Oggi sul “Manifesto” il mio articolo di denuncia. “Le mie prigioni” di resistenti pieni di ragioni. Per tutti i compagni NOTAV arrestati, per Antonio Ginetti, per Giorgio Rossetto e tutti loro. Da tutti noi “fuori”, con rabbia e con affetto: LIBERI TUTTI, LIBERI SUBITO.
[Domani alle 21 presidio sotto il carcere di Saluzzo dove è rinchiuso Giorgio]
Antonio Ginetti vive in quel di Pistoia, ed ha una parlata magnifica, con accento molto bello e dolce: sentirlo parlare è già un piacere, al di là delle cose che dice. Ed è sempre un piacere discorrere con lui, che a 61 anni ha visto molte cose accadere nella sinistra, quella vera ovviamente, e che alcune cose le ha provate anche sulla sua pelle. “Pellaccia, prego”, correggerebbe Antonio.
E’ stato arrestato il 26 gennaio scorso, ormai quasi quattro mesi fa, per aver partecipato alle manifestazioni NOTAV in Valle di Susa della scorsa estate. Le imputazioni a suo carico sono assai lievi, persino viste nell’ottica di chi possa credere siano vere. Infatti, come nella maggior parte dei 26 arrestati quel giorno, durante quella maxi-operazione contemporanea in molte città italiane, anche Antonio è stato posto fuori dal carcere, agli arresti domiciliari. Altri hanno l’obbligo di residenza nel proprio comune, come Guido Fissore, l’amico di Villar Focchiardo reo di aver usato la stampella durante gli sgomberi.
Una prima riflessione basata semplicemente sui fatti: la scarcerazione di quasi tutti quegli arrestati ci dice come quei provvedimenti cautelari fossero – a detta di un’altra faccia della stessa Giustizia che li ha emessi – quantomeno esagerati. Il teorema basato sulla possibile reiterazione del reato e sulla possibile fuga dell’arrestato si sta lentamente sgretolando. Ma purtroppo – forse proprio per lasciare un minimo di parvenza di legittimità – su alcuni dei 26 arrestati si sta esercitando in queste settimane quell’ars persecutionis che la nostra giustizia, così spesso assente o distratta, riesce invece benissimo ad esercitare quando diventa fin troppo desta.
Antonio Ginetti vive del proprio lavoro, è iscritto alla Camera di Commercio quale Ditta individuale da un quarto di secolo. La qualifica che alcuni gli hanno appiccicato addosso di “ex Prima Linea” è una calunnia, dato che Antonio è stato assolto da tutte le accuse, in quei vecchi processi. Il 26 aprile, dopo tre mesi dall’arresto, ha presentato una richiesta di permesso d’uscire per recarsi al lavoro, senza neppure interrompere gli arresti domiciliari. Era persino disponibile, e penso per un attimo a quanto potesse essere quello un gesto di vera buona volontà, a presentarsi quotidianamente alla polizia Giudiziaria per controlli. La risposta della Giustizia è stata il rigetto dell’istanza. Essendo privo di mezzi di sostentamento, Antonio è da circa una settimana in sciopero della fame, ultimo strumento rimastogli per opporsi a quello che lui considera un accanimento repressivo. Per ora sta abbastanza bene: pare avere una fibra più forte di Tobia Imperato, lo storico ed anarchico torinese che avendo intrapreso la stessa iniziativa, dato che anche a lui gli arresti domiciliari impedivano di lavorare, ha poi avuto seri problemi di salute ed un ricovero in ospedale. Collegati via internet, questa mattina abbiamo programmato con Antonio un trekking sulla Sierra Maestra a Cuba, quando tutto questo marciume sarà definitivamente passato.
Un altro davvero “goregn” (resistente, in dialetto piemontese) è Giorgio Rossetto, anch’egli arrestato il 26 gennaio e tuttora in carcere. E che carcere: dal 28 gennaio è stato trasferito “per punizione” al carcere di Saluzzo, in una sezione di isolamento, subendo un trattamento che è assai vicino, come bassa qualità della vita carceraria, ai detenuti condannati a lunghe pene definitive e sottoposti a regimi speciali. Le lettere di Giorgio dal carcere di Saluzzo sono state per noi fortunati, che a centinaia abbiamo “commesso” più o meno i suoi stessi “reati” ma siamo liberi, un bellissimo spaccato della realtà carceraria: agghiaccianti ma pacate le descrizioni delle “ripassate” delle guardie ai detenuti “più nervosi” e la vischiosità della burocrazia interna, che ti ostacola e ti toglie – pian piano – anche quel poco di accessibilità all’aria aperta e al mondo esterno. Il suo occhio lucido e la sua penna tranquillamente oggettiva hanno però dato fastidio alla direzione carceraria: verso metà aprile è stato notificato a Giorgio un provvedimento del tribunale di Torino (sez. G.I.P.) in cui si applicava per sei mesi “alla corrispondenza epistolare in entrata e in uscita il visto di controllo”, in quanto l’imputato avrebbe fatto opera di “istigazione alla ribellione”. Divulgare all’attenzione esterna i problemi interni al carcere, semplicemente scrivendone, è quindi diventata una insubordinazione intollerabile. Da quel momento, così zittito, Giorgio ha iniziato uno sciopero della posta in uscita, muto ma collegato al mondo dalla campagna di corrispondenza che in tutta Italia è stata messa in piedi, subissando il carcere di posta per lui. Qualche giorno fa, obtorto collo, la revoca del provvedimento.
Chi qui scrive, davanti a quanto Giorgio Rossetto ha subito,, si è trovato ancora una volta spiazzato, come davanti agli arresti di gennaio, come dinanzi agli episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine visti con i propri occhi in Valle di Susa negli scorsi mesi. Nella mia ingenuità, infatti, avevo pensato di raccogliere in un volume, quando appunto questo marciume sarà passato, le lettere dal carcere dei compagni arrestati il 26 gennaio e dintorni. Non era un’idea molto originale: opere di questo genere abbondano, pensiamo alle Lettere di Antonio Gramsci scritte dal carcere fascista. Per un attimo, dopo che a Giorgio Rossetto è stata tappata la bocca, mi è addirittura parso che l’attuale regime italiano non tollerasse e consentisse nemmeno le “lettere dal carcere”.
Adesso che Giorgio può di nuovo scriverci, con Antonio in sciopero della fame e altri compagni che soffrono analoghe restrizioni, il mio pensiero è diverso. Facciamo in modo che queste lettere, queste iniziative estreme come il digiuno abbiano fine, perché i provvedimenti che li originano vengono “corretti”. Ancora la mia ingenuità prende il sopravvento: credo sia possibile che, davanti alle nuove evidenze, ai fatti, chi ha ordinato quei provvedimenti e chi tace dinanzi a questo accanimento possa dire una parola, una piccola frase che compirebbe il miracolo di radere al suolo il sottobosco di polemiche e provocazioni che da quel 26 gennaio è cresciuto virulento: “mi sono sbagliato”.