Il campeggio Gravella e l’Estate di lotta No Tav sono stati un successo del movimento, che ha costretto la controparte a mobilitare, oltre al suo (sempre più costoso) apparato militare, anche il suo potente apparato di propaganda. L’uso di toni sempre più violenti da parte dei parlamentari e dei notabili a libro paga della Lobby del Tav denuncia una debolezza di fondo, che è quella di chi è consapevole di non avere il consenso delle persone, e non soltanto sul luogo prescelto per la realizzazione dell’opera. Così, mentre la casta crolla pezzo dopo pezzo tra scandali giudiziari che non scandalizzano più nessuno, e tra uno yacht pagato a nostre spese e auto di lusso comprate allo stesso modo, il movimento è attraversato dalle forze vive del paese, da tutti coloro che vedono nella Val di Susa il laboratorio per nuove possibilità politiche, e una speranza di cambiamento. Da Bergamo a Palermo, da Napoli a Bologna, da Cagliari a Venezia, tutta l’Italia rivoluzionaria ha percorso i tornanti che portano all’ormai famoso campeggio No Tav, il presunto “campo paramilitare” che ha saputo tenere testa a un’occupazione militare vera e propria, per ben tre mesi. Un luogo come il campeggio Gravella ha dimostrato una volta in più, in questi tre mesi, che unendo le forze, procedendo insieme grazie alla fiducia e alla limpidezza delle nostre idee e del nostro modo di essere, possiamo creare, anche stretti tra il bosco e il fiume, e tra un fortino militare e la montagna, qualcosa di grande.
È ciò che il potere non conosce e non comprende, ciò che noi abbiamo saputo costruire: un laboratorio di sperimentazioni No Tav, un bellissimo viavai di intelligenze che non sono state svendute al sistema. La mobilitazione di quest’anno ha visto anzitutto la partecipazione di un numero maggiore di giovani della valle: soggetti nuovi, che avevano vissuto il movimento in modo più distaccato negli scorsi anni, e che ora cominciano a vivere il loro territorio attraverso uno sguardo conflittuale e militante. Il Komitato Giovani No Tav, nato in seguito all’occupazione militare e già molto attivo nelle giornate di marzo e aprile, ha svolto un ruolo importante soprattutto, anche se non soltanto, nell’organizzazione/gestione dei due campeggi studenteschi che hanno aperto e chiuso il campeggio. Una partecipazione, quella giovanile, molto importante, se è vero che “lotta popolare” non vuol certo soltanto dire pensionati e famiglie, ma anche adolescenti, ragazze e ragazzi, studenti delle scuole della valle: una componente che, per ragioni generazionali e sociali, oltre che di indole, ha spesso difficoltà a confrontarsi con quella “adulta”, ed ha avuto talvolta, negli anni scorsi, la tendenza a praticare soltanto i momenti di scontro, frequentando di malavoglia le riunioni dei comitati. Ora sta assumendo gradualmente anche responsabilità politiche, organizzative e di proposta, potenziando il KGN come strumento in grado di fornire un ottimo mezzo di espressione.
Oltre alla componente giovanile di valle, un’altra che è apparsa in via di rafforzamento è quella della solidarietà straniera: in tre mesi abbiamo avuto il piacere di conoscere, nel vivo della lotta, compagne e compagni provenienti da tutta Europa. Tedeschi, inglesi, spagnoli, turchi, portoghesi, francesi, kurdi, svizzeri, polacchi, svedesi, austriaci hanno raggiunto il campeggio (e in molti casi hanno faticato a lasciarlo, già innamorati della valle!) e ci hanno raccontato le lotte antinucleari in Germania, la nascita dei comitati No Tav in Francia, l’opposizione al governo in Turchia, la resistenza delle occupazioni di Londra… È stata l’occasione, per loro, di vivere dall’interno una battaglia su cui circolano in molti paesi racconti e informazioni (talvolta addirittura miti!), e di cui hanno immediatamente percepito la differenza nel carattere insieme militante e popolare, quieto e determinato a un tempo, grande ma circondato da mille avversari. Senza dubbio l’arrivo di così tanti No Tav europei, in treno o in bicicletta (fin dal Portogallo!), in furgone o in autostop, meriterà nei prossimi anni maggiore attenzione, anzitutto attraverso traduzioni puntuali degli appelli, dei testi presenti sui siti, delle assemblee e delle informazioni nei presidi e nei campeggi.
I valligiani, dal canto loro, hanno supportato il campeggio in modo sicuramente più continuativo e attivo dello scorso anno, nonostante l’onere degli spostamenti in macchina su è giù per la valle, con quello che costa oggi la benzina, non sia indifferente. Paradossalmente, proprio i valligiani sono tendenzialmente più lontani dall’idea di campeggiare… in valle, e in effetti molti momenti quotidiani di vita del campeggio sono stati animati maggiormente dagli altri, da chi aveva deciso, per l’estate, di affiancare al piacere dei ruscelli e della montagna una lotta per il futuro di tutte e tutti. Ma non è mancato il sostegno attivo dei comitati, che hanno affrontato duri turni settimanali, spalmati su tre mesi, per un’ottima cucina a prezzi assolutamente popolari, e che non sono mancati, oltre che alle manifestazioni e alle assemblee, agli eventi più importanti: dallo spettacolo di Ascanio Celestini alla presentazione del libro di Revelli e Pepino, dagli incontri con i No Tav Terzo Valico a quelli con i familiari delle vittime della tragedia ferroviaria di Viareggio o con i terremotati emiliani.
Tre mesi di lotta, attraversati da migliaia di persone provenienti da luoghi e percorsi politici diversi, lingue diverse (fatto, questo, dalle conseguenze talvolta non indifferenti), non avrebbero potuto non sollevare questioni di grande importanza, discussioni e confronti anche veraci, che non hanno mai travalicato la scelta consapevole, da parte di tutt*, di fare proprio il rispetto profondo per l’altra/o, dal momento che è insieme che si parte ogni volta, ed è insieme che si deve ritornare. Non si sono riproposti i problemi dell’estate 2011, quando alcuni individui, talvolta raccolti sotto piccoli gruppi di “affinità” avevano mostrato di non accettare l’assemblea come terreno di confronto a viso aperto, esprimendo piuttosto in insano e arrogante disprezzo per la dimensione collettiva, e persino velleità (peraltro improbabili) di sovradeterminazione del movimento. Quest’estate tutte e tutti hanno condiviso l’importanza della pratica dell’autogestione totale, e quindi della sovranità completa delle assemblee come luogo decisionale, in totale contrapposizione con le ideologie istituzionali e capitalistiche, dove esiste esclusivamente la glorificazione del singolo, del leader, del carisma e del potere del gesto individuale.
Naturalmente c’è chi non smetterà mai di credersi stratega incompreso, di guardare il movimento dall’alto in basso (particolarmente la sua composizione più popolare) o di essere convinto che due frasi in croce, imparate a memoria su un libro di Agamben, siano sufficienti a farsi profeti (chissà se acrobati) della rivoluzione. Ha prevalso, però, in questi rarissimi casi, una diserzione silenziosa dall’assemblea (o dalla valle stessa), e del resto questa è una soluzione accettabile, dal momento che nessuno si sogna di “proibire” o “imporre” alcunché, fintantoché non si pretenda di incidere sui percorsi collettivi da cui ci si estromette. Al limite resta il problema – che è stato anche discusso – dell’utilizzo dello slogan “No Tav” come un brand commerciale, qualcosa da attaccarsi al petto (o da scrivere sulla vetrina di una banca) per darsi una legittimità di ritorno, sperando di ottenere brandelli di consenso che non si riuscirebbero ad ottenere senza coprirsi dietro a una battaglia più grande, a un nome più grande. Un utilizzo che al movimento difficilmente potrebbe piacere, come è emerso in molteplici discussioni: gli sforzi dei valligiani, in tutti questi anni, non sono stati compiuti per aprire spazi politici utilizzati da altri, tanto più se secondo le logiche identitarie e autereferenziali sul cui rifiuto il movimento ha costruito tutta la sua forza conflittuale.
L’azione compiuta senza un confronto con la valle può, infatti, portare a valutazioni negative (anche scritte) da parte del movimento: questo fa parte della libertà di pensiero e di espressione di esso, che sarebbe a dir poco velleitario mettere in discussione. Non accettiamo, quindi, l’insulto risibile e gratuito di chi descrive queste valutazioni come “dissociazioni”: il movimento non può dissociarsi da qualcosa a cui non si è mai associato, contrariamente a ciò che fecero i “dissociati” in precedenti cicli di lotte. O forse c’è chi crede che la dissociazione sia altro, ossia l’astenersi da una “complicità” automatica: qualunque cosa faccia chiunque, in qualunque luogo, bisognerebbe essere (chissà perché, poi) “silenziosamente” complici. Tutto il contrario: il movimento non è “complice” di nessuno, almeno in questo senso: ad una “complicità” così qualunquisticamente (e, perché no, codardamente) intesa, contrapponiamo la solidarietà attiva e a viso aperto di chi si assume le responsabilità, affrontando il terreno dell’illegalità quando necessario (senza mai piagnucolare per le conseguenze repressive) e sempre in base a decisioni che si prendono e si maturano insieme. Né ci interessano soporifere questioni teoriche sulla sacralità dell’individuo e dei suoi atti (anche fatte salve le paradossali “complicità” di queste ideologie con la cultura liberale). Mera filosofia – noi siamo interessati alla critica.
Non si può praticare lo scontro senza coltivare l’amicizia, la condivisione, l’aggregazione sociale; e il movimento ha i suoi tempi e le sue fasi, che vanno compresi e rispettati. Un atto condivisibile in astratto può non esserlo se calato nel concreto delle circostanze. L’amicizia nella diversità che nasce nella lotta va tutelata, perché è densa di possibilità rivoluzionarie. È un’amicizia in cui non esistono partiti o correnti, ma soggetti in continua trasformazione grazie, anzitutto, all’interazione reciproca. Il percorso della contrapposizione con i nostri avversari è fatto, sul nostro fronte, di apprendimento, umiltà, confronto: le assemblee del movimento, contrariamente a quelle degli organi istituzionali, non sono un luogo dove fazioni e interessi si scontrano per arrivare a un voto, dove esistono vincenti e perdenti, dove c’è chi prevale e chi soccombe; è un luogo dove le idee cambiano di giorno in giorno, dove l’esperienza è rivoluzionaria per noi stessi, per ciò che siamo, per le nostre rappresentazioni – sempre dinamiche, sempre parziali.
Questa amicizia non è qualcosa che si sviluppa sulla concordia astratta, bensì sulla discordia della contrapposizione con ciò che devasta i nostri territori, compra e mortifica i nostri corpi e le nostre intelligenze, percuote e intossica le persone per limitare la loro speranza di poter cambiare sé stessi e il mondo che li circonda. Il segreto della lotta No Tav, la pozione magica della sua possibile riproducibilità in tutto il paese, sta nella sua capacità di produrre conflitto non meno che condivisione, piacere e amicizia. Fa parte del suo vissuto politico il riconoscimento dello scontro come uno dei momenti essenziali dell’accumulazione di forza sociale. Il conflitto non isola i movimenti, non li rende incomprensibili ai soggetti sociali; li qualifica, ne disegna la fisionomia popolare e di classe, altra rispetto al mondo delle istituzioni che danno forma al presente della devastazione e dello sfruttamento, della militarizzazione e della disinformazione. Soltanto l’indisponibilità a far parte, politicamente, di questo modello sociale può aprire a sperimentazioni politiche che dipingano scenari nuovi, cui noi sentiamo di appartenere fuori da questi rapporti di produzione della ricchezza, che sono determinati dal dominio globale di chi lucra sulla devastazione sociale e ambientale.
La scelta di dare battaglia alle lobby che vogliono sottrarci il futuro è, anche nei momenti impegnativi dell’assedio, della barricata o della rottura di un divieto, l’unica che ci permette di essere concreti, vale a dire di non delegare alla politica istituzionale la tutela delle nostre vite e dei nostri interessi. La storia del movimento mostra chiaramente che, sul piano della gestione burocratica e parassitaria dell’esistente (la gestione istituzionale, appunto), non ci sono destra o sinistra che tengano, poiché la torta da spartire è sempre la stessa: che sia il carrozzone di Lunardi da un lato, o la CMC dall’altro, i partiti della casta rappresentano l’interesse di minoranze rappresentate da potenti gruppi, che hanno a disposizione i mass-media e migliaia di uomini in divisa. Se la nostra sottrazione di potere alla controparte si è spinta, in questi anni, all’esercizio di un’influenza effettiva sulle istituzioni locali – i cui amministratori sono in molti casi dei No Tav – è perché non si è mai accettato di fare delle istituzioni il luogo deputato alla lotta o, più evidentemente, alla caciara della sua rappresentazione. La contrapposizione è la scelta obbligata del movimento perché, oggi, è scelta obbligata per chiunque pretenda giustizia. La valle sa che cosa è suo: per questo non trova più necessario attendere da qualcuno o qualcosa le ricette per la vittoria; né apprende altrove, se non nella lotta, la scienza e le pratiche della sua liberazione.