(da Infoaut.org) Riceviamo e con estremo piacere pubblichiamo quanto la redazione di Radio Aut ci ha segnalato ed inviato. Pensiamo sia importante compiere questo passaggio (anche a posteriori rispetto all’impazzare di una polemica ‘di carta’), come abbiamo fatto in passato dinnanzi alla strumentalità di ‘una certa societa civile’ al cospetto della figura di Peppino Impastato; innanzitutto per rispetto alla memoria di una compagno, di un comunista, come Salvo Vitale con questo articolo ricorda alle troppe pecorelle in borghese che affollano segreterie di partito, studi televisivi e salotti altolocati.
Giovedì sera (1-3), nel corso della trasmissione di Santoro “Servizio Pubblico”, Sandro Ruotolo ha intervistato un giovane No Tav, lo stesso che aveva “gravemente” insultato un celerino, chiamandolo “pecorella” e accusandolo di usare la maschera con la sua ragazza, perché aveva l’alito fetido. Le immagini hanno fatto il giro di Facebook, a presunta dimostrazione della cattiveria dei No Tav. Una cattiveria che giornalmente, secondo un copione ormai collaudato da decenni, da parte dei mezzi d’informazione, si cerca di colorare di atti di violenza, di infiltrati, di misteriose presenze anarco-insurrezionaliste e di aspiranti terroristi che hanno trovato un terreno fertile per allenarsi. Il giovane si è giustificato affermando di essere cresciuto e costretto a rapportarsi con il problema per cui sta lottando, ed ha detto che il suo “modello” , il punto di riferimento della sua lotta, è Peppino Impastato. Ruotolo gli ha fatto presente che Peppino Impastato lottava contro la mafia e non contro le istituzioni o i rappresentanti dell’ordine e il giovane, che forse non conosceva bene la vita di Peppino, non ha saputo o non ha potuto replicare. In realtà farlo era molto facile.
Il primo momento d’impegno politico di Peppino è stato quello della lotta accanto agli espropriandi: “Le lotte di Punta Raisi, lo straordinario movimento di massa che si è riusciti a costruirvi attorno”, scrive Peppino. L’aeroporto era stato costruito una quindicina d’anni prima, dopo una serie di intrighi e di manovre sotterranee condotte nei palazzi della Regione Sicilia dietro la regia del pluriministro dei Trasporti Bernardo Mattarella. Non è stato mai chiarito quale fu il ruolo della mafia in tale scelta. Poiché ogni comune aveva un boss che ne controllava il territorio, non è difficile pensare a un accordo tra Cesare Manzella, boss assoluto di Cinisi, e il boss di Ciaculli Totò Greco, detto “Cicchiteddu”, poi alleati nella guerra di mafia contro i La Barbera, che portò all’eliminazione di Manzella, saltato in aria con la sua alfaromeo Giulietta nel 1963 e validamente rimpiazzato da Gaetano Badalamenti. Anche se si tratta di un’illazione, è probabile che Cicchiteddu non abbia voluto “rovinare” l’immensa piana di Bagheria, in cui si estendevano i suoi aranceti, e dove sarebbe stato più logico ubicare l’aeroporto, oppure che si sia voluto trovare un punto equidistante tra Palermo e Castellammare del Golfo, paese di Bernardo Mattarella e suo collegio elettorale. Costruite le prime due piste, che in pratica erano l’una prolungamento dell’altra, su terreni in gran parte abbandonati, anche se limitrofi al mare, ci si accorse che, nelle giornate di forte vento di scirocco gli aerei non potevano atterrare, a causa di strani mulinelli d’aria: dopo 15 anni, si pensò di costruire una pista trasversale su terreni dove vivevano stanzialmente circa duecento famiglie di contadini e piccoli proprietari che, con la loro produzione agricola costituivano il tessuto produttivo del paese. I contadini si erano costituiti in un “Consorzio espropriandi” denunciando l’inutilità di un progetto che non avrebbe risolto tutti i problemi creati dai venti e chiedendo, in subordine, una giusta valutazione dei terreni e il pagamento immediato, onde potere ricominciare altrove il proprio lavoro. Erano state fatte diverse manifestazioni e, nel corso di una di queste, era stata occupata anche la via provinciale per Palermo. Molti dei partecipanti erano stati denunciati e poi processati e assolti perché il maresciallo di Cinisi non aveva fatto suonare la tromba al terzo ordine di scioglimento, così come prevedeva il codice penale. Attraverso una serie di illegalità, senza che nessuno sapesse del decreto di esproprio, senza che i singoli proprietari ne fossero avvisati, con la Regione, ente espropriante, che mandò i suoi funzionari a fare i rilievi sulla consistenza dei terreni, alla fine si giunse al giorno d’inizio dei lavori. Il tutto fatto alle prime ore del mattino e all’insaputa dei contadini che, comunque, avevano ideato un sistema di allarme affidato al suono di bombole vuote appese agli alberi. I carabinieri cercavano chiaramente l’occasione d’intervento e di scontro con provocazioni verbali, sino a quando alcuni non caddero nella trappola e furono arrestati. Posso testimoniare direttamente la violenza di quegli scontri, poiché ne sono stato partecipe, sia come espropriando, sia come componente del gruppo di Peppino Impastato. In un certo momento proposi di sederci davanti alle ruspe per fermarle: si fermarono quando già le avevamo addosso e non sapevamo se scappare o morire. Alla fine ottenemmo una mediazione: una delegazione di proprietari si sarebbe recata da presidente della Regione per esporre le richieste di pagamento anticipato. Il presidente disse di potere offrire solo il 10% del valore stimato. Il PCI accettò la proposta, buona parte dei contadini si schierò con noi e decise di resistere. Ma ormai il gioco era fatto: erano riusciti a spaccarci ed ebbero la strada spianata per poterci spazzare e avviare lo scempio. Ricordo anche qualche momento di guerriglia, allorchè di notte andavamo a tagliare le cinghie delle motopale o scrivevamo sui muri qualche frase velleitaria.
Quell’esperienza non è stata solo un momento di un lontano settembre 1968, ma è una risposta che vorrei dare a Ruotolo e alla sua osservazione secondo cui “Peppino lottava contro la mafia e non contro le istituzioni.” Il progetto di lotta di Peppino era di gran lunga più vasto, rispetto ai tentativi di ridimensionarne la figura come esempio di difesa della legalità e dello stato, contro la mafia che ne sarebbe il nemico. Se la mafia non andasse a braccetto con molti dei politici, potrebbe essere così, ma non lo è. Peppino aveva in mente la demolizione dello stato borghese con tutte le sue regole di violenza, la sua strategia di accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi attraverso lo sfruttamento dei molti. L’uguaglianza economica e politica. Peppino era un comunista. Peppino, in Val di Susa ci sta benissimo, nelle lotte contro la legge usata come strumento di protezione dell’illegalità, contro la devastazione dissennata del territorio, senza che i vantaggi siano paragonabili ai costi enormi da pagare, agli espropri e agli scippi di “pezzi di vita”, sui quali, chi vive in quei posti aveva deciso di organizzare il resto dei suoi giorni.
Salvo Vitale