A Genova, il 21 luglio 2001, ci andammo anche noi, quasi un migliaio di persone, dalla Valle di Susa. Era il giorno dopo l’assassinio di Carlo. La nostra opposizione al TAV durava già da oltre dieci anni. Andammo a Genova contro i potenti della Terra, contro quei grandi interessi che, in nome del profitto, volevano trasformare i luoghi della nostra esistenza in corridoi di traffico per le merci e i viaggiatori del mercato globale, desolati inferni di ferro e cemento, dove tutto passa e nulla rimane, negati agli esseri viventi, alla socialità, al lavoro buono e liberato.
Ci andammo anche contro la repressione, le cui immagini ci venivano rimbalzate dai telegiornali. La notizia del giovane ammazzato dalle “forze dell’ordine” aggiunse dolore, indignazione e partecipanti al nostro viaggio .
Tra di noi non c’erano solo militanti, ma anche e soprattutto persone comuni, quelli che, attraverso la lotta contro il TAV, avevano acquisito forza , consapevolezza e generosità.
I robot in assetto antisommossa che battevano a file serrate le strade di Genova li conoscevamo già: li avevamo sperimentati mesi prima, il 29 gennaio, a Torino. Era il giorno in cui i Governi Italiano e Francese si sarebbero incontrati, a Palazzo Reale di Torino, per siglare il trattato sulla linea TAV Torino-Lione. Contro quel trattato eravamo scesi in seimila dalla Valle, con treni e pullman: un’ eterogenea, colorata moltitudine: donne e uomini di tutte le età, compresi i bambini, sindaci in fascia tricolore, striscioni, palloncini, personaggi in costume. Le truppe in assetto antisommossa ci piombarono addosso come un nuvolone, blindandoci lungo via Roma e distribuendo manganellate alla prima fila che premeva contro le transenne. Ai palazzi del potere non giunse neppure l’eco delle nostre voci .
Di quel giorno a Genova nulla abbiamo dimenticato: i blindati ad aspettarci all’arrivo, il popolo di volti e voci che scendeva verso il mare, il solleone e il refrigerio dell’acqua spruzzata dai balconi, il corteo interrotto da un esercito di celerini; poi le manganellate, le grida, la nebbia dei lacrimogeni. Ci trovammo in fondo al corteo, a procedere alla cieca, la gola e gli occhi in fiamme, le gambe sempre più pesanti, e loro dietro, mascherati dalla nube tossica, e il rimbombo cadenzato dei loro passi, il battito funebre dei manganelli sugli scudi. Sopra di noi il rombo dell’elicottero, a tener d’occhio le nostre bandiere NO TAV nuove di zecca, inaugurate a Genova.
Tornati a casa, sentimmo della scuola Diaz, di Bolzaneto, della repressione battente e incontrollata; e tutto questo a protezione di un potere subdolo e violento che fa delle istituzioni il ricettacolo e lo strumento dei propri affari e le usa contro il popolo e il futuro di tutti.
Da allora la nostra lotta continua, si è rafforzata , diventando un segno di speranza che va ben oltre la Valle e parla di liberazione dell’uomo e della natura; la sua forza sta nella concretezza, nella volontà di non delegare la difesa dei beni comuni e del futuro di tutti, nella consapevolezza che non esistono mediazioni possibili tra sfruttatori e sfruttati, sui territori come nei posti di lavoro.
Ora stiamo cercando di riprenderci quella che per quarantacinque giorni è stata la libera repubblica della Maddalena, nel territorio di Chiomonte, e che è diventata il fortino di chi difende l’ordine del capitale: la Valle di Susa torna qd essere, come nel 2005 a Mompantero, zona di occupazione militare: cancelli, filo spinato, truppe in assetto antisommossa impediscono l’accesso alle case, alle vigne, ai prati di lavanda, alla cantina sociale, ai luoghi di un lavoro sicuro ed appagante, su cui vivono decine di famiglie. Il museo archeologico, che ospita reperti di seimila anni fa, ritrovati in loco, è diventato una caserma. Le tombe del sepolcreto neolitico sono sprofondate sotto i cingoli dei mezzi militari. La vita animale e vegetale sta morendo per effetto dei lacrimogeni lanciati a migliaia, ad altezza d’uomo, contro la popolazione che il 27 giugno, dalle barricate, cercò di fermare le truppe di occupazione e, il 3 luglio diede inizio all’assedio del fortino.
In quei momenti di grande resistenza popolare, avvelenati dai lacrimogeni urticanti ( vere e proprie armi chimiche, vietate dalle convenzioni internazionali, ma usate contro le popolazioni), sotto i colpi delle ruspe che abbattevano le difese su cui erano abbarbicati donne e uomini di ogni età, assordati dal frastuono degli elicotteri, abbiamo ripensato a Genova. E abbiamo capito che le istanze di allora per un mondo diverso possibile continuavano concretamente con la nostra resistenza.
Abbiamo sentito Carlo con noi e abbiamo gridato anche il suo nome, insieme ai nomi e alle canzoni partigiane, in faccia ai robot che ci assalivano.
Al nostro fianco c’erano ragazzi generosi, venuti da altri luoghi per la resistenza collettiva; alcuni di loro sono stati feriti e incarcerati. Li consideriamo tutti figli nostri, perché con noi hanno condiviso l’esperienza di una società e di un’umanità diversa, con noi l’hanno difesa.
I media di regime, come sempre forti con i deboli e deboli con i forti, hanno tentato le consuete criminalizzazioni, dividendo tra “buoni “ e “cattivi”, “nonviolenti” e “violenti”. Rifiutiamo tali divisioni.
La violenza c’era, pesante, praticata da coloro che ci tagliavano sotto i piedi le barricate, ci inseguivano nei boschi a suon di manganelli e lacrimogeni, usavano botte e paura contro i feriti e i fermati; era prima di tutto nei loro mandanti, gli uomini delle istituzioni, perfettamente trasversali, proprio come il partito degli affari.
Violenza sulle persone e violenza sulle cose: le tende, gli zaini, i libri, gli indumenti di chi per più di un mese aveva difeso quei luoghi sono stati stracciati, lordati di feci e di urina.
Contro tale violenza rivendichiamo il diritto all’autodifesa, popolare, determinata, serena, perché ha la forza della ragione, del cuore, del futuro.
Nicoletta Dosio