di Ivan Cicconi – Le grandi opere sono diventate il totem dei faccendieri della grande impresa post-fordista, con cui apparecchiare la tavola alla quale invitare i mariuoli dello stato post-keynesiano.
La grande impresa del capitalismo globalizzato è caratterizzata da una organizzazione fondata sul cosiddetto outsourcing, che sta ad identificare un processo di scomposizione e svuotamento della fabbrica fordista, che passa da un’organizzazione “a catena piramidale” ad un sistema “a rete virtuale”.
Questo modello di impresa non può che essere orientato al controllo dei fattori finanziari e di mercato e sempre meno ai fattori della produzione. E’ una grande impresa virtuale che inevitabilmente scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, la competizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, una competizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio, precario, atipico.
La grande opera è l’unico prodotto che può consentire a questo modello di impresa virtuale di funzionare: in alcuni casi massimizzando i profitti, in altri permettendogli semplicemente di sopravvivere. Essa è il piatto più ambito e consumato sulla tavola della nuova tangentopoli, nella in cui i faccendieri post-fordisti possono azzannare beni e risorse pubbliche, insieme ai mariuoli dei partiti virtuali dello Stato post-keynesiano. Le grandi opere consentono alla classe dirigentesul debito pubblico le risorse necessarie alla sua realizzazione. In tal senso, il progetto TAV ha costituito un modello di architettura finanziaria e contrattuale.
In esso si realizza una sorta di privatizzazione della committenza pubblica, attraverso l’affidamento in concessione della progettazione, costruzione e gestione dell’opera pubblica ad una società di diritto privato (Spa), ma con capitale tutto pubblico (TAV Spa appunto, ma anche Stretto di Messina Spa, e le migliaia di Spa di questo tipo). La Spa pubblica nel modello TAV serve solo per garantire al contraente generale (il privato) il pagamento oggi del 100% del costo della progettazione e della costruzione e di mantenere per sé (il pubblico) il rischio del recupero dell’investimento con la gestione (i debiti pubblici futuri).
Oltre ad un progressivo ricorso al contratto di concessione, nel quale la funzione del committente si trasferisce al privato e l’elemento finanziario diventa fondamentale, si sono introdotti ulteriori istituti contrattuali nei quali il regime privatistico ed il fattore finanziario sono dominanti. Ai contratti tipici se ne sono aggiunti altri (il project-financing, il global-service, il contraente generale, il contratto di disponibilità, il leasing immobiliare), nei quali la filiera del sistema della sub contrattazione non solo diventa più lunga e più articolata, ma si rendono anche inutilizzabili o di difficile applicazione le norme di contrasto della mafia, della corruzione o di tutela del lavoro, che sono state concepite e codificate per procedure di affidamento tradizionali, in particolare per l’appalto tipico. In questi casi infatti il contraente principale può sub-affidare tutte le attività in un regime privatistico, sottratto alle regole della gestione degli appalti pubblici.
Con l’uso di questi nuovi istituti contrattuali, ed in un contesto nel quale il fattore finanziario pesa in modo decisivo, si determinano condizioni che offrono opportunità straordinarie proprio a quei soggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza di riciclare capitali di provenienza illecita. Se infatti già nel contratto di appalto è connaturata una fisiologica esposizione finanziaria dell’appaltatore: sia per l’attività svolta, con la quale anticipa le risorse necessarie, sia per il patologico ritardo nei pagamenti della pubblica amministrazione; con i nuovi istituti contrattuali il valore finanziario si dilata enormemente fino a diventare il fattore determinante.
Con la diffusione delle concessioni e delle società di diritto privato controllate o partecipate, siamo allo stesso livello della ricontrattazione del debito con le operazioni dei “derivati”, che scaricano sui debiti futuri gli oneri di convenienze virtuali immediate.
Qui però stiamo parlando non di qualche decina di miliardi di euro, bensì di centinaia di miliardi di debiti che si sono già accumulati e che emergeranno solo fra qualche anno nei bilanci correnti degli enti locali che si sono avventurati in queste operazioni.
Stiamo parlando di un numero semplicemente straordinario di contratti e di società che operano in un regime di diritto privato, che sono fuori dalle regole e dal controllo della contabilità pubblica. Una marea di attività economiche, controllate, determinate e gestite da Consigli di Amministrazione delle Spa nominati dai partiti, in cui il ruolo ed i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori si confondono e diventano sempre più intercambiabili e intercambiati. La spesa pubblica dunque non è più pilotata dalla transazione occulta della tangente, ma è diventa puramente e semplicemente carne di porco azzannata direttamente e senza intermediazioni da partiti, imprese e boiardi.
La triangolazione tipica del sistema di tangentopoli è stata ampiamente sostituita da un sistema di relazioni e di convenienze più immediato e più complesso, nel quale gli illeciti sono molto più difficilmente contrastabili. In questo contesto, emerge pure un evidente paradosso: l’organizzazione mafiosa è nelle condizioni più favorevoli possibili per partecipare a questa fuga dalle regole, poiché in essa trova il suo habitat naturale: irresponsabilità dei tecnici nella gestione delle risorse; presenza diffusa, confusa e mascherata, della partitocrazia nelle istituzioni e nelle spa collegate; partiti frantumati, assenti nella società, vivi e vegeti e radicati solo nelle istituzioni e nelle spa lottizzate.