No Tav: la Cassazione fissa i parametri interpretativi in merito alle condotte di attentato ed alla finalità di terrorismo
Cass., sez. VI, 15 maggio 2014 (dep
. 27 giugno 2014), n. 28009, Pres. Garribba., Rel. Leo, ric. Alberto e altri
[Stefano Zirulia – penalecontemporaneo]
Rendiamo subito disponibile ai nostri lettori, riservandoci di pubblicare in seguito un più ampio commento, la sentenza con la quale la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha parzialmente annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Torino che aveva confermato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di quattro appartenenti al noto movimento No Tav.
1. I fatti dai quali scaturisce il procedimento risalgono al 14 maggio 2013, quando oltre venti persone, poco prima dell’alba, sferravano un attacco al cantiere del cd. cunicolo esplorativo di Chiomonte, sito in Valle di Susa. Secondo la ricostruzione del GIP e del Tribunale del Riesame torinesi, l’operazione era stata condotta simultaneamente da tre gruppi di attivisti: in particolare, mentre i primi due gruppi distoglievano l’attenzione delle forze di polizia con fuochi artificiali, il terzo gruppo – al quale gli imputati sono sospettati di aver preso parte – riusciva ad introdursi all’interno del cantiere, dove, una volta raggiunto il camminamento sovrastante il cunicolo esplorativo, scagliava dieci-quindici molotov nell’area antistante l’imbocco della galleria. Ne derivava l’incendio di un compressore, mentre fortunatamente nessuno degli operai in quel momento presenti nel cantiere riportava ferite.
Ai quattro imputati, identificati nel corso delle successive indagini, venivano contestati, tra l’altro, i delitti di cui agli artt. 280 c.p. (“Attentato per finalità terroristiche. – Chiunque per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, nel primo caso, con la reclusione non inferiore ad anni venti e, nel secondo caso, con la reclusione non inferiore ad anni sei”) e 280-bis c.p. (“Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi. – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque per finalità di terrorismo compie qualsiasi atto diretto a danneggiare cose mobili o immobili altrui, mediante l’uso di dispositivi esplosivi o comunque micidiali, è punito con la reclusione da due a cinque anni”), in relazione ai quali veniva disposta nei loro confronti la custodia cautelare in carcere.
2. La sentenza della Cassazione affronta, in prima battuta, due questioni di ordine generale, la cui soluzione risulta determinante ai fini della successiva valutazione delle determinazioni assunte dai giudici del riesame. La prima questione concerne la nozione di “finalità di terrorismo”, come declinata dalla norma definitoria di cui all’art. 270-sexies c.p.; la seconda riguarda la struttura dei delitti di attentato, nonché, correlativamente, la loro compatibilità col dolo eventuale. Trattasi, all’evidenza, di questioni centrali ai fini della corretta applicazione dei delitti di cui agli artt. 280 e 280-bis c.p., entrambi appartenenti al genus dei delitti di attentato ed entrambi strutturalmente connotati dalla finalità di terrorismo.
3. Relativamente alla nozione racchiusa nell’art. 270-sexies c.p., la Cassazione perviene, all’esito di un articolato iter argomentativo (cfr. pp. 22-30 della motivazione), alla conclusione secondo cui «il finalismo terroristico non sia un fenomeno esclusivamente psicologico, ma si debba materializzare in un’azione seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma» (p. 30). Si tratta – evidenzia per inciso la pronuncia – di un approdo in linea con l’autorevole orientamento dottrinale che considera quale requisito indefettibile di tutti i reati a dolo specifico l’idoneità della condotta a realizzare il fine perseguito. Peraltro, la stessa motivazione sottolinea in maniera assorbente come, rispetto alla specifica finalità cristallizzata nell’art. 270-sexies c.p., sussistano autonomi indicatori di ordine testuale e sistematico che militano inequivocabilmente a favore di una sua interpretazione in chiave oggettivistica. Più precisamente, la pronuncia osserva che l’«art. 270-sexies presenta una struttura complessa, nella quale, pur essendo la norma stessa dedicata alla descrizione di una finalità, sono certamente compresi elementi di carattere obiettivo, quali misuratori della specifica offensività dei fatti contemplati, e quali garanzie di un ordinamento che, per necessità costituzionale, deve rimanere distante dai modelli del diritto penale dell’intenzione e del tipo di autore» (p. 22). Pare utile ripercorrere più da vicino i passaggi attraverso i quali la Suprema Corte illustra la corretta esegesi della norma definitoria in esame.
La prima parte dell’art. 270-sexies c.p. stabilisce che “sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale”. Secondo la sentenza in esame, il legislatore ha qui descritto «un evento di pericolo concreto…da valutare secondo l’ordinario paradigma della prognosi postuma» (p. 23). Quanto all’inciso “per la loro natura o contesto”, esso è volto ad allargare l’ambito di applicazione della norma alle condotte che, pur non essendo per “natura” idonee a cagionare il grave danno richiesto, lo diventano nella misura in cui vengono realizzate all’interno di un “contesto” nel quale si coordinano ed interagiscono con altre forze. Dal punto di vista soggettivo, le condotte devono essere supportate dal dolo generico; con la precisazione che, qualora la concreta possibilità che l’evento dannoso grave si verifichi dipenda dalla interazione della condotta con il “contesto” delle altre forze in campo, «l’agente dovrà rappresentarsi gli elementi della congerie causale che conferiscono alla sua personale condotta l’efficienza peculiare sanzionata dalla norma, e dovrà volerne l’influsso sulla serie nella quale il suo comportamento confluisce» (p. 23).
La seconda parte della norma definitoria richiede che l’azione, oltre ad essere concretamente pericolosa nei termini già precisati, sia altresì finalizzata alla realizzazione di uno dei tre ulteriori eventi ivi descritti (“intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale”); si tratta di eventi la cui effettiva verificazione non è peraltro richiesta, in omaggio alla tecnica di anticipazione della tutela caratteristica del dolo specifico.
La pronuncia si sofferma, a questo punto, sul significato da attribuire all’evento rilevante nel caso di specie, ossia la “costrizione” dei pubblici poteri, definendolo come «l’aspetto più delicato della regiudicanda». Muovendo dalla premessa secondo cui «l’essenza della politica, e della stessa forma democratica dello Stato (artt. 1, comma 2 e 49 Cost.), consista nel dispiegamento di forze individuali e sociali al fine di orientare e, in certo senso, di imporre, le scelte rimesse gli organi del potere pubblico», la sentenza chiarisce in prima battuta che il mero fine di condizionamento politico, in sé e per sé considerato, è «del tutto inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche» (p. 25).
Piuttosto, per operare correttamente tale selezione, occorre considerare congiuntamente tre elementi ricavabili dal medesimo art. 270-sexies c.p., ciascuno dei quali risulta necessario ma non sufficiente a riempire di contenuto la nozione in esame. Il primo elemento «consiste nella “scala” della decisione potenzialmente imposta al potere pubblico. Dovrà trattarsi di un affare particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni della vita associata, per il suo oggetto o per l’implicazione che ne deriva in punto di “tenuta” delle attribuzioni costituzionali». L’individuazione di questo elemento discende, soprattutto, da considerazioni di ordine sistematico, relative al necessario coordinamento tra l’evento “costrizione” e, da un lato, gli altri due eventi che possono alternativamente costituire oggetto del dolo specifico, nonché, dall’altro lato, il pericolo di “grave danno” di cui alla prima parte della norma. Osserva infatti il collegio: «se la “costrizione” è evento paragonabile al dissesto delle istituzioni od alla intimidazione della popolazione nel suo insieme, se la “costrizione” è comunque perseguita dall’agente nella consapevolezza e nella volontà di provocare il rischio di un “grave danno” per il Paese intero, allora detta “costrizione” non potrà che avere ad oggetto una decisione che incida significativamente su una scala sociale ed istituzionale corrispondente» (p. 25).
Il secondo elemento è rappresentato dalla «macrodimensione del fenomeno», anch’essa messa in luce dalla «interferenza tra “costrizione” e “grave danno”» (p. 25). Infine, il terzo elemento è rappresentato dalla «illegittimità del metodo utilizzato per perseguire il fine di costrizione» (p. 26). A scaso di equivoci, il collegio rimarca con forza come, al pari dei primi due elementi, anche quest’ultimo sia necessario ma non sufficiente per la sussistenza della finalità di terrorismo: «l’equiparazione tra condotta illecita politicamente motivata e terrorismo è improponibile» (p. 27). Molteplici ragioni militano in tal senso: in primis, il fatto che la nozione di cui all’art. 270-sexies c.p. risulta ritagliata in maniera ben più restrittiva rispetto a quella di “reato politico” racchiusa nell’art. 8, co. 3 c.p.; in secondo luogo, lo stesso «senso delle parole» e la «valenza “sociale” del concetto di terrorismo»; infine, gli orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi relativamente all’art. 270-sexies, i quali, pur essendosi principalmente occupati della distinzione tra terrorismo ed eversione, hanno comunque sancito «l’esigenza di una particolare conformazione del finalismo politico sottostante la condotta» (p. 27).
Alla luce di tale premesse, la Corte ritiene che i confini della finalità terroristica possano essere tracciati soltanto attraverso un’esegesi che ponga in collegamento i tre indicati elementi. In quest’ottica, la finalità perseguita dall’agente (qui rappresentata dalla costrizione dei pubblici poteri, ma analogo discorso potrebbe farsi in relazione alle altre due finalità alternativamente considerate dal legislatore quali oggetto del dolo specifico) deve essere elevata a criterio di individuazione del bene giuridico la cui probabile lesione dà sostanza al pericolo che si realizzi il macroevento di grave danno. In altre parole, potrà parlarsi di finalità terroristica allorché l’interesse politico-istituzionale sotteso alla finalità che costituisce l’oggetto del dolo specifico (rispettivamente, «il sereno svolgimento della vita pubblica, il fisiologico esercizio del potere pubblico, la stabilità e l’esistenza stessa delle istituzioni di una società pluralistica e democratica», p. 27) risulti concretamente minacciato dalla condotta dell’agente, di modo che ne possa derivare un macroevento di grave danno per lo Stato (rimanendo invece esclusi dall’ambito di applicazione della norma i danni di dimensioni meramente patrimoniali).
Trattasi di soluzione che da un lato garantisce la conformità dell’art. 270-sexies ai canoni costituzionali di offensività («escludendo dalla previsione progettazioni deliranti o palesemente inadeguate», p. 27) e di determinatezza (consentendo di «rendere accettabilmente determinato il “grave danno per il Paese”», concetto che altrimenti rischierebbe di restare assai evanescente, specie in considerazione del fatto che, «quando si parla di obiettivi politicamente qualificati…[c]iò che una parte può considerare dannoso per il Paese altra parte può considerare conveniente», p. 26); e dall’altro lato ne assicura la rispondenza al panorama delle fonti internazionali, di cui essa rappresenta il recepimento (a tale proposito, cfr. la disamina condotta alle pp. 28-30).
4. Senz’altro meno complesso è l’iter argomentativo avente ad oggetto il tema dei delitti di attentato, al quale quindi basterà qui accennare brevemente. Il collegio prende le mosse dalla disciplina codicistica in materia di delitto tentato ed aderisce all’orientamento prevalente che ne afferma l’incompatibilità col dolo eventuale, affermando come «l’unidirezionalità del momento volitivo» discenda necessariamente tanto da un’interpretazione oggettivistica del concetto di univocità (giacché l’agente dovrà necessariamente rappresentarsi e volere un fatto oggettivamente diretto alla produzione dell’evento), quanto, a fortiori, da una sua interpretazione in chiave soggettivistica. Tanto premesso, e volgendo lo sguardo alla categoria dei delitti di attentato, la Corte afferma che, pur mancando nella struttura di questi ultimi il riferimento esplicito ai fattori tipizzanti del tentativo, deve comunque ritenersi che l’idoneità degli atti e la loro univocità (insieme al suo corollario dell’incompatibilità con il dolo eventuale) costituiscano parte integrante ed essenziale di tali fattispecie: «l’assunto, talvolta motivato in base ad una pretesa sovrapponibilità tra tentativo e attentato, è oggi generalmente giustificato quale implicazione essenziale del principio di offensività, e comunque quale condizione necessaria per la tassatività delle fattispecie» (p. 33).
5. Alla luce delle conclusioni raggiunte in punto di definizione della finalità di terrorismo, nonché relativamente alla struttura dei delitti di attentato, la Suprema Corte ha ritenuto contraddittoria e inadeguata, rispetto agli elementi effettivamente necessari per l’integrazione delle fattispecie, la motivazione posta dai giudici torinesi a fondamento delle misure di custodia cautelare.
Anzitutto, quanto ai gravi indizi del delitto di cui all’art. 280 c.p., il tribunale del riesame aveva affermato che «gli autori dell’assalto “non potevano sapere chi o cosa sarebbe stato colpito dal lancio di bottiglie incendiarie”, per l’ora notturna, ma, soprattutto, perché gli ordigni venivano gettati “in luogo non visibile agli autori del fatto, posto che l’area del cantiere era delimitata da un’alta recinzione”» (p. 38). Ebbene, ad avviso della Cassazione il getto di molotov «alla cieca» non potrebbe integrare gli estremi oggettivi e soggettivi del delitto di cui all’art. 280 c.p., non costituendo atto univocamente diretto ad attentare alla vita o alla incolumità di una persona, né tantomeno potendo essere supportato da un elemento soggettivo di intensità superiore al mero dolo eventuale. Tanto premesso, i giudici di legittimità, preso atto della contraddittorietà della ricostruzione offerta dal tribunale del riesame rispetto a quella inizialmente proposta dal GIP (secondo il quale gli imputati vedevano benissimo cosa stava accadendo nell’area sottostante, ed avevano consapevolmente «bersagliato» gli operai con le molotov), rinviano la questione al tribunale torinese, affinché proceda ad una nuova valutazione dei fatti ed alla corretta applicazione del delitto ex art. 280 c.p. A proposito dell’art. 280-bis, la Suprema Corte si limita ad osservare che «le questioni appena sollevate incidono anche, mutatis mutandis, sulla contestazione del delitto di cui all’art. 280-bis c.p., sebbene l’esplosione di bottiglie incendiarie possa considerarsi “naturalmente” produttiva di danni alle cose, eventualmente molto limitati» (p 40).
6. Sotto il profilo della finalità di terrorismo, rilevante per entrambi i titoli di reato in questione, la Corte richiama le considerazioni precedentemente svolte e ribadisce che «la pressione illegalmente attuata sull’autorità pubblica deve presentare, in quanto tale, un connotato di idoneità alla produzione dell’evento “costrizione”, e non semplicemente un finalismo soggettivamente orientato in tal senso» (p. 40). Nel caso in esame, la capacità dell’azione violenta di ottenere l’effetto di condizionare le decisioni dello Stato è stata sostanzialmente riferita al finalismo omicida, del quale tuttavia – come già visto – difetta una documentata base indiziaria. Vero è che tale idoneità ben può essere valutata anche alla luce del “contesto” di riferimento; ma – rammenta ancora la pronuncia – in tal caso è necessario dimostrare la consapevolezza dell’agente di agire all’interno di siffatto contesto, prova che nel caso di specie è del tutto mancata, specie in considerazione del fatto che le più significative ed allarmanti azioni poste in essere dal movimento NO TAV hanno avuto luogo successivamente all’episodio contestato agli imputati, e non risulta che siano state realizzate in esecuzione di un disegno unitario preordinato al fatto qui in esame.
Ancora, e conclusivamente, la sentenza osserva come l’idoneità dell’azione debba essere altresì valutata con riferimento al rischio che si determini il macroevento di “grave danno” per il Paese, e come anche sotto questo profilo il provvedimento impugnato risulti carente di motivazione. A tale proposito la Cassazione prescrive al giudice del rinvio di «verificare se, per gli effetti direttamente riferibili al fatto contestato…si sia creata una apprezzabile possibilità di rinuncia dello Stato alla prosecuzione dell’opera TAV, e di un grave danno che sia effettivamente connesso a tale rinuncia, o, comunque, all’azione indebitamente mirata a quel fine» (p. 42).
La sentenza in pdf ->1404114093Cassazione_no_tav