questo punto, «con una norma definita dai magistrati della Corte dei conti “anodina”» (che calma il dolore, dal dizionario), che l’Italia riconosce di fatto l’inconsistenza del project financing e del finanziamento privato alla Tav. Nell’ambito dell’approvazione della legge finanziaria per il 2007, la cui discussione avveniva alla fine del 2006, con il comma 966 dell’unico articolo della legge 296, si stabiliva che «gli oneri per capitale ed interessi dei titoli emessi e dei mutui contratti da Infrastrutture SpA fino alla data del 31 dicembre 2005 per il finanziamento degli investimenti per la realizzazione dell’infrastruttura ferroviaria ad Alta velocità “Linea Torino-Milano-Napoli” sono assunti direttamente a carico del bilancio dello Stato». Ecco quindi che quattordici anni dopo la storica conferenza stampa dell’agosto 1991 il cosiddetto finanziamento privato all’Alta Velocità si risolve in una bolla di sapone. Esso era, secondo Cicconi, «una pura e semplice bugia». Una bugia che è servita, nell’immediato, anche a sostenere scopi politici ben precisi. Nella legge 296/2006, la Finanziaria per il 2007, si specificava infatti nell’ultimo comma che l’accollo dei debiti contratti dall’Alta Velocità da parte dello Stato non entrava in vigore, come il resto della legge, dal primo gennaio 2007, bensì dal giorno stesso della data di pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale. Questa è stata pubblicata il 27 dicembre 2006, cosicché il debito accumulato per la costruzione dell’Alta Velocità non finisse sul bilancio del 2007, ma su quello del 2006. Il risultato è stato che il rapporto deficit/PIL del 2006 è schizzato al 4,3%-4,4%, mentre quello del 2007, libero dai debiti della Tav è sceso al 2,4%. Dopo la caduta di Prodi e le successive elezioni politiche del 2008 uno dei punti forti della campagna elettorale del PD è stato proprio l’abbassamento del rapporto deficit/PIL, attuato grazie a quella finanziaria, che aveva riportato il fondamentale indice sotto al 3%. «Ogni buon commercialista avrebbe fatto così» ha ironizzato il mio coinquilino.