da Infoaut.org – In questi giorni il film di Daniele Gaglianone sulla Val Susa e il movimento No Tav verrà proiettato in alcunee sale sul territorio nazionale (uscito ufficialmente lo scorso 27 novembre dopo l’anteprima al Torino film Festival). L’articolo e l’intervista che seguono, sono un esplicito invito ad assistere, sostenere e a promuovere la programmazione di questo film nelle sale.
Dopo la splendida esperienza de La mia classe, Gaglianone torna a filmare un pezzo d’Italia poco conosciuto, riprendendo il gioco di rimandi e sconfinamenti tra finzione e documentario. Se nella scuola di italiano per migranti di Mastrandrea si trattava di far entrare la realtà documentaria dentro il dispositivo narrativo-finzionale, «Qui» si trasformano i militanti no tav in attori e i luoghi della lotta in Val Susa nel set di un film. Se la definizione ha ancora un senso – perché in fondo ostinarsi a distinguere tra documentario e finzione è una convenzione di comodo, quando si dovrebbe soltanto parlare di cinema, cioè di uno sguardo morale sul mondo –potremmo dire che Gaglianone ha optato per un film «civico», che presupporrebbe quindi un contesto sociale e culturale capace di riceverlo, discuterlo, giudicarlo, nel merito (contenuto) e nel metodo (forma). Quanto riuscirà nel suo intento, dipenderà da molti fattori, non ultimo dall’eventuale boicottaggio commerciale dall’alto che il film potrebbe subire per ragioni politiche o estetiche.
«Qui» è un film che chiede allo spettatore una possibilità – una possibilità che al cinema può essere concessa solo da chi guarda – quella di essere visto e giudicato senza pregiudizi, accettando che il tempo di svolgimento del film si immerga in un un mondo e ne restituisca la durata. In più occasioni il regista ha ammesso candidamente di aver fatto un film «partigiano, schierato, di parte ma non fazioso». «Non è un volantino», ripete… e di primo acchito la frase ci urta, come se contenesse un implicito gesto di sufficienza verso uno degli atti più comuni del militante. Troppe volte abbiamo ascoltato frasi simili in bocca ad artisti perennemente impegnati a ribadire, più che l’autonomia dell’Arte, la continuità della propria retribuzione da parte dall’istituzione sovvenzionante. Gaglianone si muove su un altro livello. Poco propenso alla grande parola retorica, si orienta nella realtà minuta domandando. Non illustra, non difende una tesi, mette i soggetti nel loro contesto e li lascia agire. Non aderisce completamente a loro, mantiene una distanza, rende visibile lo scarto e così facendo rende loro una grande omaggio. Ed è in fondo è questo che deve fare un buon regista: dare ai propri personaggi, attori, uomini e donne poste davanti alla macchina da presa, la possibilità di essere quel che sono.
Gaglianone ha il merito, davvero non comune in un’epoca in cui tempi e forme dell’immaginario sono dettati dal giornalismo d’inchiesta formato-tv (dove il massimo a cui una lotta come questa può aspirare è un reportage di Servizio Pubblico condito da una musichetta che dopa l’emozione), di restituire alla gente che popola il movimento no tav tutta la loro umanità, la densità di storie e vissuti che in questi due decenni ha attraversato questo territorio, cambiandolo per sempre. Ne sono successe di cose «Qui».
C’è la famiglia riunita a tavola che parla, piena di apprensione, della casa che gli verrà tolta per far posto alla stazione internazionale; c’è Marisa che si muove imbarazzata tra le mura di casa e racconta divertita di come si è incatenata con un paio di manette dategli dalle ragazze più giovani («arrivavano da un sexy shop»); c’è Nilo Durbiano, il sindaco di Venaus (meno di 1000 abitanti) che racconta la comicità di un incontro a notte fonda nelle notti calde del 2005, in cui il Questore gli comunicava che lo riteneva responsabile della mancata rimozione delle barricate sulla strada d’accesso al paese (a sua disposizione aveva solo un vigile urbano part-time); c’è l’ex-Carabiniere colpito in faccia da un lacrimogeno che racconta della rielaborazione psichica necessaria al suo piccolo figlio per spiegarsi come sia stato possibile che a suo padre accadesse quello che è accaduto.
Uno dei momenti più forti del film è nell’apertura, dove si rischia molto, se non tutto, di un’opera. Gaglianone non poteva scegliere un attacco migliore per condensare in poche battute la lettura politica di cosa sia il Tav e come la Val Susa funga da paradigma di una più generale forma di governo degli umani e dei territori (e che il modello di sviluppo che il Tav sottende s’incarica di rendere inabitabili). Il montaggio è qui tra l’identità del soggetto e la radicalità di quanto va dicendo. La lezione di politica è condotta da una cattolica praticante che dall’installazione del cantiere a Chiomonte si reca quotidianamente di fronte alle terre usurpate per monitorare l’avanzamento dei lavori, provocare alla riflessione chi sta dall’altra parte del cancello e pregare. Gabriella spiega come quanto si stia consumando intorno a quel cantiere altro non sia che un’immensa sperimentazione di controllo dei conflitti a venire. E lo fa conducendo il regista (e lo spettatore) in un tour guidato tra fili spinati made in Israele (a doppia lama, per lacerare la carne in entrata e in uscita) e truppe d’occupazione di ritorno dall’Afghanistan. Pochi, a sinistra, avrebbero saputo fare un discorso più radicale. Gaglianone concede molto a questa prima intervista, indugia a lungo sulle peripezie intorno al cantiere, agli incontri che si producono in un giorno come tanti, tra la costruzione di un nuovo presidio, una preghiera collettiva e qualche bestemmia che fa capolino.
Gaglianone inistemolto sulla durata anche nella seconda intervista, quella ad Aurelio, redattore di Radio Blackout che aveva fatto la diretta con Luca Abbà qualche secondo prima della caduta dal traliccio maledetto. Ascoltiamo un materiale pre-registrato (che è già storia) assieme all’intervistato e poi ascoltiamo le sue riflessioni in un rimando tra memoria, ri-vissuto e considerazioni sul presente. L’intervistato, filmato nel suo contesto, si muove sottilmente sul filo che separa e tiene insieme emozione e recitazione mentre il regista gioca col taglio delle luci e primi piani sempre più ravvicinati. In questo passaggio, tra i più intensi del film, il Cinema mostra la sua potenza rilevatrice: salta il dispositivo-intervista, emerge una presa di parola altra, politica perché imprevista. Tutto il film, del resto, si muove su questo crinale: ogni personaggio emerge come singolarità che disattende il cliché che lo spettatore si apetta di trovare. «Questi uomini e queste donne» dice Gaglianone, «emergono come alieni perché non sono di plastica». Durante il film si capisce perché «Qui» è successo qualcosa. Qualcosa è certamente avvenuto durante la prima proiezione pubblica al Torino Film Festival lo scorso 26 novembre: la tensione in sala, il fiato sospeso durante la proizione e il lungo applauso al termine confermano in «Qui» il momemento politico della rassegna. Siamo pronti a scommettere che alla fine delle prossime proiezioni continuerà a succedere qualcosa anche allo spettatore non prevenuto.
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«Qui» (e altrove) – intervista a Daniele Gaglianone
a cura dell’Infoshop Senza Pazienza di Torino