“Ritenere che l’adesione ad un movimento sociale o di protesta costituisca di per sé un elemento di pericolosità tale da richiedere una revisione critica (pentimento), è davvero qualcosa di non condivisibile. Il problema è che laddove queste formule vengono adottate in maniera quasi burocratica, da parte di alcuni decisori, diventano il motivo buono per non dare la misura alternativa”.
Si conclude con queste parole l’intervista fatta a Giovanni Torrente, docente di Sociologia del Diritto all’Università di Torino e membro del Direttivo nazionale dell’Associazione Antigone, che definisce quello di Dana un “reato bagatellare” e descrive l’accesso alle misure alternative come una “corsa ad ostacoli”.
Il Prof. Torrente apre un focus su alcune tematiche, anche da noi riprese negli anni, rispetto alle difficili condizioni in cui vive la popolazione detenuta; diverse volte abbiamo scritto in merito al fatto che in piena emergenza sanitaria le strutture carcerarie rischiano di diventare dei veri e propri focolai estremamente pericolosi e se non è il covid ad abbattere le persone detenute, può diventarlo la solitudine amplificata dalle logiche del carcere.
Il sovraffollamento è certamente il problema principale attorno al quale ogni situazione si amplifica, dal deterioramento delle strutture spesso fatiscenti, alla scarsa qualità del cibo della mensa; in tempi di covid ogni situazione si acutizza particolarmente e può diventare anche una questione di vita o di morte.
Giovanni Torrente definisce quello all’affettività un “diritto sacrosanto che nella prassi quotidiana è spesso violato, anche attraverso un processo di disumanizzazione”. Da un lato le persone detenute vengono guardate e trattate come delle “cose”, dall’altra se già le ore mensili dedicate alle visite sono molto risicate di norma e molto spesso non vengono garantite, da quando il Paese è entrato nuovamente in emergenza sanitaria, sono stati nuovamente sospesi i colloqui familiari in presenza.
Già con Nicoletta, ma non solo, ora anche con Dana tocchiamo di nuovo con mano quanto anche le famiglie e gli affetti delle persone detenute subiscano un atteggiamento punitivo, scoprire senza alcun preavviso che non si vedrà il proprio figlio, la propria sorella o la propria madre fino a nuovo ordine è certamente qualcosa di brutale, come se anche le famiglie dovessero pagare in qualche modo.
Molto proviene invece “dalla tendenza da parte delle amministrazioni penitenziarie. In carcere – prosegue il Prof. Torrente – si sta manifestando quello che in molti settori caratterizza in negativo la Pubblica Amministrazione in Italia e cioè una scarsa capacità di organizzazione centrale volta alla prevenzione dei fenomeni.
Ricordiamo la lettera delle detenute, firmata anche dalla nostra Dana, che con serietà affronta il tema delle misure alternative, a causa della sovente inacessibilità da parte della popolazione carceraria. Il Prof. Torrente afferma che le misure alternative hanno vissuto e vivono tutt’ora all’ombra del carcere e pertanto “per accedere ad una misura alternativa occorre in qualche modo meritarselo”. Solo che le condizioni sono sempre più gravose. Le detenute accennano anche al comportamento, alla condotta interna e Giovanni Torrente ci spiega che “è stato introdotto il criterio della revisione critica del proprio comportamento, la necessità di risarcimento nei confronti delle vittime, è stata introdotta la necessità di un percorso graduale verso un beneficio della misura alternativa, questo determina il fatto che soprattutto per chi è in carcere l’accesso alla misura alternativa è una corsa ad ostacoli”.
A complicare ulteriormente tutto il processo, il sistema giudiziario e carcerario subisce anche l’influenza di fattori esterni, “esiste un fenomeno denominato Populismo Penale, in base al quale la paura, la sicurezza sono diventati argomenti spendibili all’interno della contesa elettorale. Questi temi possono aumentare o diminuire il consenso agli autori del campo politico. Non è mai stata fatta nel nostro Paese una riforma del Codice Penale, quello italiano è ancora del 1930, non è stata fatta una riforma dell’ordinamento penitenziario. Temi che sono di per sé tecnici, diventano oggetto del dibattito politico di stampo populistico”.
Pensando a Dana “è incredibile che una persona con una condanna così poco significativa possa veramente trascorrere la propria condanna in carcere – dice il Prof. Torrente – ma è una tendenza significativa, la percentuale della popolazione detenuta che ha una pena inferiore all’anno”. E infine il processo di criminalizzazione applicato al movimento No Tav “è indubbiamente qualcosa di inaccettabile, di gravissimo”.
“E’ in corso un processo di criminalizzazione del dissenso che meritera’ di essere valutato attentamente”
Aggiungiamo infine come per Dana venga applicato e amplificato quel diritto penale del nemico, che l’ha portata in carcere e la continua a mantenere in maniera assolutamente arbitraria.