Relazioni pericolose di un pubblico ministero
(2003-2006)
Le telefonate tra Rinaudo e Moggi – Rinaudo amico di Tonino Esposito – Esposito emissario della mafia della Val Susa – Rocco Lo Presti, il boss di Esposito – Lo Presti e l’Autostrada del Frejus – Rinaudo amico di Andrea Galasso – Galasso difensore del viceministro – Il viceministro e gli appalti Tav di Venaus – Galasso, Martinat e Procopio – Gli arresti di Esposito e Lo Presti – Rinaudo nell’inchiesta Moggi – Rinaudo pm disattento sulla ‘Ndrangheta – Procopio nel cantiere di Chiomonte – Rinaudo alla crociata contro l’opposizione al Tav
Le telefonate con Moggi
Alcune circostanze riguardanti l’attuale pm impegnato contro il movimento No Tav, Antonio Rinaudo, sono rimaste, fino ad oggi, nascoste. Amicizie e frequentazioni lo portano ad avere conoscenze cordiali in ambienti legati agli interessi economico-criminali in gioco sulla linea Torino-Lione, alla ‘Ndrangheta valsusina e all’estrema destra in doppiopetto inserita nelle lobby del Tav. Il complesso puzzle che abbiamo ricostruito produce uno squarcio sugli interessi criminali di quelle lobby nell’arco di vent’anni e anche più, ma anche sulla spregiudicatezza di certa magistratura torinese. È una storia che, per essere conosciuta nei dettagli – ed è importante conoscerla – ci riconduce indietro, fino alle Olimpiadi 2006, al piano regolatore di una metropoli come Torino, alla realizzazione dell’autostrada Torino-Bardonecchia e alla cementificazione dell’alta valle di Susa, per arrivare agli appalti per il Tav a Venaus, all’opposizione valligiana, all’occupazione militare della Maddalena, alla lottizzazione di mafie e partiti di 23 mld di denaro pubblico e alla persecuzione vergognosa di centinaia di persone – da parte del pubblico ministero Rinaudo e del suo team – per il fatto di opporsi a determinati interessi.
La documentazione prodotta mostra come la contrapposizione tra legalità e illegalità, sul piano dei grandi investimenti e delle grandi spartizioni di capitali, cada: il denaro e l’impresa illegali trovano schermo legale nel mondo dei partiti e nell’azione di governo, mentre l’azione repressiva della magistratura, selezionando gli obiettivi da colpire (perseguire alcuni settori della malavita o della politica a scapito di altri, concentrare tutte le proprie forze contro i fenomeni di insubordinazione sociale), si configura come ultimo dispositivo legale di tutela sostanziale degli interessi di una classe di investitori, costruttori e imprenditori che usano le tangenti, l’omicidio, l’intimidazione, l’accordo sottobanco e l’azione legale come tanti strumenti intercambiabili per raggiungere lo stesso scopo. In questa storia, che conduce al torrente Clarea, alla baita No Tav e allo scempio di uno dei luoghi più belli d’Italia, agli scontri con la polizia e agli arresti, fino alle celle di isolamento dove vengono rinchiusi i No Tav nelle carceri italiane, dobbiamo partire da molto lontano.
Dobbiamo incunearci per un attimo in ciò che potrebbe apparire più distante da simili vicende, irrilevante o distante da questo tipo di conflitti: il mondo del calcio; ma nella lunga e contorta fase della dismissione industriale e del saccheggio finanziario dell’area metropolitana torinese (dove alla continua apertura di cantieri pubblici si alterna l’investimento permanente nelle diverse dimensioni assunte dal fenomeno spettacolare) tutto si tiene. Il 24 febbraio 2005 i carabinieri intercettano una telefonata tra un pubblico ministero della procura di Torino, Antonio Rinaudo, e Luciano Moggi, direttore generale della Juventus. Rinaudo chiama Moggi, inutilmente, più volte; infine la segretaria del dirigente bianconero, Lella, glielo passa:
Rinaudo: Pronto?
Moggi: Ehii.
Rinaudo: Come stai?
Moggi: Come sta… eh io sto bene… lo sa perché c’ho il telefonino spento?
Rinaudo: Eh perché non vuoi che ti rompano le scatole.
Moggi: Perché mi massacrano con i biglietti del Real Madrid (ride) mannaggia.
Rinaudo: Eh, lo credo! Lo credo! Lo credo!
Moggi: Ma te la cosa migliore… mi chiami in sede e poi io ti richiamo subito… come si è
fatto ora… vedi non…
Rinaudo: Sì! Ma difatti, io che sono un Pubblico Ministero e so come vanno fatte le cose…
Moggi: Apposta (ride)
Rinaudo: Eeh… sono un po’ più intelligente degli altri!
Le telefonate tra Moggi e Rinaudo sono intercettate, in quei mesi, dal nucleo investigativo dei carabinieri di Roma su ordine della procura di Napoli, che indaga sugli illeciti sportivi compiuti da diverse società calcistiche, in particolare la Juventus. L’indagine è ancora segreta: il pubblico sportivo, il mondo del calcio e la popolazione italiana verranno a sapere di essa (che passerà alla storia come Calciopoli) più di un anno dopo, quando avverrà la chiusura delle indagini a carico di Moggi, direttore generale della Juve, Antonio Giraudo, suo vice, e molti altri patron e manager calcistici, oltre ad alcuni arbitri. La procura di Napoli, che ascolta Moggi per trovare prove dei suoi pilotaggi delle designazioni arbitrali da parte della Figc, scopre che il dirigente bianconero passa al telefono la maggior parte del suo tempo: per indicare ai designatori gli arbitri a lui graditi, ma anche per esercitare influenze e pressioni sul mondo giornalistico e coltivare amicizie nella magistratura e nella polizia, perché – come afferma lo stesso dirigente – “pallone uguale soldi e soldi uguale potere”.
Moggi, che ancora non sospetta di essere ascoltato, coltiva rapporti con i magistrati di Torino perché sa che la procura sta indagando, nella persona del pm Guariniello, su casi di doping sportivo; la Juventus ha tutto da guadagnare ad avere appoggi, anzitutto per ragioni informative, all’interno della procura: chi sa le cose in anticipo può prevedere meglio le proprie mosse. Ecco, ad esempio, cosa si dicono Rinaudo e Moggi:
Moggi: Senti un po’… come… ma quando ci vediamo una volta?
Rinaudo: Eh… dovevamo combinare… poi la cosa non… tu questo week end come sei messo?
Moggi: Eh io gioco in casa col Siena… noi ci vediamo con… Tonino e Andrea Galasso sabato sera alle otto e mezza a cena al Concord, che c’è la squadra… se tu vuoi vieni!
Rinaudo: Al Concord? Dov’è lì a…
Moggi: L’albergo!
Rinaudo: Eh! Ma dov’è ubicato?
Moggi: È lì vicino alla stazione a… in fondo a Viale… (inc.)… proprio davanti… vicino alla stazione Porta Nuova.
Rinaudo: Ah!
Moggi: Dai! Stiamo assieme… poi…
Moggi invita Rinaudo a cena con la squadra in un hotel di lusso, il Concord di via Lagrange 47, alla presenza di tali “Tonino e Andrea Galasso”, per recuperare un appuntamento che già da tempo (lo si evince dalle parole di Rinaudo) i due cercavano. Il magistrato, però, non è convinto da questa proposta perché preferirebbe che l’incontro restasse riservato:
Rinaudo: Ma io preferirei… non possiamo fare una cosa noi? Senza la Juve… senza la…
Moggi: La prossima settimana allora!
Rinaudo: Sii! La prossima settimana…
Moggi: Ci sentiamo allora, ascolta… io torno martedì mattina… ci sentiamo martedì e ci mettiamo d’accordo… un giorno della prossima settimana ci vediamo in un posto dove ti fa comodo a te…
Rinaudo: Eh! Ci vediamo… perché… cioè… non è che… che voglia fare il supponente e dire non vengo… perché… ma se siamo in (inc.)…
Moggi: Ma stiamo… stiamo assieme noi stai tranquillo!
Rinaudo: …non è meglio?
Moggi: Stai tranquillo! Ci sentiamo martedì in settimana e ci mettiamo d’accordo!
Non è per supponenza che Rinaudo vuole vedere Moggi in privato. Moggi sembra capirlo benissimo; l’appuntamento viene posticipato. Il pubblico ministero ha giusto una cosa da aggiungere, riguardo a ciò che ha già anticipato a Lella, la segretaria del dg della Juve:
Rinaudo: Uhm. Senti… senti una cosa… io ho chiesto a Morena, lì… a Lucia… come si
chiama… Se mi poteva dare oltre al mio posto qualche biglietto… al limite…
Moggi: Sì! Non ti preoccupare, con te ci penso io!
Rinaudo: Riesci?
Moggi: Stai tranquillo!
Rinaudo: (inc.)
Moggi: Per queste cose qui, io già me le memorizzo… e poi quando ci vediamo ci mettiamo
d’accordo!
Il collega Laudi
In realtà, sabato 26 febbraio (due giorni dopo) Rinaudo chiama nuovamente Lella e dice di aver cambiato idea: gradisce comunque presenziare alla cena con la squadra, e vuole portare con sé anche la moglie. Chiede addirittura un’auto della società bianconera a disposizione: vuole essere accompagnato, vuole che la società lo venga a prendere. L’incontro, quindi, avviene. Due giorni dopo, squilla un telefono presso le utenze del consiglio superiore della magistratura, a Roma. Risponde un certo Guglielmo: a chiamare è l’arbitro De Santis, a sua volta intercettato perché elemento chiave del giro di accordi sottobanco per ottenere arbitraggi favorevoli e far collocare gli arbitri giusti alle partite giuste. De Santis è l’arbitro di Moggi, quello che sempre e sfacciatamente favorisce la compagine bianconera. Ha avuto un’informazione. Sa che c’è un magistrato che sta indagando sugli arbitraggi di serie A, un pubblico ministero di nome Tatangelo, cui Guariniello ha affidato un nuovo troncone dell’inchiesta sportiva. È un’informazione che, naturalmente, doveva restare segreta. L’amico di De Santis lo aiuta a capire chi è questo Tatangelo, e in pochi secondi ha controllato i terminali:
Guglielmo: Senti allora, di Tatangelo ce ne stanno due. Uno è Tatangelo Augusto che fa il gip al Tribunale di Napoli. E l’altro è Marcello, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino.
De Santis: E allora è questo qua di Torino è. Sì me sa che è questo de Torino perché dice che sta insieme a Guariniello.
Guglielmo: Mmmm.. sarebbe da parlà co’ coso lì, come si chiama? Porca miseria come si chiama quello di Torino? Co’ Laudi.
De Santis: Ah, co’ Maurizio? Ho capito, vabbé allora ci posso… Ci parlo io direttamente co’ Maurizio.
“Co’ Maurizio”: Maurizio Laudi, classe 1948, procuratore aggiunto a Torino. Membro del pool creato da Gian Carlo Caselli negli anni Settanta contro la sovversione di sinistra, protagonista di innumerevoli processi contro i movimenti sociali e antagonisti, tra cui uno dei più inquietanti nel 1998: accusa tre occupanti di case di aver formato una “cellula terrorista” per colpire l’Alta Velocità in Val Susa. Due di loro moriranno suicidi in carcere quello stesso anno e, una volta morti, saranno assolti. Negli stessi anni in cui costruisce il castello accusatorio contro quei ragazzi, i cui nomi erano Sole e Baleno, Laudi inizia anche a ricoprire ruoli nella giustizia sportiva. Anni dopo, al tempo dell’incontro tra Moggi e Rinaudo al Concord (e della successiva telefonata di De Santis al Csm), Laudi è giudice sportivo per la serie A, la serie B e la Coppa Italia, ed anche lui non disegna i favori che il dg Juventus concede a chi gli è amico. 9 novembre 2004:
Lella: Poi, il dottor Laudi chiede quattro ovest-primo e due special. Io ho detto che non… che non sapevo se due potevamo darli… (inc.) che chiedevo a lei.
Moggi: Quattro ovest-primo va bene… uno special va bene… due mi sembrano troppi.
Lella: Uno vero?!
Moggi: Ce li abbiamo noi due special?
Lella: Sì… Sì, sì! Al momento sì.
Moggi: E diamoli ah!
Lella: Uhm… Ok!
Pochi giorni dopo si svolge Fiorentina-Bologna. È arbitrata da De Santis, che ammonisce i tre difensori del Bologna Petruzzi, Nastase e Gamberini: saranno così squalificati in vista del successivo incontro con la Juventus. Dice a Moggi Tony Damascielli, opinionista sportivo de Il Giornale, in una telefonata, il giorno stesso della partita: “…oh, comunque De Santis ha fatto il delitto perfetto, eh?”; e aggiunge: “C’abbiamo tre gio… tre difensori del Bologna fuori, tutti e tre squalificati”. A firmare il provvedimento di squalifica, in seguito alle ammonizioni di De Santis, è stato Maurizio Laudi: gioco di squadra.
Un amico nella ‘Ndrangheta
Ma torniamo a Rinaudo, che ci porterà ben più lontano – fino alla Maddalena di Chiomonte. I suoi rapporti con Moggi sono giudicati, nel rapporto dei carabinieri romani, “più stretti” di quelli che intrattiene il giudice Laudi. 2 febbraio 2005:
Rinaudo: Volevo ringraziarti per…
Moggi: (inc.)
Rinaudo: … quel pensiero di Natale… siete stati veramente gentili!
Moggi: È un pensierino… niente di particolare!
Rinaudo: Siete stati veramente gentili!
Moggi: Aspetto… aspetto che ci vediamo e ci sentiamo, ok?
Rinaudo: Grazie bello!
Il dg Juventus non deve sperticarsi: è il magistrato stesso (come Laudi del resto) che accorre a lui. Rinaudo sconfina anzi ampiamente nel patetico:
Rinaudo: Pronto?
Moggi: Antonio!
Rinaudo: Ma da… dove sei?
Moggi: Chi non muore si risente… manna…
Rinaudo: Mannaggia! Io t’ho cercato eh però… non è… eh! Eh!
Moggi: T’ho cercato eh!
Rinaudo: No! No! Io ti ho cercato più volte in società e l’ho lasciato detto alle tue segretarie! L’ultima volta l’altra settimana!
Moggi: Eh… ma io ero ammalato! Eh… ho avuto una settimana un po’ brutta di influenza…
Rinaudo: Uhm. (inc.)
Moggi: Quando ci vediamo un giorno?
Rinaudo: Eh! Non lo so, dobbiamo combinare una cena!
Moggi: Io mi vedo… mi vedo spesso con Tonino ma non ti vedo più te…
Rinaudo: Eh lo so… me lo ha detto eh! […]
Chi è questo “Tonino” cui Rinaudo dice di aver parlato, comune amico suo e di Moggi, già presente alla cena all’Hotel Concord? È Antonio Esposito, classe 1946, accusato di omicidio nel 1985, poi prosciolto. Pietro Dimo, 36 anni all’epoca, trafficante di droga per conto del clan dei catanesi e suo socio in una ditta di pulizie dell’autostrada del Frejus, ne fece il nome al processo per le tangenti Dc-Psi-Pci nella giunta torinese di Diego Novelli degli anni Ottanta. Il mandante, disse Dimo, era Francesco Froio detto Franco, ex parlamentare Psi, che così veniva descritto su un giornale valsusino nel 2002:
L’onorevole Froio, non è solo stato uno dei padri dell’autostrada, è stato il vero “padre padrone” della Sitaf. Froio è stato uno degli uomini più forti degli anni finali della Prima repubblica. Socialista della prima ora come il suo conterraneo Mancini, quando il Psi ebbe il presidente del Consiglio, Froio non era più in Parlamento, dove era stato dal 1972 al 1979, ma era uno degli uomini più potenti del sistema politico di quegli anni. Il vero braccio socialista dell’asfalto.
Alla Sitaf, l’azienda creata per la costruzione dell’autostrada Torino-Bardonecchia, per la quale verrà arrestato nel 1993 (accusato di tangenti per 300 milioni). Secondo Dimo, Froio aveva chiesto nel 1983 proprio a Tonino Esposito, l’amico di Rinaudo, di occuparsi dell’eliminazione di Adriano Zampini, faccendiere finito in carcere che aveva cominciato a parlare delle tangenti. Si tenne un incontro al bar San Carlo, disse il testimone, in cui Froio offrì cinquecento milioni di lire per l’omicidio, in un affare che comprendeva anche nuovi appalti per l’autostrada. I magistrati non gli credettero e il magnate del cemento e il suo sodale vennero assolti.
Questo negli anni Ottanta; ma nel 2005, quando l’autostrada valsusina è stata conclusa da quindici anni, Esposito siede all’elegante Hotel Concord con Rinaudo e ha ormai poco a che fare con i catanesi, perché è diventato elemento di spicco di un’altra organizzazione criminale, la famigerata ‘Ndrangheta della Val Susa; è infatti l’emissario torinese del famoso boss di Bardonecchia Rocco Lo Presti, che lo chiama “O’ Americano” per il suo stile di vita esagerato e i suoi continui viaggi a Cuba. Esposito è da tempo amico personale di Rinaudo, al punto che già nel 2003 la voce del pm era stata intercettata sull’utenza di Esposito dall’arma dei carabinieri. Quell’indagine non c’entrava con il calcio, ma con gli appalti e l’usura; e mai avrebbe pensato, il pm e collega di Rinaudo Antonio Malagnino, di scoprire che un uomo come Esposito, che concordava al telefono direttamente con Lo Presti i tassi di usura delle sue vittime a Torino, parlava anche con un pubblico ministero della sua stessa procura.
L’inchiesta era partita nell’ottobre del 2003. I dirigenti dell’Agenzia per Torino 2006 avevano ricevuto una lettera a testa con un proiettile calibro 10. Poi Tonino Esposito si era presentato a uno di essi con strane richieste, allusioni alle minacce ricevute e ambigue offerte d’aiuto. Il telefono di Esposito fu allora messo sotto controllo, ed è in quella fase che Malagnino scoprì l’amicizia tra il mafioso e il pm, oltre a un enorme complesso di affari illegali legati all’usura e alla compravendita di commesse pubbliche e appalti.
Nessuno, in procura, nel 2003, ritenne necessario sollevare Rinaudo dall’incarico di pubblico ministero. Anzi: due anni prima gli era stata affidata persino un’indagine su fatti legati alla ‘Ndrangheta, e ne resterà nonostante tutto il titolare. È un’indagine è delicata, che tratta di un giro di affari illegali tra la Germania, l’Italia e il Marocco, con 65 indagati, molti dei quali appartenenti alle ‘ndrine calabresi. Proprio nei giorni in cui la sua voce veniva intercettata al telefono con Esposito, Rinaudo firmò la chiusura di quelle indagini (18 giugno 2003) e non poté non evidenziare forti indizi di colpevolezza; ma due anni dopo, quando si incontrò con Esposito all’Hotel Concord, il fascicolo era ancora nel cassetto, e per nessuno dei 65 indagati era stato chiesto il rinvio a giudizio…
Lo stronzo di Bardonecchia
L’organizzazione finalizzata all’usura cui apparteneva Esposito mentre andava a prelevare Rinaudo a casa per portarlo da Moggi, aveva una “cupola” divisa tra la Val Susa e Torino: al vertice Rocco Lo Presti, il “padrino” di Bardonecchia, e i nipoti Luciano e Giuseppe Ursino; alla base decine di malavitosi impegnati, a Torino, a riscuotere gli interessi dei prestiti in nero. Della cupola faceva parte però lo stesso Esposito, che coordinava l’attività usuraria nel capoluogo e faceva da tramite tra Lo Presti e i suoi sottoposti e tra Lo Presti e le vittime, che erano decine e decine: commercianti, albergatori, semplici cittadini. I suoi uomini non esitavano, per sollecitare i pagamenti, a fare esplicitamente il nome del boss a scopo terroristico; e quando le vittime parlavano, in lacrime, con i propri parenti e amici dei loro debiti e delle minacce, si riferivano a Rocco Lo Presti come “lo stronzo di Bardonecchia”.
La scia di violenza e devastazione che, dagli abusi edilizi degli anni Sessanta, conduce al tentativo di costruire in Val Susa l’alta velocità, ha una continuità, un’origine e un riferimento proprio nell’organizzazione capeggiata da Rocco Lo Presti, nato a Marina di Gioiosa Jonica e arrivato a Bardonecchia, nell’alta valle, nel lontano 1963, dove fu mandato al confino come accadeva in quel periodo a molti altri “malavitosi” meridionali. Qui aveva trovato i fratelli Ciccio e Vincenzo Mazzaferro, elementi criminali di maggior peso emigrati a loro volta dalla Calabria, e vi si era imparentato, sposando la figlia di uno dei due. Insieme avevano intessuto un sistema di affari che aveva come sfondo il tipico ramo della modernizzazione mafiosa degli anni Sessanta, che dall’agricoltura compie il salto verso l’edilizia, e dai campi coltivati passa alla città. Anno dopo anno, lotto dopo lotto, uno dei luoghi più belli della valle fu quindi completamente cementificato dalle imprese riconducibili ai clan calabresi.
Le autorizzazioni arrivavano dal comune di Bardonecchia con le stesse modalità proprie di Reggio Calabria o Palermo: i sindaci Dc del paesino settentrionale non si chiamavano Vito Ciancimino, ma ad essere protagonista politico era sempre e comunque il cemento. In cambio soldi pubblici, nessuna conflittualità operaia, perché Lo Presti e i Mazzaferro non amavano le pretese degli operai, e tantomeno le organizzazioni operaie: nulla doveva sfuggire al loro controllo e i sindacati non erano ben visti nei cantieri edili dell’alta valle. Un imprenditore di Bardonecchia, Diano De Matteis, dichiarò che Lo Presti si era rifiutato di appoggiare un candidato sindaco, Mario Corino (che pure era della Dc) eccependo che gli aveva dato noie quando era sindacalista della Cisl. La commissione antimafia che visiterà il territorio nel 1974 stabilirà che l’80% della manodopera edile assunta in alta valle non aveva, guarda caso, alcuna tutela o garanzia giuridicamente riconosciuta.
Proprio quella commissione scrisse che esisteva una ‘ndrina a Bardonecchia (fatto che appare normale oggi, ma che per l’epoca sembrava molto strano) e d’altra parte a quell’epoca lo strapotere di Lo Presti in alta valle era già totale, se è vero che anche i carabinieri della zona (come testimonieranno successive indagini) accettavano di buon grado le sue regalie e gli mostravano reverenza e rispetto. Lo Presti e i Mazzaferro puntavano a un vero e proprio monopolio capitalistico sui cantieri valsusini: per non avere concorrenza con altri attori del territorio (spesso piccole ditte a conduzione familiare di lavoratori della valle, che cercavano commesse dai comuni) ricorrevano ai picchiatori. È in questo periodo che alcuni membri della famiglia Lazzaro da Bronte furono arrestati (1973) per aver aggredito due operai che rifiutavano di lavorare nei cantiere sotto l’egida della loro azienda. Poi, il 23 maggio 1976, Mario Ceretto, un imprenditore di Cuorgné, nel Canavese, che si rifiutava di sottomettersi, fu rapito e ucciso. Il tribunale condannò Lo Presti a 26 anni per il sequestro e l’omicidio, ma la cassazione annullò tutto.
Le cose, d’altra parte, stavano cambiando. Il giro degli affari stava diventando più grosso. Se i cugini meridionali venivano foraggiati dai lavori infiniti sulla Salerno-Reggio Calabria, i trapiantati in Val Susa poterono usufruire dei finanziamenti miliardari per la costruzione dell’A32: la Torino-Bardonecchia, detta anche autostrada del Frejus. Come tutte le faraoniche colate di cemento inventate nell’Italia repubblicana, l’opera è controversa e ne vengono messe in dubbio le finalità: in valle esistono già due statali quasi parallele (il raddoppio era avvenuto durante la guerra, per necessità militari) e una ferrovia. La costruzione dell’autostrada prevede un intervento molto invasivo sul territorio, con la costruzione di tunnel alpini in grado di provocare importanti dissesti ambientali e idrogeologici, che puntualmente si verificheranno. I valligiani vedono inoltre nel progetto un viatico allo spostamento indiscriminato del traffico su gomma sul versante valsusino e verso il Frejus, con effetti negativi sulla vita e sull’economia della valle.
Si creano i comitati contro la realizzazione dell’autostrada. La ferrovia è ancora sottoutilizzata, le merci potrebbero viaggiare tranquillamente su rotaia, magari promuovendo migliorie tecniche sulla tratta e sui mezzi che la percorrono, che sarebbero anche meno costosi per l’erario pubblico; ma, come denunciano i valligiani, l’obiettivo del governo non è il commercio: l’apertura dei cantieri è lo scopo in sé, i grandi costruttori pretendono il denaro pubblico, e l’impresa illegale è al comando nei flussi capitalistici del settore delle costruzioni. Il gioco non consisteva più, in quegli anni, soltanto nel farsi elargire somme astronomiche per la realizzazione di opere del tutto strumentali. Siamo ormai negli anni Settanta: si trattava di investire anche a scopo di riciclaggio, negli appalti pubblici, i capitali ricavati dal narcotraffico internazionale. Il clan Mazzaferro-Lo Presti ambiva agli appalti per l’A32 e, nel 1976, li ottenne.
I comitati si batterono con tenacia, ma ebbero contro la stampa e la politica al completo: gli anni dei lavori sono gli anni Ottanta, quelli delle tangenti torinesi che coinvolgono Dc, Psi e Pci. Il capo indiscusso del progetto autostrada era, in qualità di dirigente della Sitaf, Franco Froio, che proprio durante i lavori in val Susa conobbe Tonino Esposito e il suo collega, il mafioso catanese Pietro Dimo. Quando Adriano Zampini, arrestato, farà il nome di Froio nel giro di corruzione legato ai rapporti tra appalti e politica, quest’ultimo andrà a processo e, nel 1985, Dimo dichiarerà:
Fu […] Franco Froio a proporre di far uccidere Zampini in cambio di duecento milioni. A quell’epoca, nel 1983, io ero contitolare di un’impresa di pulizie, la Pultorino. Una mattina il mio socio, Antonio Esposito, venne e mi disse: “Franco è disposto a pagare cento, duecento milioni per far ammazzare Zampini”. […] Conobbi Froio nel 1982 quando entrai in società con Esposito. […] Avevamo un contratto da cinqucento milioni l’anno per la pulizia del tunnel dell’autostrada del Frejus […]. Froio era arrabbiato, diceva che Zampini era un delinquente, che bisognava farlo fuori […].
Il pm Vitari, tuttavia, che pure rappresentava la procura e quindi l’accusa nel processo, ipotizzò che le parole di Dimo potessero nascondere un complotto e mise subito in dubbio la sua testimonianza, che infine sarà ritenuta inattendibile, con grande e comprensibile sollievo di Tonino Esposito e del suo ipotetico mandante politico. In quel momento Rinaudo lavorava già per la procura di Torino con Vitari e, quale gregario di Gian Carlo Caselli e Maurizio Laudi, concentrava le attenzioni su tutt’altre vicende: quelle in cui, guarda caso, le deposizioni dei “pentiti” erano tenute in grande considerazione.
Lo Presti, nel frattempo, intesseva le manovre necessarie (1978-1986) per dare il sacco all’ultimo spazio non edificato del comune di Bardonecchia: Campo-Smith. Froio restò dominus incontrastato degli appalti per l’autostrada nell’interesse dei partiti e degli ambienti a lui vicini. Quando il procuratore capo dell’epoca, Bruno Caccia, fu ucciso dalla ‘Ndrangheta nel 1983 perché “con lui non si poteva parlare” (così dichiarò il boss Belfiore al processo), le indagini sull’omicidio lasciarono emergere “relazioni pericolose” con alcuni magistrati torinesi, che avevano con loro una “consuetudine di rapporti” (Rapporto Cnel 2010). “Il clan dei calabresi aveva purtroppo ottenuto in quegli anni a Torino la confidenza, la disponibilità o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati” (Ibidem).
All’assalto di Venaus
Le amicizie che Antonio Rinaudo ha coltivato in ambienti connessi ai futuri cantieri del Tav, tuttavia, non si limitano soltanto agli ambienti criminali, ma investono anche a quelli politici. Quando sedeva al Concord con Moggi, ad esempio, si trovava in compagnia anche di un altro personaggio, che il rapporto del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma definisce, al pari di Esposito, “comune amico” tra Moggi e il magistrato. Il dg Juve lo ha citato in una telefonata con Rinaudo: “Ci sono anche Tonino e Andrea Galasso…”. Andrea Galasso, classe 1932, deputato Msi negli anni Settanta, è il capostipite di una famiglia di avvocati molto nota negli ambienti dell’estrema destra torinese. Il fratello Ennio era stato al centro di una polemica giornalistica nel 2002 per aver partecipato, da consigliere regionale, a una commemorazione durante la quale era stato fotografato all’atto di salutare romanamente la sepoltura di un camerata. Nulla di strano: gli anni della cena al Concord sono gli anni in cui Alleanza Nazionale spadroneggia nelle istituzioni a ruota del consenso elettorale berlusconiano.
Se Galasso ha in comune con Rinaudo il rapporto con il malavitoso Tonino Esposito, Esposito deve molto, dal canto suo, all’avvocato amico di Rinaudo: fu proprio Galasso infatti – guarda caso – a difendere negli anni Ottanta il manager dell’autostrada del Frejus Franco Froio dalle accuse riguardanti il progetto di omicidio di Adriano Zampini, che aveva parlato ai magistrati delle tangenti negli appalti; secondo le testimonianze del “pentito” Dimo, Froio avrebbe commissionato proprio a Esposito l’assassinio: l’attività professionale dell’amico “politico” di Rinaudo, l’ex deputato neofascista Galasso, aveva salvato da una possibile condanna per omicidio l’amico “criminale” del pubblico ministero (sempre e rigorosamente per vicende legate ad appalti miliardari e alle grandi opere in Val Susa). Questo, tuttavia, è anche per Andrea Galasso il passato: nel presente è l’avvocato di Ugo Martinat, viceministro dei lavori pubblici in carica nel governo Berlusconi, che sarà di lì a poco indagato per compravendite di appalti in tutta la provincia di Torino e, in particolare, per la spartizione dei soldi del programmato cantiere Tav di Venaus.
Se i rapporti di Galasso con Moggi e la Juventus sono giustificati dal suo ruolo di difensore di Antonio Giraudo, numero due della società (nei giorni dell’incontro con Rinaudo impegnato con il suo capo a truccare il campionato di serie A grazie ad arbitri come De Santis) il rapporto di Galasso con Martinat va molto al di là del mero ruolo di difesa legale: il legame che li unisce è tutto politico e, anche stavolta, affonda le sue radici negli anni Settanta, quando Galasso era deputato del Msi e Martinat era picchiatore di riferimento dei missini torinesi. Il 16 febbraio 1975, per fare solo un esempio, Martinat si imbatté, in via Cernaia (accompagnato da altri tre camerati: Roggero, Kristen e Massano), in quattro operai e aprì il fuoco contro di loro. Per fortuna non aveva una gran mira e le conseguenze non furono irreparabili.
Vent’anni dopo, nel 1994, quando diventò deputato di Alleanza Nazionale, fu nominato questore alla camera dei deputati e i suoi primi atti istituzionali furono volti a imporre uomini-chiavi ai vertici delle società che hanno in gestione la Torino-Bardonecchia, e non a caso a capo di una di queste, la Stef, arriverà ben presto Vincenzo Procopio, suo uomo di fiducia. I fili della tavolata cui siede Rinaudo, come tutti i fili di potere, conducono sempre gli uni agli altri, e – in questo caso – sempre alla Val di Susa. I suoi amici sanno che per fare denaro ci vogliono capitali, e l’unico ente che può fornire capitali con un pezzo di carta è lo stato: le grandi opere lanciate da Berlusconi nel 2001 sono questo tipo di risposta ai vecchi-nuovi appetiti delle mafie imprenditoriali e dei partiti (Pd incluso, come vedremo). Nel 2001 Martinat aveva presentato le liste di AN per le elezioni regionali; vi aveva inserito Ennio Galasso, fratello di Andrea, che sarebbe diventato consigliere regionale. Martinat, invece, nuovamente eletto alle politiche, sarà appunto nominato viceministro ai lavori pubblici da Berlusconi sotto il ministro Pietro Lunardi, di Forza Italia, che controllava attraverso una prestanome (sua figlia) la Rocksoil, azienda in lizza per gli appalti Tav in Val Susa.
Se Lunardi lavorava per sé stesso, tuttavia (è un imprenditore), il suo vice Martinat (che era un “politico”) non lavorava meno alacremente per il suo partito. Vincenzo Procopio (definito nelle intercettazioni il “cassiere” del viceministro), fondò infatti una nuova società di progettazione, la Sti, attraverso cui riceveva denaro in cambio di appalti per lavori pubblici a Torino, in cintura e in Val Susa, e lo girava al viceministro, che a sua volta girava tutto alle casse di Alleanza Nazionale. Tutto questo avveniva negli stessi anni (2001-2003) in cui Tonino Esposito metteva in piedi il giro torinese dell’usura per conto di Rocco Lo Presti e Rinaudo veniva intercettato per la prima volta al telefono con il mafioso. Quando, successivamente, nel 2005, Rinaudo andrà a cena con Esposito e Galasso su invito di Moggi, la direzione investigativa antimafia avrà già pubblicato un rapporto (16 luglio 2004) in cui veniva segnalata l’acquisizione del lotto 1 per il tunnel di Venaus da parte della Rocksoil, riconducibile a Lunardi. Lo stesso rapporto segnalava le telefonate che proprio Vincenzo Procopio stava effettuando, su interesse di Martinat e di Alleanza Nazionale, per organizzare il sistema di turbativa d’asta generalizzata verso chiunque volesse ottenere appalti per quella e altre opere pubbliche.
Due mesi dopo la cena tra Rinaudo e Galasso, infatti, quest’ultimo assumerà le difese di Martinat (9 maggio 2005) nel procedimento – intentato dalla stessa procura dove Rinaudo è pm! – per abuso d’ufficio e turbativa d’asta in tutta la provincia di Torino e in Val Susa. L’emergere di interessi sporchi in relazione al promesso disastro ambientale di Venaus e della Val Cenischia (diversi scienziati hanno sottolineato l’alta presenza di amianto nella montagna che Lunardi e Martinat vogliono perforare) non fermerà tuttavia la lobby del Tav. Il 31 ottobre 2005 le forze dell’ordine, tentarono di raggiungere un sito nei pressi di Monpantero (Val Cenischia) per installare un cantiere geognostico. Accadde però l’imprevisto: centinaia tra abitanti della Val Susa e ragazzi arrivati da Torino bloccarono la polizia al ponte del Seghino. Già da alcuni mesi in Val Susa stava accadendo qualcosa di strano: migliaia di persone scendevano in strada al grido “No Tav No Mafia” e promettevano che, dopo la sconfitta sull’A32, la valle non avrebbe permesso un ulteriore scempio interessato sul suo territorio.
A fine novembre migliaia di persone si alternarono nella Libera Repubblica di Venaus, un presidio permanente contro l’inizio dei lavori, che venne sgomberato con particolare violenza dalla polizia agli ordini del vicequestore Salvatore Sanna nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005. Il 6 e 7 dicembre, però, i valsusini bloccarono la ferrovia, tutte le statali e l’autostrada. Il confine internazionale con la Francia restò chiuso per la mobilitazione della valle, e l’8 dicembre migliaia di persone forzarono o aggirarono i blocchi delle forze dell’ordine, riconquistando gli spazi destinati al cantiere. All’interno del governo Gianni Letta intervenne per bloccare la linea dura di Lunardi, anteponendo agli interessi del ministro e del suo vice l’esigenza di non provocare turbamenti dell’ordine pubblico a ridosso della campagna elettorale e delle olimpiadi invernali del 2006.
Famoso lo slogan che si cantava a quei tempi “Chiamparin Cristallen le olimpiadi as fan nen” [Chiamparino, Cristallin le olimpiadi non si fanno] e il fatto che la fiamma olimpica venne quasi fermata Susa e poi deviata dagli organizzatori nella bassa valle; il comune di Bussoleno aveva vietato il passaggio della carovana pubblicitaria al seguito della fiaccola per boicottare la Coca Cola (sindaco Joannas Beppe).
Il progetto Tav Torino-Lione venne temporaneamente sospeso. Il 17 dicembre migliaia di persone sancirono con una manifestazione a Torino l’inedita e sia pur parziale vittoria di una popolazione locale contro uno scempio ambientale voluto dalle casse dei partiti e dalle imprenditorie criminali.
“… so’ tutti la stessa pasta, so’, ‘sti magistrati!”
La vittoria del movimento No Tav, nel 2005, sembrò essere un brutto presagio per Rinaudo: il 2 maggio 2006, un anno dopo la cena al Concord, si chiusero le indagini di Calciopoli e l’oggetto dell’ammirazione e della riconoscenza del magistrato, Luciano Moggi, finì sulle prime pagine di tutti i giornali, simbolo della corruzione sportiva e dell’immane presa in giro di tutti gli appassionati di calcio. Ma andò anche peggio: il grande potere calcistico, impersonato da Moggi ma non solo, mostrò all’Italia i suoi addentellati nella politica, nei ministeri, nelle questure e nelle procure, e sui giornali finì lo stesso Rinaudo. Il 18 maggio La Repubblica dedicò un’intera pagina alle telefonate tra Rinaudo, Laudi e Moggi, anche se evitò accuratamente di approfondire i legami tra il pm ed Esposito “O’ Americano”, e non riferì i legami dell’avvocato Galasso con la lobby del Tav. Il 6 novembre, infine, Antonio Malagnino chiuse le indagini sul giro torinese dell’usura. L’amico di lunga data di Rinaudo, Esposito, finì in prigione: prima a Fossano, poi a Verbania. Anche l’amico del suo amico, il boss Lo Presti, finì dietro le sbarre.
Anche in questo caso, la procura di Torino non ritenne fosse necessario sollevare Rinaudo dal suo incarico di pubblico ministero: la sua frequentazione di un mafioso già accusato di omicidio, coinvolto negli appalti di Torino 2006 e a capo del sistema torinese dell’usura, non provocò, a quanto pare, grandi turbamenti. Nonostante i favori chiesti e ottenuti da Moggi e le sue relazioni pericolose con la società bianconera (all’apice delle corruzioni sportive) e nonostante il legame personale con un emissario della ‘Ndrangheta, accertato in due diverse inchieste (usura 2003 e calciopoli 2005) Rinaudo continuerà a sedere sullo scranno di magistrato negli anni che seguiranno. Anche i media non si accaniscono, del resto, insistendo maggiormente sui legami tra Moggi e l’allora più noto giudice Laudi. Una lontananza dalle cronache che Rinaudo manterrà fino al 2011 quando, su incarico di Caselli, diventerà uomo di punta della battaglia giudiziaria contro gli oppositori all’alta velocità in Val Susa.
Nel frattempo sia il boss dell’amico Esposito, Lo Presti, sia l’assistito dell’amico Galasso, Martinat, sono morti. Quando Rinaudo presidierà il cantiere Tav di Chiomonte assieme alla polizia, nella notte di violenze del 19 luglio 2013, gli appalti della Maddalena erano già stati affidati al portaborse di Martinat, Vincenzo Procopio (pur fresco di condanna in primo grado per gli appalti all’epoca di Venaus) e alla famiglia siciliana che era stata indicata dall’ex sindaco di Bardonecchia Mario Corino come prestanome del clan Lo Presti per l’A32, i Lazzaro. Ai vecchi maneggioni si sono sostituiti i vecchi portaborse, nuovi accaparratori. Nove giorni dopo le accuse di terrorismo, il 9 agosto 2013, Rinaudo si dedica invece a un fascicolo che ha lasciato riposare per tanto tempo: quello sul giro d’affari legato alla ‘Ndrangheta che gli era stato affidato nel 2001 e per cui aveva chiuso le indagini nel 2003. Quel giro di denaro illegale tra la Germania, l’Italia e il Marocco in cui compariva, tra gli altri, il nome di Rocco Varacalli, affiliato alla ‘Ndrangheta e all’epoca non ancora “pentito”.
Quello tra la firma della conclusione indagini e quella del rinvio a giudizio è l’unico momento dell’iter processuale in cui soltanto il pm può accelerare o rallentare i tempi: sua deve essere la firma di conclusione indagini, sua la firma di richiesta di rinvio a giudizio. Il tempo medio è alcuni mesi, anche se, come vedremo, i tempi di Rinaudo, per i No Tav, si accorceranno ulteriormente; ma il procedimento 19468/01 R.G.N.R., 6616/02 R.G. G.I.P. sulla ‘Ndrangheta, affidato a Rinaudo, giace inerte per dieci lunghissimi anni, rendendo certa la prescrizione per i sessantacinque indagati. Ci associamo alla loro gioia di quegli indagati per aver avuto un pm così; del resto è giusto, perché anche lui, che pure era amico di Tonino Esposito “O’Americano”, l’uomo di Lo Presti a Torino, non ne ha mai avuto conseguenze, se non apparire in verità (tanto al mafioso quanto al comune amico Luciano Moggi) un gran rompicoglioni. Lo si evince da un’intercettazione del 26 febbraio 2005, in cui Antonio Rinaudo chiamò Tonino per essere scarrozzato da Lucianone, contrariamente a quanto aveva annunciato: il malavitoso non si tenne e, al telefono con quest’ultimo, disse un’involontaria parola di verità:
Moggi: Stasera ci vediamo!
Tonino: Sì, ma mi ha telefonato Rinaudo… dice che viene anche lui… gli hai detto…?
Moggi: Eh, no! Io glielo avevo detto!
Tonino: Ah!
Moggi: Mi disse che non poteva venì!
Tonino: Eh!
Moggi: Poi ha lasciato detto alla segretaria mia, contrariamente a quello che mi aveva detto, può venire!
Tonino: Ah! Perché mi ha telefonato e mi ha detto se lo… “Vienimi a prendere”, “Fammi ‘sta cortesia”… Gli ho detto: “Va beh, non c’è problema!”.
Moggi: È ‘na rottura di palle!
Tonino: Ehh, va beh… No, ma non fa niente! Tanto questi qua so’ tutti la stessa pasta, so’, ‘sti magistrati!
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Nota
Le prime telefonate intercettate tra Rinaudo e Tonino Esposito hanno trovato eco giornalistica in Parte dalle pallottole al Toroc la pista che porta alla banda, La Repubblica, 7 novembre 2006. Il ruolo di Esposito quale emissario di Lo Presti e il suo coinvolgimento nell’inchiesta sulla pianificazione dell’omicidio Zampini è descritto in La ‘cupola’ degli usurai, La Repubblica, 7 novembre 2006, Usura, Lo Presti patteggia tre anni e non va in carcere, La Repubblica, 4 maggio 2007 e nella Relazione del commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, 15 novembre 2007; i rapporti tra Rinaudo, Moggi, Esposito e Galasso, e i favori di Moggi a Laudi, in Intercettazioni, anche i giudici nelle telefonate di Moggi, la Repubblica, 18 maggio 2006. Il testo integrale della Relazione alla procura di Napoli sul sodalizio criminale facente capo a Moggi Luciano, redatto dal nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, in cui sono contenute le intercettazioni riportate tra Moggi ed Esposito, Moggi e Rinaudo, la segretaria di Moggi e Laudi, ed altre, è consultabile al sito rubentus.it.
La vicenda del tentato assassinio Zampini nel cui processo furono accusati Froio ed Esposito è sommariamente narrata in Sì, avevo l’ordine di uccidere Zampini. Compenso: 500 milioni, in La Repubblica, 20 febbraio 1985, Un ex deputato socialista voleva far uccidere Zampini?, La Provincia, 20 febbraio 1985, Ci disse: uccidete Zampini, L’Unità, 20 febbraio 1985. Cfr. anche L’autostrada del Frejus è merito mio, Luna Nuova, 24 dicembre 2002 e Supermazzetta, in cella Froio (autostrada del Frejus), Corriere della Sera, 29 giugno 1993. Il rapporto tra Martinat e Galasso nel procedimento per gli appalti di Venaus è documentato tra l’altro in Martinat, indaghiamo su di lei, La Repubblica, 3 maggio 2005; gli appalti illegali per il Tav e la turbativa d’asta da opera di Procopio e Martinat in Un ministro, il suo vice e quei microfoni indiscreti, La Repubblica, 16 dicembre 2004, Tangenti ad alta velocità, Diario, 16 dicembre 2005; la Sentenza della terza sezione penale del tribunale ordinario di Torino nei confronti di Procopio Vincenzo per le sue attività in favore di Martinat, deceduto all’epoca del pronunciamento (procedimento 2198/09 R.G. Tribunale), è consultabile al sito lyonturin.eu.
- Le strane amicizie del Pm Rinaudo (parte I)
Magistratura e ‘Ndrangheta all’attacco della Val Susa - Le strane amicizie del Pm Rinaudo (parte II)
Rinaudo nella selva incantata – Relazioni pericolose di un pubblico ministero – (2003-2006) - Le strane amicizie del Pm Rinaudo (parte III)
I furbetti del cantierino – Partiti, mafie e appalti da Venaus a Chiomonte – (2006-2011) - Le strane amicizie del Pm Rinaudo (parte III bis)
Rinaudo in campo – Procura e Digos all’occupazione della Val Susa – (2011-2012) - Le strane amicizie del Pm Rinaudo (parte IV)
Rinaudo muratore – L’amico di certi amici all’attacco del movimento – (2012-2013) - Le strane amicizie del Pm Rinaudo (parte V)
Rinaudo Furioso – Terrorismo contro il movimento No Tav – (2013-2014)