da Carmilla online –
Dante Alighieri, Inferno – Canto XXXIII Bis – L’incredibile manoscritto ritrovato in Val Susa, Edizioni TABOR, Valle di Susa (TO) 2013, pp. 64, € 6,00
Sono note da secoli le profezie dantesche contenute nella Commedia, come ben sanno gli studenti liceali costretti a studiarle e a scriverne sui siti delle scuole per far ben figurare i loro Istituti e i loro insegnanti. Ma il manoscritto fortunosamente ritrovato tra le carte depositate presso la Sacra di San Michele apre agli studiosi nuove possibilità di indagine sulle capacità divinatorie del Poeta.
Non soltanto per quanto riguardava la sua vita e il suo esilio, ma anche il destino della specie umana nel suo insieme.
Dalla sofferente esclusione dalla propria patria nasce, infatti, il grande ruolo profetico di Dante come portatore di reale e nobile virtù, ma se le profezie di Ciacco, di Farinata degli Uberti, di Brunetto Latini e dell’avo Cacciaguida erano tutte rivolte alla vita del poeta e al suo esilio oppure alle vicende politiche di Firenze tra XIII e XIV secolo, qui siamo di fronte ad una scoperta sensazionale, non solo dal punto di vista della storia della letteratura, poiché il Divin Poeta delinea con precisione quello che sarà il destino dell’umanità nel suo insieme e della Valle che egli stava percorrendo per recarsi a Parigi dove, intorno al 1308, avrebbe frequentato per qualche tempo la facoltà di Teologia.
E’ veramente da lodare, quindi, l’impegno con il quale il Prof. Filippo Mollea Ceirano ha affrontato il gravoso compito di ricostruire il testo nella sua interezza e nel travaglio che ne hanno accompagnato, prima, la stesura e, poi, la decisione di abbandonarlo alla critica corrosiva dei topi.
Lavoro filologico che, come è ben chiarito nell’introduzione, ha dovuto fare i conti con i sempre più frequenti tagli intervenuti sulle spese universitarie da parte di un governo che non sembra , nemmeno lontanamente, comprendere l’importanza del lavoro svolto dal dipartimento di Storia delle origini della letteratura italiana diretto dal professore.
Il fatto, poi, che l’Università cui fa riferimento il suddetto Dipartimento rimanga anonima è sicuramente dovuto alla volontà di aver voluto impedire l’esplodere di curiosità e di ipotesi che avrebbero potuto, e potrebbero ancora, danneggiare la serietà del lavoro scientifico svolto dal professore e dalla sua ristretta e fidatissima équipe che temono di essere presentati ed assillati dai media come novelli Dan Brown.
Ma veniamo ora al testo. Occorre subito dire che, come quasi tutti i testi di Dante, è un testo legato alle esperienze del poeta stesso e che, come quasi tutti quelli della maturità, è un testo politico. Militante si potrebbe quasi dire. Dante, in esilio, stava attraversando le terre del conte Amedeo di Savoia nel periodo in cui, su richiesta del Papa Clemente V e del Re di Francia Filippo il Bello, si provvedeva a migliorare la strada che collegava la Francia con Torino, Asti (all’epoca importante centro di commerci e attività economiche), il marchesato di Saluzzo e il Monferrato.
Tale progetto cozzava però con la resistenza montanare e contadina di coloro che lungo il percorso previsto si opponevano sia all’esproprio forzato dei terreni appartenenti ai piccoli proprietari indipendenti, sia al lavoro coatto richiesto come corvée dal conte savoiardo per la realizzazione del progetto stesso. E Dante, proprio all’altezza di Sant’Ambrogio, finiva con l’essere coinvolto in una diatriba tra villici e scherani del conte, finendo con l’essere da questi ultimi duramente e ingiustamente malmenato e, infine, trattenuto con l’accusa di aver eccitato gli anime con le sue parole.
Rilasciato in condizioni miserabili, sarà ospitato dai monaci della Sacra di San Michele che lo cureranno con un intruglio che lo stesso poeta descrive nelle carte ritrovate: ”eravi nella nomata potione di certo aliquanta santoreggia, e della artemisia absinte, e poca digitale e laudano in buona mensura; eranvi di poi li fiori di una particulare spezie di canapa, che dicesi venga dalle lontane Indie, ma che bene forte s’accresce anco nello giardino de’ divoti frati, che spesso l’usano per fare de’dolciumi, manducati li quali spesse volte li fa visita Nostra Signora la Madonna; eranvi di poi una radice di genziana, et multi essiccati pezzi del fungo, che trovasi nelli boschi attigui, che chiamasi ammanita […] et essi anco sono di molto aiuto alle lor preci, imperrocché ingollata la giusta dose mai fu vana l’attesa di una divina apparizione”.
E’ straordinaria la ricostruzione d’ambiente che l’Alighieri, con spirito più prossimo a quello dell’antropologo che a quello del letterato, riesce a tramandare a distanza di secoli. Ma ancor più straordinaria è la profezia sul futuro di quella valle e del genere umano contenuta nei versi di un canto che lo stesso poeta, forse spaventato dalla sua stessa visione, volle poi abbandonare tra le mura della Sacra. Visione certamente non estranea al consumo fatto della suddetta pozione.
Il canto conta più del doppio dei versi normalmente contenuti negli altri e forse anche questo spinse Dante a tralasciarlo per non venir meno all’unità stilistica della sua opera, ma l’avvio del canto è “classico”. Il poeta scorge, attraverso una fessura, dei diavoli all’opera per preparare quella che sembra essere un nuovo girone dell’Inferno e naturalmente sarà il suo accompagnatore, Virgilo, a dargliene spiegazione:
“Si puniranno in cotesta contrada
quei peccatori che avran disianza
di trasformare, a seconda ch’aggrada,
del mondo la natura e la sostanza
e impiegheran l’ingegno e la fatica
per appagar la loro tracotanza” (vv. 64 – 69)
Vedendo il poeta turbato, Virgilio continua:
“Questo è distinato
a castigare il tristo tradimento
di chi in imperio suo vorrà ogni umano
per costringerlo a un folle movimento.
Questi imporran lo sforzo inane e vano
di mover di continuo cose e genti
sempre più in fretta e sempre più lontano.
Lo bieco fine degli spostamenti
sarà crear profitti con l’inganno
promettendo vantaggi inesistenti” (vv. 84 – 93)
Ma cosa aveva turbato Dante così tanto, tra ciò che aveva intravisto del lavoro degli operosi demoni?
“Una strada ponean tratto per tratto
sovra la terra, fatta in duro acciaro,
sì come ‘l fabbro forma il catafratto.
Due barre parallele paro paro
li diavoli avvitavano a traverse
fitte in la terra nel verso contraro.
Così un sentiero sovra il pian s’aderse,
non di ghiaioso fondo, o lastricato,
ma di ferree rotaie lisce e terse” (vv. 73 – 81)
Ciò che impressiona non è solo la previsione delle ferrovie ultra-veloci che avrebbero dovuto solcare in futuro la Valle, ma la punizione tremenda, tipica del contrappasso, che sulle quelle rotaie sarà consumata ai danni degli amministratori, dei politici, degli imprenditori, dei mafiosi e finanzieri che saranno coinvolti secoli dopo nell’orrendo progetto. Tutti facilmente riconoscibili ancora oggi.
Ma per non turbare oltre il lettore e, soprattutto, per non guastare il suo divertimento, non resta che chiudere su questo punto; ricordando che l’opera è distribuita da una piccola, coraggiosa e meritoria agenzia di distribuzione libraria torinese che da anni è impegnata nel diffondere a livello nazionale le pubblicazioni dell’ editoria antagonista e indipendente.1